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FRANCESCO FAVARA
Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte Suprema di Cassazione
RELAZIONE SULL'AMMINISTRAZIONE DELLA GIUSTIZIA NELL'ANNO 2002
Roma, 13 gennaio 2003
SALUTO.. 4
PREMESSA.. 5
Lo stato della giustizia oggi in Italia. 5
Il problema dell'efficienza. 6
La dimensione europea della giustizia. 8
L A G I U S T I Z I A C I V I L E.. 11
A) ASPETTI GENERALI 11
Linee generali di tendenza. 11
La durata dei processi e la legge n. 89/2001 (cosiddetta "legge Pinto") 13
Misure di deflazione del numero dei processi e riforme processuali 14
Il riparto della giurisdizione dopo la legge 21 luglio 2000 n. 205. 18
B) ASPETTI PARTICOLARI 20
Il processo di primo grado. 20
a) I processi davanti al giudice di pace. 21
b) I processi di primo grado davanti ai tribunali 24
I processi di appello. 26
Il processo del lavoro e della previdenza. 28
I procedimenti in materia di famiglia. Separazioni personali. Divorzi 30
La giustizia minorile in materia civile. 31
L A G I U S T I Z I A P E N A LE.. 36
Flussi quantitativi e dati statistici 36
A) ASPETTI GENERALI 39
La perdurante crisi del processo penale. 39
I problemi del processo penale. Le varie disfunzioni 41
I problemi del diritto penale sostanziale. 49
B) I VARI TIPI DI CRIMINALITA'. L'AZIONE DI CONTRASTO.. 52
L'andamento della criminalità. Considerazioni generali 52
La criminalità organizzata. 55
a) I gruppi stranieri di criminalità organizzata 56
b) La criminalità organizzata di origine nazionale 58
Terrorismo e reati contro lo Stato. 63
Le altre manifestazioni criminose. 66
a) Omicidi, sequestri di persona, estorsioni, rapine, furti e la cd. microcriminalità. 66
b) Criminalità economica. 67
c) Reati in materia di stupefacenti 68
d) Reati contro la pubblica amministrazione. 69
e) Reati inerenti la sfera sessuale. 72
f) Reati ambientali, urbanistici e negli ambienti di lavoro. 73
g) Reati tributari 75
h) Criminalità informatica. 75
i) Criminalità minorile. 76
La Direzione nazionale antimafia. 78
Polizia giudiziaria e strutture investigative. 81
C) ESECUZIONE DELLA PENA.. 82
LA CORTE DI CASSAZIONE E LA PROCURA GENERALE. 87
I PROCEDIMENTI DISCIPLINARI 96
ASPETTI ORGANIZZATIVI 100
L'AVVOCATURA.. 105
CONSIDERAZIONI FINALI 106
INDICE DELLE TAVOLE STATISTICHE () 110
MATERIA CIVILE. 110
MATERIA PENALE. 110
SALUTO
INAUGURAZIONE ANNO GIUDIZIARIO
2003
PREMESSA
Lo stato della giustizia oggi in Italia
Si è da poco concluso un anno difficile per la giustizia, sempre al centro dell'attenzione generale per il protrarsi dei problemi che da tempo la affliggono e che tutti vorremmo ormai vedere avviati a soluzione. Una giustizia spesso troppo lenta, che si svolge secondo riti e regole tecniche che sfuggono alla comprensione dei più, con esiti spesso imprevisti, che inducono perciò taluni ad utilizzarla in modo pretestuoso, o con finalità dilatorie, e perciò ingiuste.
Una giustizia fatta di troppe leggi, di un enorme numero di processi. Al termine dell'anno di riferimento (che va dal 1 luglio 2001 al 30 giugno 2002), risultano pendenti circa 3.500.000 di processi civili, dopo che ne erano sopravvenuti oltre 1.700.000 e ne erano stati definiti più di 1.800.000; e oltre 5.700.000 processi penali, dopo che ne erano sopravvenuti quasi 6.000.000 e ne erano stati definiti pressoché altrettanti.
Questi dati complessivi, che saranno successivamente analizzati, danno subito l'idea dell'enorme mole di lavoro svolto, e da svolgere, da parte di circa 8.500 giudici togati e di altrettanti giudici onorari. E sono circa 150.000 gli avvocati che assicurano l'assistenza legale dei cittadini. Ma occorre far fronte a una domanda di giustizia che è sempre crescente, in corrispondenza con lo sviluppo economico e sociale del Paese. Il compito di amministrare la giustizia in modo corretto, giusto e anche sollecito è veramente arduo.
Questa è, nei grandi numeri, la situazione della giustizia oggi in Italia; che si protrae ormai da anni. nonostante il grande impegno profuso in questi ultimi tempi per farvi fronte. Vi sono però, in questo quadro generale, anche elementi positivi in taluni settori, nei quali anzi vi sono margini ulteriori di miglioramento se vi saranno riforme appropriate, sul piano ordinamentale e su quello organizzativo.
Con la presente relazione, nel dare conto dello stato e dell'andamento della giustizia nel periodo di riferimento, saranno esposti i principali problemi e le connesse disfunzioni del processo civile e di quello penale. Saranno esaminati anche taluni aspetti organizzativi dell'attuale apparato di giustizia, per quanto riguarda i compiti e il modo di operare dei vari uffici giudiziari e l'attività dei magistrati che li dirigono o che ne fanno parte.
Al termine di tale esame sarà possibile fare qualche valutazione più generale sul ruolo che, nel vigente quadro istituzionale, spetta alla magistratura nell'attuale momento storico, per i fermenti che animano la società civile; nonché sui compiti che essa è chiamata a svolgere nell'interesse della collettività.
Il problema dell'efficienza
Il grande problema da affrontare, che riguarda tutti i settori della giustizia, è quello dell'efficienza, al quale è connesso quello, che più direttamente interessa i cittadini, del rispetto dei tempi del processo.
Sono passati ormai più di tre anni da quando, dando attuazione alla norma di cui all'art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, venne introdotto in Italia, con il rango di norma costituzionale, accanto alle altre garanzie essenziali che devono connotare il giusto processo, il principio della sua ragionevole durata. Il nuovo articolo 111 della Costituzione mira a conseguire un preciso obiettivo: quello di costituire un sistema in cui un giudice terzo e imparziale, attraverso un processo fondato sul rispetto del contraddittorio delle parti, ammesse ad operare in condizioni di parità, possa assicurare l'applicazione del diritto in tempi ragionevoli. Il che impone una rivisitazione dell'intero ordinamento e un nuovo modo di operare dell'apparato di giustizia, che tenga conto appunto del principio di efficienza.
Il problema principale che si pone oggi nel nuovo quadro istituzionale del giusto processo è quello del contemperamento tra garanzie ed efficienza. Ma garanzie ed efficienza sono valori non contrapposti e che anzi concorrono in modo paritario alla piena ed equilibrata esplicazione della funzione giurisdizionale. L'art. 111 Cost., nell'affermare i principi-cardine di garanzia spettanti al cittadino nel processo, ha indicato - giustapponendolo agli altri - anche questo nuovo principio di effettività e tempestività della tutela giurisdizionale.
Si tratta di valori di alta civiltà giuridica, ormai acquisiti, ma non ancora attuati pienamente. Per conseguire questo risultato sono chiamati in causa non solo il legislatore, ma tutti coloro che operano nel settore giustizia, principalmente i magistrati e gli avvocati.
Il legislatore viene chiamato in causa perché, nel varare la disciplina attuativa del nuovo art. 111 Cost., dovrà assicurare il rispetto del principio della durata ragionevole del processo, modulando e contemperando con esso le regole di garanzia. Ciò tenendo anche presente che l'inosservanza del principio di effettività e tempestività della tutela giurisdizionale potrebbe comportare non solo problemi di legittimità costituzionale nell'ordinamento interno, ma anche sanzioni a livello comunitario per mancata attuazione delle riforme strutturali dirette a realizzare quel principio. Il che dovrebbe indurre il legislatore nazionale a non introdurre regole processuali che non assurgono al livello di garanzie essenziali e a valutare sempre le ricadute che le riforme possono avere sulla durata del processo.
Ma sono chiamati in causa, in modo concreto e non meno importante, anche gli operatori di giustizia, i quali dovranno svolgere la propria attività, già in base al diritto vigente, in modo da assicurare al cittadino, nei fatti, una tutela quanto più possibile sollecita dei suoi diritti: le difese curate dagli avvocati dovranno essere sobrie ed essenziali, senza richieste dilatorie o pretestuose, così come puntuali ed essenziali, anche nelle motivazioni, dovranno essere i provvedimenti dei magistrati.
La direttiva costituzionale riguardante la durata ragionevole dei processi, che comporta un obbligo di risultato, impone poi la efficienza degli apparati organizzativi e dei singoli uffici giudiziari. Questo chiama in causa anzitutto, in virtù del disposto dell'art. 110 Cost., le competenze del C.S.M. e del Ministero della Giustizia; ma poi anche le dirette responsabilità operative dei capi degli uffici giudiziari e dei singoli magistrati, ciascuno per il lavoro a lui affidato.
Dobbiamo perciò tutti operare per dare una svolta al servizio giustizia.
La dimensione europea della giustizia
Prima di iniziare l'esame dell'andamento della giustizia in Italia, occorre fare una breve riflessione sul contesto sovranazionale che si va delineando in Europa.
L'anno appena trascorso ha segnato l'affermarsi di una consapevolezza se possibile ancora maggiore dei vincoli di interdipendenza che si vanno stringendo in Europa tra i vari Paesi dell'Unione e che, proprio perché effetto di un fenomeno globale, non lasciano indifferente il mondo della giustizia.
Non è più possibile, oggi, affrontare realisticamente i temi dell'attuazione concreta del diritto in un singolo Paese, e quindi del servizio giudiziario, senza tener conto di questa realtà. Una realtà che si manifesta in forme diverse e con varia intensità a seconda degli specifici contesti che vengono di volta in volta in rilievo. Basti pensare, in primo luogo, al quadro dell'Unione Europea, prossimo oramai ad un ulteriore allargamento, e nel cui seno è in fase di avanzata realizzazione lo spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia previsto dal Trattato di Amsterdam del 1997.
Sempre di più la cooperazione tra le autorità giudiziarie dei Paesi dell'Unione si allontana dagli schemi classici del diritto internazionale, per basarsi su concetti nuovi, ancora non ben definiti, ma che vanno certamente al di là delle categorie tradizionali dell'organizzazione internazionale, ed il cui tratto comune è quello della progressiva considerazione degli ordinamenti giuridici nazionali come "europei", appunto, e non più "stranieri", con tutte le conseguenze che ne derivano quanto alla facilità di circolazione all'interno dell'Unione degli atti giudiziari di ciascuno Stato membro.
Una forte sollecitazione verso l'efficienza del sistema normativo e organizzativo della giustizia viene dall'Unione Europea, che sta oggi realizzando, in base a concreti criteri organizzativi, una serie di strutture comuni, come l'OLAF, per la protezione degli interessi dell'Unione dalle frodi, o come EUROJUSTICE, per il coordinamento delle indagini penali, con un campo di azione non limitato alla protezione degli interessi comunitari, bensì esteso alla lotta contro tutte le forme gravi di criminalità, soprattutto se organizzata.
Accanto a tali già esistenti strutture, ha iniziato a operare la Rete giudiziaria europea in materia civile e commerciale, istituita con decisione del Consiglio d'Europa del 28 maggio 2001 per affiancare la parallela Rete giudiziaria in materia penale. Si tratta di uno strumento operativo di grandi potenzialità, che varrà non solo a facilitare i rapporti intracomunitari di cooperazione giudiziaria, ma anche a fornire un potente mezzo di informazione sui sistemi giuridici di tutti gli Stati membri, aperto attraverso Internet alla consultazione generale del pubblico. In Italia sono stati costituiti due "punti di contatto", uno presso il Ministero della Giustizia e l'altro presso la Procura generale della Corte di cassazione.
Una parola non può non essere detta per ricordare un evento di rilievo storico, l'entrata in vigore, lo scorso anno, dello Statuto di Roma della Corte penale internazionale, uno strumento che ha trasferito ad un livello istituzionale le istanze di protezione della legalità e dei diritti fondamentali della persona umana. C'è da augurarsi che veda al più presto la luce la normativa interna di attuazione che consentirà, da una parte, la piena incriminazione da noi delle fattispecie criminose prese in considerazione dallo Statuto e, dall'altra, l'effettiva cooperazione con la Corte penale delle nostre autorità giudiziarie.
E' appena il caso di aggiungere che la generale grande attesa in relazione ai lavori costituenti della Convenzione europea è a pieno titolo condivisa dal mondo giudiziario.
L A G I U S T I Z I A C I V I L E
A) ASPETTI GENERALI
Linee generali di tendenza
La situazione della giustizia civile continua ad essere preoccupante, anche se in taluni settori si registrano dati confortanti. E' una situazione di crisi che esiste e perdura ormai da molti decenni, ma credo che sia da sottolineare che questa crisi riguarda soprattutto, e anzi direi esclusivamente, l'efficienza. Sul piano della qualità infatti la giurisdizione civile ha sicuramente livelli molto elevati e non è inferiore alle giurisdizioni degli altri paesi. Ma è la lentezza dei processi che ci pone in una condizione di imbarazzo di fronte agli osservatori stranieri. Superare questo deficit di efficienza rappresenta la condizione essenziale e preliminare per perseguire in modo credibile qualunque ipotesi di riqualificazione e di valorizzazione della giurisdizione.
Dall'esame delle relazioni dei Procuratori generali resta però confermata la tendenziale diminuzione in tutti i distretti delle pendenze civili, già desumibile dai dati statistici del Ministero della giustizia. Al riguardo diversi Procuratori generali rilevano che a tale risultato hanno concorso le riforme approvate durante lo scorso decennio, relative all'istituzione del giudice unico di primo grado, le riforme processuali del 1990 e del 1995 e il potenziamento della magistratura onoraria, con l'istituzione dei giudici di pace e dei g.o.a..
Una parola di ottimismo sulla base di questo dato sarebbe però prematura: dalle relazioni non emergono infatti elementi oggettivi idonei ad evidenziare una riduzione significativa dei tempi del processo e la persistenza del problema è comunque testimoniata dalle indicazioni offerte da alcune relazioni, che stimano la durata media superiore ai tre anni, con punte di cinque anni.
Si deve anche tener conto che la pendenza in grado di appello ha registrato un lieve incremento, principalmente a causa dell'aumento delle sopravvenienze.
A tali risultati hanno concorso l'aumento dei compiti attribuiti alle corti d'appello, a seguito dell'istituzione della sezione lavoro e della definizione del relativo contenzioso, al quale non ha corrisposto il contemporaneo adeguamento degli organici, l'incremento degli appelli, in particolare nei confronti delle sentenze dei g.o.a., e la maggiore efficienza del processo di primo grado, ottenuta grazie alla generale monocraticità dei giudizi .
Un caso in tal senso paradigmatico è costituito dalla Corte d'appello di Roma, presso la quale nel periodo considerato è stato registrato un aumento delle sopravvenienze (in appello) pari al 40% rispetto all'anno precedente, che sommandosi a quello altrettanto rilevante dello scorso anno (51,34%) rischia di incidere in modo negativo sia sulla entità dell'arretrato, sia sulla durata dei processi. Sempre a Roma, dai dati emerge che la nuova sezione lavoro assorbe circa il 50% dell'intero numero delle sopravvenienze.
Con riferimento agli effetti delle riforme processuali, le relazioni, nel confermare nel loro complesso un giudizio relativamente positivo sulle nuove norme introdotte a partire dal 1995, mettono però in evidenza come tali norme non siano state idonee ad incidere in profondità sul problema della eccessiva durata dei processi.
In particolare si segnala l'utilizzo sempre più frequente del giudizio cautelare, per ovviare alle lentezze del processo: vi è il rischio di una consequenziale duplicazione del numero dei processi civili (dal momento che le medesime questioni possono essere riproposte anche nella successiva fase del giudizio di merito). Ma questo rischio è più che compensato dal numero delle controversie che trovano definitiva soluzione nella pronuncia cautelare.
Tuttavia, a fronte delle disfunzioni, permane la pressoché totale inoperatività degli strumenti previsti dagli artt. 186 bis, ter e quater c.p.c., che non hanno prodotto alcun concreto risultato; e la assoluta marginalità del ricorso a strumenti di conciliazione.
La durata dei processi e la legge n. 89/2001 (cosiddetta "legge Pinto")
A conferma delle previsioni che erano state formulate, l'impatto della legge n.89/2001 (c.d. "legge Pinto") sul lavoro delle corti di appello e della corte di cassazione è stato rilevante ed è verosimilmente destinato ad aumentare, anche in considerazione della maggiore vicinanza al cittadino del giudice nazionale ora competente, rispetto alla Corte europea dei diritti dell'uomo, che in passato decideva questo tipo di controversie.
Anche se tutte le corti di appello sono gravate da questo nuovo contenzioso, rimanendo così confermata la rilevanza nazionale del fenomeno, si può oramai ritenere scongiurata la prospettiva di una ricaduta "in blocco" sul nostro sistema giudiziario dei circa 12.000 ricorsi già pendenti presso la Corte di Strasburgo, essendo decorso il termine per la riproposizione dinanzi alle corti di appello competenti dei ricorsi già presentati a Strasburgo, ma non ancora dichiarati ricevibili dalla Corte europea al momento dell'entrata in vigore della legge.
Il carico del nuovo contenzioso resta comunque considerevole e difficilmente tollerabile da un sistema già sollecitato oltre le potenzialità consentite dalle risorse umane e materiali disponibili.
Ha corrisposto pertanto ad una felice intuizione il tentativo, posto in essere con il decreto legge 11 settembre 2002 n. 201, di ridurre le sopravvenienze e le pendenze dei ricorsi per equo indennizzo attraverso un filtro precontenzioso e, per le cause pendenti, la formulazione di proposte transattive, con un meccanismo affidato ad un organo qualificatissimo quale l'Avvocatura Generale dello Stato. Anche se il decreto non è stato convertito in legge dal Parlamento, ritengo tuttavia legittimo, nel rispetto delle prerogative del legislativo e di quelle dell'esecutivo, formulare l'auspicio che l'idea di uno strumento deflattivo di questo particolare contenzioso, nei modi ritenuti più opportuni, non venga abbandonata.
L'anno decorso ha registrato il primo formarsi di una giurisprudenza della Corte di cassazione in merito alla "legge Pinto". Credo che le sentenze pronunciate dalla Corte abbiano fornito un importante contributo alla piena sistemazione di questa materia nell'ambito del diritto interno, con risultati - in termini di efficacia della tutela - del tutto equivalenti a quelli che si sarebbero ottenuti in sede europea. Si è in particolare riconosciuto valore di precedente autorevole alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, così delineando un proficuo ed interessante rapporto di integrazione reciproca tra il sistema giurisdizionale nazionale e quello europeo. In tale contesto ritengo che lo strumento approntato dalla legge n. 89 del 2001 possa veramente costituire un "rimedio effettivo" alla stregua della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, fermo restando ovviamente l'obbligo primario dello Stato di introdurre riforme idonee a contenere la durata del processo in tempi ragionevoli. E in tale direzione appunto sembra muoversi ora il legislatore.
Misure di deflazione del numero dei processi e riforme processuali
Già nella relazione dello scorso anno segnalavo che è necessario prendere atto della propensione dei cittadini a far valere i propri diritti davanti al giudice e che pertanto, al fine di conseguire l'obiettivo di una giustizia amministrata con efficienza e in tempi rapidi, è necessario, da un lato, decongestionare il flusso dei processi civili facendo ricorso a modelli alternativi rispetto alla soluzione giudiziaria della lite, dall'altro, ridurre drasticamente il numero dei processi che arrivano fino alla sentenza.
Occorre agire sui tempi del processo, anche riducendo quanto più possibile i c.d. tempi morti, che sono quelli che si accumulano durante il suo corso tra udienza e udienza. Si pensi ai tanti rinvii che disperdono le conoscenze acquisite da giudici e avvocati sui fatti di causa, nella fase di introduzione del giudizio; ai termini di impugnazione troppo lunghi (come quello di un anno e 46 giorni previsto dall'art. 327 c.p.c.); ai ritardi imputabili ai magistrati (nel deposito dei provvedimenti), agli avvocati (che richiedono, o subiscono, rinvii dovuti all'eccessivo numero di cause), o ai consulenti tecnici (nel deposito delle relazioni). Il processo potrà avere durata ragionevole solo quando saranno ridotti all'essenziale questi tempi morti.
Richiamando di nuovo la relazione dello scorso anno, ricordo che in quella sede, si auspicava l'applicazione generale dei principi contenuti nell'art. 12 della legge 3 ottobre 2001 n. 366 (di delega al Governo per la riforma del diritto societario), relativi all'introduzione di procedimenti sommari, a carattere cautelare o non cautelare, destinati a garantire in tempi rapidi - con provvedimenti esecutivi opportunamente privi di efficacia di giudicato - la tutela reale dei diritti violati, nel rispetto del principio del contraddittorio e del diritto di difesa delle controparti, trattandosi di rimedi endoprocessuali al problema della lentezza della giustizia civile, che mantengono ferma la garanzia giurisdizionale rappresentata dall'attribuzione della funzione decisionale ad un giudice imparziale e indipendente.
Oggi è possibile valutare il grado di attuazione di quei principi, avendo il governo varato, nella seduta del Consiglio dei ministri del 30 settembre 2002, uno schema di decreto legislativo recante il titolo "Definizione dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia", proprio nell'esercizio della delega conferita dall'articolo 12 della legge 3 ottobre 2001 n. 366.
Tale progetto, anche se riguarda un settore numericamente limitato di controversie, si configura, per i suoi contenuti e per la sua struttura, come possibile nuovo modello generale di processo civile destinato a sostituire, in modo anche piuttosto radicale, quello oggi vigente. A tale proposito, non sembra auspicabile un sistema di regole processuali che improntato a principi ispiratori diversi da quelli che informano l'ordinario processo di cognizione riguardi solo una determinata categoria di controversie. Infatti, se una maggiore flessibilità del sistema processuale è certamente opportuna per poter far fronte meglio alle concrete e diversificate caratteristiche dei vari rami del contenzioso civile, appare maggiormente opportuno e razionale perseguire - se mai - tale obiettivo con l'individuazione di misure idonee a rendere il processo ordinario adattabile alle caratteristiche concrete della specifica controversia.
Il modello individuato per la materia societaria e creditizia presenta numerose positive innovazioni, quali:
1. la semplificazione delle comunicazioni tra difensori, nonché tra ufficio di cancelleria e difensori nel corso del procedimento, attraverso l'utilizzo di strumenti come il telefax e la posta elettronica;
2. la previsione della sentenza con motivazione immediata di cui all'articolo 281 sexies c.p.c. come modo ordinario di pronunzia della decisione;
3. la introduzione di un procedimento sommario, proponibile con ricorso, a disposizione dell'attore che non abbia interesse al giudicato, limitatamente alle cause aventi ad oggetto pagamenti di denaro o consegna di cose determinate, con possibilità per il giudice, nel caso in cui la causa si riveli complessa, di dare un qualche maggior spazio alle attività difensive;
4. la regolamentazione di un procedimento cautelare ante causam non seguito necessariamente (ma solo se una delle parti lo richiede) dal giudizio di merito e la previsione di un procedimento cautelare in corso di causa suscettibile di trasformarsi in una sorta di giudizio ordinario abbreviato, sulla falsariga di quanto ultimamente previsto, per il processo amministrativo, dalla legge n. 205/2000;
5. la disciplina di un procedimento di conciliazione stragiudiziale, su istanza della parte interessata, davanti ad appositi organismi pubblici o privati.
Queste innovazioni contenute nello schema di decreto legislativo approvato dal governo, innestandosi nel processo riformato dalle leggi del 1990 e del 1995, possono portare ad una trattazione delle cause più razionale e più rapida, sanando le incongruenze che l'esperienza dei processi ha rivelato (come ad esempio la rigidità della frammentazione in più udienze della fase preparatoria), dovendosi prendere realisticamente atto che la cognizione piena ed esauriente non può essere negata a chi la chiede, ma essa non sempre risponde davvero agli interessi e alle richieste delle parti e non vi è motivo di imporla anche a parti che non la ritengano necessaria.
Qualche particolare considerazione merita la nuova disciplina, sempre contenuta nello schema di decreto legislativo, della fase preparatoria del processo, che è stata interamente collocata fuori dell'udienza e affidata alla trattazione scritta delle parti mediante scambio di atti, risposte e repliche minuziosamente regolamentato, con esclusione della collaborazione del giudice nella definizione del thema decidendum. L'innovazione proposta potrebbe tuttavia risultare non in linea con i principi del giusto processo e della ragionevole durata dello stesso consacrati nell'art. 111 della Costituzione, in considerazione del notevole lasso di tempo che, in conseguenza dello svolgimento delle attività preparatorie, dovrebbe intercorrere tra atto di citazione e prima udienza. Va rilevato in questa sede che il rapporto diretto e dialogico tra giudice e parti è sempre apparso il modo più ragionevole per condurre il processo di costruzione dalla decisione, seguendo i binari della ragionevolezza e rifuggendo dalle angustie dei formalismi.
Lo schema di decreto legislativo in esame prevede, infine, un sistema di rilevazione dei tempi dei procedimenti. A tal fine è stata prescritta la divulgazione annuale, nel corso della tradizionale relazione sullo stato dell'amministrazione della giustizia svolta dal Procuratore generale della Cassazione, di una specifica ed articolata notizia concernente l'attuazione della riforma, almeno dal punto di vista della durata dei procedimenti.
E' da apprezzare la disponibilità del legislatore a sottoporre il proprio operato alla severa verifica dell'esperienza e ad apportare alle sue riforme i miglioramenti, le correzioni e le revisioni che la realtà concreta consiglierà di adottare.
Il riparto della giurisdizione dopo la legge 21 luglio 2000 n. 205
Come già osservato nella relazione dello scorso anno, la recente riforma del sistema di riparto della giurisdizione di cui alla legge 21 luglio 2000 n. 205, ha inciso su aspetti fondamentali relativi non soltanto all'assetto della giurisdizione nel suo complesso organizzativo, ma anche alla stessa tutela delle posizioni soggettive, con tendenza verso il superamento della distinzione tra diritto soggettivo e interesse legittimo, e sul funzionamento del processo.
L'anno trascorso offre lo spunto per un parziale esame dell'esperienza attuativa della legge n. 205/2000, che ha costituito il punto di arrivo di una vicenda storica complessa, caratterizzata da spinte anche in parte contrastanti, di rafforzamento della tutela del cittadino e dell'utente nei confronti delle pubbliche amministrazioni, di efficienza del processo e di specializzazione dei giudici in determinate materie.
Ciò ha, come è noto, comportato il conferimento alla giurisdizione amministrativa esclusiva di rilevanti materie, concernenti i servizi pubblici, l'urbanistica e l'edilizia, con il potere di condanna della pubblica amministrazione al risarcimento anche in forma specifica.
Questo nuovo riparto della giurisdizione pone interrogativi di rilievo, che emergono chiaramente anche da questa prima fase di attuazione.
In primo luogo, emerge il tema della compatibilità di questa forte dilatazione della giurisdizione esclusiva con un assetto costituzionale che ha tradizionalmente privilegiato il giudice ordinario quale giudice dei diritti. In tale assetto, il ruolo di interprete e di guida della Corte di cassazione veniva a ricoprire una funzione di cerniera, oggi invece posta in crisi dal dualismo di diverse giurisdizioni, che secondo la riforma, pur giudicando entrambe su posizioni di diritto soggettivo, possono giungere a conclusioni contrastanti, in ordine a questioni identiche senza che esista una sede di composizione e di indirizzo dell'interpretazione delle norme.
Questi profili evidenziano probabilmente quanto sia ancora attuale l'obiettivo dell'unità della giurisdizione, strettamente collegato al compito della Suprema Corte di Cassazione, "quale organo supremo della giustizia, "di" assicurare . l'uniforme interpretazione della legge, l'unità del diritto oggettivo nazionale", oltre che "il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni" (art. 65 dell'ordinamento giudiziario di cui al regio decreto 30 gennaio 1941 n. 12).
Inoltre deve osservarsi che l'indicazione delle materie rimesse, rispettivamente, alla giurisdizione amministrativa esclusiva e a quella ordinaria non sembra sempre rispondere a criteri coerenti con il fine della specializzazione e dell'efficienza che si vorrebbe perseguire. Il che è a dirsi per quanto rigurda l'attribuzione al giudice ordinario di materie relative al lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni; mentre per quella, di tutt'altra natura, relativa alla disciplina dell'immigrazione (ricorsi avverso le espulsioni previsti dal t.u. n. 286 del 1998), sembra però essere giustificata solo in base alla concezione storica del giudice ordinario quale giudice dei diritti fondamentali o comunque dotati di garanzia costituzionale. D'altro canto, la materia dei servizi pubblici considera al suo interno una gamma di rapporti e di situazioni soggettive della cui omogeneità è lecito dubitare, come emerge anche dalla recente giurisprudenza delle Sezioni unite della Corte di cassazione che, in tema di giurisdizione, ha riconosciuto (applicando tuttavia il regime transitorio previsto dalla legge n. 205) alla posizione soggettiva degli utenti del servizio sanitario la tutela del giudice ordinario.
B) ASPETTI PARTICOLARI
Rinviando, per quanto riguarda il giudizio di legittimità, alla speciale trattazione che se ne farà nel capitolo sulla Corte di cassazione, si espongono qui di seguito i dati relativi al giudizio di merito.
Questi dati sono quelli forniti dal Ministero della Giustizia. Essi, secondo la prassi sin qui sempre seguita, riguardano i processi di cognizione ordinaria - compresi quelli relativi alle controversie di lavoro e previdenza e alle controversie agrarie - mentre non comprendono tutta una miriade di procedimenti di varia natura (volontaria giurisdizione, esecuzioni, fallimenti, separazioni e divorzi, procedimenti speciali in genere) che assommano a circa 1.500.000 di procedimenti all'anno e che contribuiscono non poco ad aggravare il carico di lavoro dei giudici.
Il processo di primo grado
I prospetti statistici elaborati dal Ministero della giustizia mostrano, a livello nazionale, una lieve riduzione delle pendenze dei giudizi di primo grado. Complessivamente, infatti, le cause pendenti, che erano 3.277.963 al 30 giugno 2001, sono passate a 3.135.371 al 30 giugno 2002, con una riduzione quindi, di 142.592 unità. Le cause di nuova iscrizione, che erano state 1.609.503 nel periodo dal 1° luglio 2000 al 30 giugno 2001, sono salite a 1.648.048 nel periodo dal 1° luglio 2001 al 30 giugno 2002. Le cause esaurite sono di contro aumentate da 1.650.482 a 1.807.463 ed in particolare è aumentato il numero delle sentenze: da 873.946 a 1.017.044. E' quindi subito da sottolineare che la lieve riduzione delle pendenze non è frutto della riduzione delle sopravvenienze, ma del fatto che nel frattempo è aumentata, significativamente sia pure in misura non ancora soddisfacente, la produttività del sistema.
La disaggregazione dei dati sui quali ho in precedenza riferito dimostra però che la lieve riduzione delle pendenze non costituisce un dato omogeneo, in quanto se la pendenza davanti ai tribunali è fortemente diminuita, quella davanti ai giudici di pace è invece notevolmente aumentata.
a) I processi davanti al giudice di pace
In particolare, con riferimento ai giudici di pace, le pendenze al 30 giugno 2002 erano di 707.515 processi, con un aumento, quindi, dell' 10,1 % rispetto all'anno precedente (642.350 processi pendenti al 30 giugno 2001), che registrava a sua volta un aumento del 28,5% rispetto all'anno prima. Analogo l'andamento delle sopravvenienze: nei dodici mesi tra il 1° luglio 2001 e il 30 giugno 2002 sono stati iscritti davanti ai giudici di pace 791.605 processi, con un aumento dell'11% rispetto ai 713.305 iscritti nell'anno precedente (negli stessi dodici mesi le sopravvenienze davanti ai tribunali sono invece diminuite del 5,3 %). Infine, il numero dei processi definiti dai giudici di pace è passato da 572.565 a 726.845, con un aumento del 26,9 %.
Anche quest'anno, come negli anni passati, si registra una notevole eccedenza delle sopravvenienze rispetto al numero dei processi esauriti, con conseguente progressivo aumento sia delle pendenze che della durata dei processi. Va però rilevata come dato positivo la circostanza che si mantengono fermi l'indice di smaltimento (pari a circa il 50 per cento) e la durata media dei processi, inferiore all'anno (esattamente a 337 giorni, a fronte dei 324 dell'anno precedente) e corrispondente ad un terzo della durata media dei processi di primo grado davanti ai tribunali.
I dati ora riportati dimostrano ampiamente l'importanza che ha assunto, nei fatti, questa nuova figura di giudice. E' sufficiente osservare il dato delle sopravvenienze negli ultimi dodici mesi (791.605, a fronte degli 845.393 processi pervenuti nello stesso periodo ai tribunali) per constatare che il giudice di pace si avvia a gestire la metà del contenzioso civile di primo grado. Si è quindi conseguito il risultato di alleggerire notevolmente il carico di lavoro dei tribunali, attraverso la creazione di un settore della giurisdizione, riservato alle controversie minori, affidato ad un giudice onorario diffuso sul territorio e connotato da maggiore rapidità, in un più ampio disegno di recupero di efficienza dell'organizzazione giudiziaria e di soddisfazione della domanda di giustizia.
In tale contesto va quindi confermato il giudizio complessivamente positivo espresso negli anni passati sull'attività del giudice di pace, anche per il ruolo di sostegno svolto nei confronti della magistratura ordinaria e come presidio legale per contrastare il crescente fenomeno del rifiuto del processo civile e della fuga dalla giurisdizione.
Il giudizio positivo è del resto confermato, sia pure con qualche differenza tra distretto e distretto, dalla quasi totalità delle relazioni distrettuali, nelle quali è stato messo particolarmente in luce che le sentenze dei giudici onorari hanno di regola un livello qualitativo adeguato e sono oggetto di appello in misura esigua.
Nelle relazioni di alcuni Procuratori generali emerge però la preoccupazione in ordine alla possibile formazione dell'arretrato e ad una non razionale distribuzione sul territorio degli uffici del giudice di pace. In particolare, in riferimento a quest'ultimo inconveniente, si segnala (richiamo in via esemplificativa la relazione del Procuratore generale di Bologna) la disfunzione originata dal forte aumento del carico di lavoro presso le sedi collocate nei capoluoghi di provincia e, all'inverso, la scarsa utilità di uffici operanti presso piccoli centri, per i quali si auspica la soppressione e l'accorpamento agli uffici con maggior carico.
Da altre relazioni (ed in particolare da quella del Procuratore generale di Napoli) si ricava invece un quadro meno positivo, tale da indurre quell'Ufficio a suggerire una riflessione sui costi e benefici indotti dall'entrata in scena del giudice di pace. Si fa riferimento, in particolare, alle disparità verificatesi nei criteri di retribuzione. Già negli anni passati erano stati segnalati, in alcuni distretti, casi di strumentale e artificioso proliferare di controversie, provocato con vari espedienti, con conseguente incremento dei costi di tale tipo di giustizia, anche sotto il profilo dei compensi spettanti a ciascun giudice su ogni singola causa. Incidentalmente si osserva che il problema si è in qualche modo riprodotto, con analoghe modalità, in relazione ai procedimenti penali definiti con provvedimenti di archiviazione, impropriamente equiparati, sotto il profilo dei compenso, alle sentenze ed ad altri più impegnativi provvedimenti decisori. Al riguardo, è intervenuto il decreto legge n. 251 dell'11 novembre 2002 il quale, all'articolo 6, ha dettato una nuova disciplina della materia che dovrebbe eliminare gli inconvenienti che si sono verificati.
Restano da risolvere alcuni problemi, legati, in casi sporadici, all'insorgenza di comportamenti non conformi a principi di correttezza professionale e più in generale relativi all'assetto ordinamentale dei giudici di pace, con particolare riguardo all'efficace esercizio delle funzioni di vigilanza e controllo e all'aspirazione, diffusa nella categoria di tali magistrati onorari, alla stabilizzazione del rapporto, con conseguenti delicati problemi sul piano istituzionale e costituzionale.
Spetta al Consiglio superiore della magistratura ogni utile iniziativa per favorire, nell'ambito di un più ampio progetto di qualificazione e aggiornamento, l'assimilazione da parte dei giudici di pace dei principi di deontologia professionale, mentre per quanto riguarda la disciplina ordinamentale, le scelte del legislatore, come può desumersi da un progetto di legge all'esame della Camera dei deputati, sembrano orientate alla creazione in ogni regione di un Consiglio regionale per i giudici di pace, al quale sarebbero trasferite tutte le competenze relative a tali uffici, attualmente attribuite ai consigli giudiziari e al C.S.M. Esplicita finalità della proposta di legge è quella di accentuare il collegamento del giudice di pace con la comunità in cui esercita la giurisdizione, ricevendo da questa la propria legittimazione, ma la prospettiva della regionalizzazione dell'assetto ordinamentale dei giudici di pace comporta rischi di incostituzionalità e il pericolo della frammentazione e della caratterizzazione territoriale della giurisdizione onoraria, che verrebbe ad essere inopportunamente esposta al pericolo di condizionamenti ambientali. Appare opportuno sottolineare che il giudice di pace, quale magistrato onorario, appartiene all'ordine giudiziario ed è assoggettato alla normativa che si applica ai magistrati togati (in quanto compatibile con la natura onoraria della funzione) e alla funzione di governo del Consiglio superiore della magistratura, a garanzia dell'indipendenza dell'organo giudiziario e della qualificazione professionale dei giudici di pace, intesa in senso ampio, non solo come acquisizione di conoscenze tecniche, pratiche e deontologiche, ma anche come consapevolezza dell'autonomia e imparzialità della funzione giurisdizionale.
Merita infine positiva considerazione la disposizione contenuta nell'art. 4 del decreto legge 11 settembre 2002 n. 201, convertito nella legge 14 novembre 2002 n. 259, con la quale si è inteso risolvere, attraverso lo snellimento delle procedure di ammissione al tirocinio, il grave problema della tempestività degli avvicendamenti resi necessari dalla temporaneità delle funzioni di giudice di pace.
b) I processi di primo grado davanti ai tribunali
Anche quest'anno si rileva una riduzione significativa (pari all'8%) del numero dei processi pendenti presso i tribunali. Da 2.627.186 procedimenti pendenti al 30 giugno 2001 si è passati a 2.416.847 al 30 giugno 2002. Una riduzione, quindi, certamente apprezzabile, anche perché si aggiunge ad una equivalente riduzione dell'anno precedente, a dimostrazione di una tendenza positiva di carattere non transitorio, ricollegabile in gran parte alla progressiva riduzione del numero delle cause sopravvenute, passate da 893.028 nel periodo 1° luglio 1999 - 30 giugno 2000 a 845.393 nei dodici mesi successivi, per scendere ulteriormente fino a 809.017 nell'ultimo periodo di riferimento.
A sua volta, la riduzione delle sopravvenienze di nuove cause davanti ai giudici togati di primo grado si spiega in gran parte - come si è visto - con l'affidamento di una quota notevole del contenzioso al giudice di pace.
Suscita un cauto ottimismo per il futuro la constatazione che il numero dei processi definiti in questi ultimi dodici mesi è notevolmente superiore a quello dei processi sopravvenuto nel medesimo periodo: 1.072.719 contro 845.393. Se questa tendenza dovesse mantenersi anche nei prossimi anni si determinerebbe una progressiva riduzione delle pendenze arretrate, con favorevoli effetti anche sulla durata media dei giudizi, la quale dipende soprattutto dall'entità del carico di processi che ciascun giudice è tenuto a gestire.
Il dato relativo alla durata media dei processi davanti ai tribunali si mantiene, ormai da vari anni, intorno ai mille giorni, pari a poco meno di tre anni. Questo dato richiede peraltro di essere analizzato per poterne comprendere appieno il significato. Occorre considerare, in primo luogo, che nel calcolo si computano anche i procedimenti in materia di lavoro, che hanno mediamente una durata assai inferiore: ne consegue che la durata media dei normali processi civili ordinari è certamente superiore al triennio. In secondo luogo, il dato rappresenta la somma di due distinti fattori: quello dei processi di nuovo rito (per i quali molte relazioni evidenziano un'accelerazione dei tempi processuali, quale effetto delle riforme intervenute) e quello dei processi affidati alle sezioni stralcio, che hanno dovuto scontare iniziali gravi difficoltà di avvio, legate soprattutto ai ritardi nelle nomine dei giudici onorari aggregati di tribunale e alla scarsa dotazione di locali e personale amministrativo. Inoltre, i processi che attualmente pendono davanti ai giudici onorari aggregati comportano tempi di definizione più lunghi, in quanto, nei ruoli ad esaurimento, i giudizi che restano in trattazione sono normalmente quelli più complessi e di più difficile definizione, come sottolineato in alcune relazioni dei Procuratori generali.
I dati provenienti dalle sedi distrettuali, peraltro, segnalano che nella maggior parte delle corti di appello il contenzioso affidato a queste sezioni potrà essere esaurito entro il quinquennio previsto dalla legge. Le pendenze finali, per questi processi, sono passate da 503.234 del 1999 a 347.763 del giugno 2001 e a 238.793 dal luglio 2002. Se si considera che più si riduce il numero dei processi pendenti, maggiore è la possibilità di una loro più celere trattazione, appare lecito guardare con ottimismo alla prospettiva di esaurire effettivamente lo stralcio entro i cinque anni che erano stati previsti (anche se la riduzione del numero dei processi definiti nell'anno impone un attento controllo sulle cause del rallentamento).
La relativa positività dei dati degli ultimi anni è forse insufficiente a parlare di una vera e propria inversione di tendenza. Essa però dimostra che l'obiettivo di ridurre la durata dei processi civili può essere raggiunto proseguendo nel disegno riformatore già iniziato e agendo sul piano dell'impegno professionale e dell'acquisizione di una più matura cultura dell'organizzazione degli uffici e del lavoro individuale.
I processi di appello
La pendenza in grado di appello ha registrato un lieve incremento, essendo passata dalle 242.446 cause del 30 giugno 2001 alle 247.312 del 30 giugno 2002. Questo dato è da collegare principalmente alla sopravvenienza, che è notevolmente aumentata: mentre nei dodici mesi dal 1° luglio 2000 al giugno 2001 era stata di 95.222, negli ultimi dodici mesi è salita a 104.560.
A tale impennata delle sopravvenienze, si è aggiunta (sia pur molto lieve) la riduzione del numero dei processi esauriti, che quest'anno sono stati 102.052, rispetto ai 102.319 dell'anno precedente. Peraltro è noto che l'aumento delle sopravvenienze per ciascun giudice determina un incremento del ritardo nella definizione dei processi. Il risultato complessivo è che nel 2002, a differenza dell'anno precedente, il numero dei processi esauriti è inferiore a quello dei processi sopravvenuti. Un'inversione di tendenza che potrebbe essere pericolosa per la funzionalità ed efficienza del processo di appello, se dovesse essere confermata anche negli anni a venire, e che è dovuta probabilmente anche ad una produttività talmente inferiore a quella di tanti altri uffici giudiziari.
E' da tenere presente, peraltro, che i dati complessivi richiamati riguardano sia i giudizi davanti alle corti d'appello, sia quelli di appello davanti ai tribunali. Come è noto, la riforma del giudice unico ha devoluto dai tribunali alle corti d'appello la cognizione in secondo grado di importanti quote di contenzioso, come quelle in materia di lavoro e previdenza e in materia di locazione, mentre ha lasciato al tribunale la cognizione dei gravami contro le sentenze del giudice di pace. Il saldo di questi passaggi si è tradotto, per quanto riguarda i giudizi di secondo grado, in un aumento notevole delle sopravvenienze per le corti d'appello ed in una considerevole riduzione delle stesse per i tribunali.
Per questi ultimi, infatti, la pendenza finale di processi d'appello, che già era passata dai 147.296 del giugno 2000 ai 103.410 del giugno 2001, si è ulteriormente ridotta a 71.451. In due anni, quindi, il contenzioso di secondo grado davanti ai tribunali si è dimezzato, in corrispondenza della riduzione, nello stesso arco di tempo, da 33.412 a 7.272 delle sopravvenienze annue. L'ultimo dato ora menzionato equivale sostanzialmente a quello, pari a 7.352, dell'anno precedente: il che significa una sostanziale stabilizzazione del numero degli appelli contro le pronunzie del giudice di pace. Il residuo carico di procedimenti di secondo grado davanti ai tribunali - che comprende anche gli appelli in materia di lavoro e previdenza non ancora esauriti - si connota per una durata media abnorme, anche se diminuita rispetto agli anni precedenti: 1.338 giorni, pari a oltre tre anni e mezzo.
Molto minore è invece la durata dei processi di secondo grado davanti alle corti d'appello, pari a 727 giorni e quindi a circa due anni. Va però segnalato con allarme l'aumento di questo dato rispetto a quello dell'anno scorso, che era pari a 641 giorni, in conseguenza dell'incremento del numero dei nuovi procedimenti (soprattutto nel periodo tra il 1999 e il 2000) e in particolare della devoluzione alle corti dell'appello dei giudizi in materia di lavoro e di previdenza sociale. Questo è infatti l'andamento delle sopravvenienze nel triennio: 58.400 dal luglio 1999 al giugno 2000, 87.870 da tale data al giugno 2001 e 97.288 nei dodici mesi successivi.
Il processo del lavoro e della previdenza
Quanto al processo del lavoro, dall'esame delle relazioni pervenute dagli uffici giudiziari non emergono ancora dati di rilievo in riferimento all'impatto della riforma che ha trasferito al giudice ordinario, con l'eccezione di alcune specifiche categorie, la competenza in materia di controversie di lavoro dei dipendenti pubblici. Potrebbe peraltro trattarsi di una stasi temporanea, destinata ad essere superata, una volta esaurita la fase transitoria prevista dal decreto legislativo n. 80 del 1998 ed una volta che gli studi legali specializzati nel settore si saranno meglio attrezzati per il diverso rito che ora è destinato a queste cause.
E' però opportuno segnalare che l'impatto sarà, negli anni prossimi, rilevante sotto il profilo qualitativo, oltre che sotto quello quantitativo. Infatti, le recenti e ripetute riforme legislative della dirigenza pubblica, il cui rapporto di lavoro è stato anch'esso contrattualizzato, potranno porre all'attenzione del giudice del lavoro anche il delicato tema della relazione tra sistema di governo e amministrazione, che le riforme della scorsa e dell'attuale legislatura hanno inteso instaurare in tale particolare settore. Su questo piano, il sistema è destinato ad attraversare una fase di profondo rinnovamento, anche perché l'applicazione della nuova disciplina sostanziale relativa alla dirigenza è accompagnata - come si è detto - dall'introduzione di un nuovo rito per i dipendenti pubblici davanti al giudice ordinario.
Al 30 giugno 2001 le cause di lavoro e previdenza pendenti in primo grado risultavano essere 1.090.718 (dai dati statistici trasmessi dal Ministero della giustizia). Un anno dopo - e cioè al 30 giugno 2002 - tale numero si è ridotto a 1.016.947. Per l'appello la situazione è preoccupante, specie in alcune grandi corti (come Napoli), nonostante l'impegno che viene profuso e la pendenza è perciò, come già si è detto, aumentata, da 53.010 a 76.189, mentre si è ridotta da 80.604 a 50.635 la pendenza ad esaurimento dei processi d'appello davanti ai tribunali.
Nonostante questa mole abnorme di contenzioso (e nonostante che il numero dei magistrati addetti al settore sia proporzionalmente minore), la durata media dei processi di lavoro continua ad essere notevolmente inferiore rispetto alla media dei processi civili: 732 giorni per il primo grado (con una certa riduzione rispetto a quella dello scorso anno, che era di 755 giorni). Si tratta certamente di tempi molto superiori a quelli che il legislatore del 1973 aveva preventivato e voluto, ma essi comunque confermano che quel modello processuale, unito ad una spiccata specializzazione del giudice, consente una gestione più razionale del carico processuale.
Resta invece connotata negativamente la durata delle cause previdenziali, che è in media di 1.019 giorni. Le ragioni del maggior tempo richiesto per la definizione di queste controversie non sono facilmente comprensibili: è possibile che il fenomeno possa essere attribuito all'incidenza dell'accertamento medico-legale, che sfugge in larga misura al controllo del giudice. Il dato, comunque, dimostra la necessità di una riforma processuale e sostanziale specificamente rivolta a questo settore del contenzioso che, in larga misura - mi riferisco alle cause genericamente definibili "di invalidità" - presenta spesso caratteri più propri di un accertamento tecnico garantito che di una cognizione giurisdizionale. In questo medesimo settore, poi, vi è stato di recente un caotico accavallarsi di riforme legislative che hanno reso più complicati e incerti i giudizi, moltiplicandoli e rendendone più difficile la gestione.
Sono state attuate riforme processuali del contenzioso del lavoro e della previdenza che ancora richiedono di essere verificate ed altre ancora ne vengono continuamente ipotizzate. In generale si tende provvidamente, in questi progetti normativi, a favorire la composizione o la definizione stragiudiziale delle controversie mediante la valorizzazione di procedure conciliative oppure il rafforzamento delle procedure amministrative o arbitrali.
Non ci si può nascondere peraltro che la legge sul processo del lavoro del 1973 aveva previsto specifiche procedure di conciliazione, anche al fine di alleggerire il carico di lavoro giudiziario, oltre che nell'intento di agevolare metodi di composizione delle controversie più gestibili dalle parti sociali e più consoni a rapporti che erano destinati a continuare anche dopo la definizione della controversia. Previsioni che però non hanno avuto conferma nei risultati ottenuti e anzi è elevatissimo il numero di controversie che invece vengono conciliate davanti al giudice del lavoro.
I procedimenti in materia di famiglia. Separazioni personali. Divorzi
Anche quest'anno sono in netta progressione i ricorsi per separazione personale e per scioglimento del vincolo matrimoniale. Il che riflette il profondo mutamento sociale di questi ultimi decenni e il crescente aumento delle crisi dei matrimoni.
E' un dato che viene riferito da tutti i Procuratori generali e che desta preoccupazione, ove si tenga conto che il segnale di crisi coinvolge soprattutto famiglie di recente formazione, a conferma di una precarietà affettiva che è spesso il portato di una precarietà economica , con effetti di pesante ricaduta nei confronti dei minori, specie nelle situazioni culturalmente più degradate.
Va segnalato il ruolo promozionale svolto in materia dalla giurisprudenza dei giudici di legittimità e di merito, cui si deve una particolare attenzione nella tutela del soggetto economicamente più debole. Si è andato infatti consolidando l'orientamento secondo il quale i genitori sono tenuti a concorrere al mantenimento dei figli anche dopo il raggiungimento della maggiore età degli stessi, salvo a fornire la prova che il mancato svolgimento di un'attività economica sia dovuto ad inerzia o a rifiuto ingiustificato, da valutare secondo criteri di relatività.
In tale direzione si muove anche il recente orientamento che ha consentito una forte accelerazione dei tempi necessari per ottenere la pronuncia di divorzio, avendo affermato l'autonomia della domanda di separazione rispetto alla richiesta di addebito, sicché è ora possibile chiedere il divorzio anche in pendenza della causa relativa all'addebito.
La giustizia minorile in materia civile
La giustizia civile minorile rappresenta un settore nel quale la società esprime una domanda di giustizia in continua espansione e che non sempre riesce ad ottenere una risposta adeguata a causa della fragilità del sistema delle strutture di protezione del minore.
La carenze dei servizi sociali territoriali, la difficoltà di reperire al proprio interno figure professionali qualificate per l'espletamento delle delicate indagini da svolgere, in particolare nel settore delle adozioni, nonché la carenza di comunità di accoglienza o di strutture similari, non consentono ai tribunali per i minorenni di far fronte adeguatamente ai problemi relativi al maltrattamento e all'abuso dell'infanzia, così come al disagio e al disadattamento adolescenziale.
Deve aggiungersi che la frammentarietà delle competenze tra giudice ordinario e giudice minorile, in particolare in materia di provvedimenti che incidono sull'esercizio della potestà genitoriale, oltre ad essere fonte di confusione per l'utente, costituisce un ulteriore elemento di irrazionalità del sistema, con una conseguente moltiplicazione dei ricorsi in un settore in cui la delicatezza dei temi in discussione e l'incidenza dei provvedimenti adottati sulle condizioni di vita del minore suggerirebbero concentrazione delle competenze, unitarietà dell'intervento e specializzazione degli operatori.
Il settore minorile necessita dunque di servizi professionalmente qualificati e presenti sul territorio, nonché di strutture di sostegno in grado di far fronte ai fenomeni del disagio e della marginalità dei minori; fenomeni amplificati dall'enorme aumento della immigrazione clandestina di minori non accompagnati, che determina una situazione di generale emergenza assistenziale.
I più recenti interventi legislativi non hanno migliorato il quadro normativo di riferimento, al di là delle intenzioni del legislatore.
La legge n. 149/2001, in ossequio al principio costituzionale del c.d. giusto processo introdotto con la modifica dell'art. 111 della Costituzione, ha strutturato il procedimento per la dichiarazione dello stato di adottabilità come procedimento di parte, assegnando al P.M. un ruolo fondamentale e introducendo la difesa di ufficio; una innovazione radicale ed incisiva, diretta a recuperare pienamente la terzietà del giudice, ma che con successivi decreti legge è stata congelata fino al 30 giugno 2003 per problemi di coordinamento con la legge sul patrocinio dei non abbienti e in attesa di una compiuta disciplina sulla difesa di ufficio.
Anche la nuova disciplina dell'art. 333 del codice civile, introdotta dalla legge n. 149/2001 e non ancora in vigore, necessita di un coordinamento con la legge n. 154/2001, contenente "misure contro la violenza nelle relazioni familiari", al fine di evitare pronunce del giudice minorile contrastanti con quelle del giudice ordinario.
Infine, nonostante l'entrata in vigore della legge - quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali (legge n. 328/2000), tutti i Procuratori generali hanno denunciato la carenza dei servizi sul territorio. Il che, oltre a rendere difficoltoso il lavoro giudiziario, sovente ne vanifica gli effetti.
Un breve cenno va fatto al disegno di legge di iniziativa governativa n. 2517/C in materia di diritto di famiglia e dei minori, che affronta i problemi della giustizia minorile mediante la soppressione delle competenze civili del tribunale per i minorenni (adozioni interne e internazionali, interventi sulla potestà dei genitori, affidamento dei figli naturali) e il trasferimento delle medesime al tribunale ordinario con istituzione, a organico invariato, di una sezione specializzata composta di soli giudici togati. Il tribunale per i minorenni verrebbe mantenuto, con riduzione dei componenti onorari, per l'esercizio delle sole funzioni penali.
L'iter dei lavori parlamentari - una volta superata l'emotività determinata da gravi fatti di cronaca - sembra peraltro rispondere all'esigenza di una riflessione più ampia, che faccia perno sulla necessità di intervenire unitariamente nel settore civile e penale.
Pur senza entrare nel merito delle scelte di competenza del legislatore, la unificazione delle competenze in materia di minori e famiglia appare obiettivo condivisibile, ma altrettanto auspicabile appare il mantenimento in capo ad un solo organo delle competenze civili e penali, per l'armonizzazione degli interventi rivolti al recupero del minore deviante.
E' auspicabile altresì il mantenimento della componente onoraria, in considerazione dell'apporto diretto e dialettico degli esperti nella trattazione e nella decisione di cause che richiedono saperi extragiuridici per una soluzione che sia la più aderente all'interesse del minore, nonché l'introduzione di regole puntuali in materia di diritto di difesa, di garanzie processuali e di ragionevole durata del processo.
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Nell'attuale quadro ordinamentale e processuale, l'attività dei tribunali per i minorenni si segnala per l'enorme carico di lavoro svolto in materia di adozioni e di provvedimenti limitativi o ablativi della potestà genitoriale.
I nuovi adempimenti imposti dalla legge 476/1998, quale l'audizione diretta e la valutazione delle coppie aspiranti all'adozione internazionale, hanno creato problemi nell'espletamento delle procedure, a causa della mancanza di personale specializzato presso i Servizi territoriali.
Generalmente, nelle relazioni dei Procuratori generali si segnala una scarsa preparazione dei coniugi in ordine ai problemi e alle difficoltà connesse all'introduzione nelle famiglie italiane di minori di diversa cultura, spesso con passato traumatico o costituito da lunga istituzionalizzazione. Per tutti i tribunali per i minorenni i dati evidenziano l'assoluta prevalenza delle adozioni internazioni rispetto a quelle nazionali.
L'affidamento eterofamiliare, diretto a tamponare situazioni di temporaneo disagio e di carenze nella famiglia di origine, non ha dato risultati soddisfacenti. Il numero dei provvedimenti di affidamento è contenuto, al Nord come al Sud del Paese. Il che è da attribuire presumibilmente alla mancanza di una effettiva cultura della solidarietà e alla difficoltà di gestire rapporti affettivi concorrenti in vista del rientro del bambino in famiglia.
Va segnalata la delicata attività svolta dalle procure presso i tribunali per i minorenni nei riguardi di minori vittime di violenze e maltrattamenti, in stretto collegamento con la procura ordinaria, titolare del procedimento penale contro l'autore delle violenze che non sia minore di età. Da non trascurare anche l'intervento della giustizia minorile in ordine all'evasione dell'obbligo scolastico, che ha dato luogo - come nel distretto di Palermo - a forme di collaborazione con il Provveditorato agli studi per un controllo capillare sui minori inadempienti e sui loro nuclei familiari, al fine di rimuovere le cause di dispersione scolastica e di evidenziare situazioni di rischio che superano le stesse problematiche della evasione dell'obbligo scolastico.
Infine va segnalato che il crescente numero di matrimoni fra italiani e cittadini stranieri ha reso più frequente l'applicazione delle convenzioni internazionali in materia di affidamento dei figli minori.
L A G I U S T I Z I A P E N A LE
Flussi quantitativi e dati statistici
Per una corretta analisi dello stato della giustizia penale, prima ancora di esaminare gli aspetti generali e poi quelli particolari, conviene avere conoscenza dei flussi quantitativi riguardanti i procedimenti penali, in relazione all'andamento della criminalità che ad essi dà origine, e la tipologia dei provvedimenti che li definiscono.
I dati statistici relativi ai procedimenti penali nel periodo 1° luglio 2001 - 30 giugno 2002 evidenziano una riduzione delle sopravvenienze rispetto al corrispondente periodo anteriore, essendo le stesse passate da 6.254.041 a 5.964.463. E' così proseguita una linea di tendenza già emersa lo scorso anno. Per contro, risulta negativo il dato concernente i procedimenti definiti, che ha subito una consistente contrazione: da 6.223.066 al 30 giugno 2001 a 5.858.526 al 30 giugno 2002. Con la conseguenza che le pendenze totali hanno subìto un ulteriore incremento: 5.721.653 rispetto a 5.512.692 dell'anno precedente (+3,8%).
Si tratta di un dato nazionale che deve essere valutato con molta prudenza in quanto sconta anche situazioni emergenziali verificatesi a livello locale. L'esame delle relazioni dei Procuratori generali evidenzia che, a fronte di numerosi uffici con situazioni sostanzialmente analoghe all'anno precedente, si registrano anche dati incoraggianti in taluni importanti distretti, con pendenze in diminuzione rispetto al precedente periodo, per essere stati gli affari eliminati in numero superiore a quello (pur sempre cospicuo) degli affari sopravvenuti. Vi è chi comincia a parlare di "netto e progressivo miglioramento" (Palermo), col venir meno, in parte, delle deficienze e degli inconvenienti verificatisi negli anni precedenti, pur permanendo insoddisfacente la situazione complessiva.
Altri significativi elementi di valutazione si possono desumere dai dati riguardanti gli esiti dei procedimenti, con la relativa tipologia, portati alla cognizione del giudice, limitatamente tuttavia alle fasi delle indagini preliminari e del giudizio di primo grado (mancano quelli relativi all'appello, mentre per il giudizio di cassazione se ne riferirà allorché si parlerà di tale organo). Emerge da tali dati che, nel periodo considerato, presso gli uffici del GIP si sono avuti 2.015.355 decreti di archiviazione (-6,20%) e 8.936 sentenze di non luogo a procedere (-14,77%). Di contro si sono avuti 28.869 decreti che dispongono il giudizio (-3,80%), 60.680 decreti di condanna divenuti esecutivi (-17,60%), 12.394 sentenze a seguito di giudizio abbreviato (+20,84%) e 27.625 sentenze di patteggiamento (+6,72%). Presso i tribunali, invece, si sono avute 55.666 sentenze di proscioglimento e assoluzione (-6,62%), 9.253 sentenze promiscue (-18,04%) e 146.329 sentenze di condanna, di cui 51.666 di patteggiamento (+7,02%).
Complessivamente, nei due uffici, i procedimenti esitati nei quali è stata esercitata l'azione penale sono stati 543.200, mentre le sentenze di non luogo a procedere, di proscioglimento e di assoluzione sono state 64.602 (11,89%). Tenuto conto tuttavia che taluni esiti non sono rigorosamente classificati come condanne o come proscioglimenti (sentenze promiscue e sentenze pronunciate a conclusione di giudizio abbreviato), il rapporto percentuale fra le seconde ed i primi può ritenersi attestato intorno al 15%. Come si vede - e ove si consideri che tra i proscioglimenti vengono conteggiate anche le sentenze applicative di una causa di estinzione del reato o della depenalizzazione - una percentuale del tutto fisiologica, che dimostra e conferma l'esercizio prudente dell'azione penale. A questi dati vanno aggiunti gli esiti dei giudizi nelle successive fasi d'impugnazione, spesso conseguenti a eventi maturati solo nel prosieguo del giudizio.
Merita piuttosto di essere segnalato il generalizzato decremento di produttività che tali dati evidenziano, con punte particolarmente significative per i decreti di condanna divenuti esecutivi (-17,60%) e per le sentenze promiscue (-18,04%). Relativamente ai primi, poiché il dato statistico prende in considerazione i soli decreti divenuti esecutivi, cioè quelli per i quali non vi è stata opposizione da parte dell'imputato, tale contrazione potrebbe trarre origine più che da un minor ricorso a siffatto tipo di procedimento da parte dell'autorità giudiziaria, da un più esteso rifiuto dello stesso ad opera della parte privata, che si manifesta con l'opposizione.
Consistente è, invece, l'incremento dei procedimenti definiti con il giudizio abbreviato (+20,84%) e con il patteggiamento (+6,72%) davanti al GIP; ove si tenga conto anche dei procedimenti definiti con quest'ultimo rito davanti al tribunale, si ha un dato particolarmente significativo: 91.685 procedimenti (pari al 14,69% di quelli nei quali è stata esercitata l'azione penale) sono stati definiti con tali riti speciali. E' ancora poco per sperare che il loro utilizzo possa dare un contributo decisivo alla risoluzione dei problemi derivanti dalla eccessiva durata dei processi. Perché il ricorso ad essi sia ulteriormente potenziato è necessario por mano a riforme legislative che ne agevolino la ulteriore diffusione. Non, forse, per quanto riguarda il giudizio abbreviato (che è stato già oggetto di una radicale ma discussa riforma con la legge 16 dicembre 1999 n. 479), della cui effettiva utilità da molti si dubita per le ragioni che saranno più oltre indicate e che comunque non sembra suscettibile di ulteriori interventi; ma piuttosto per quanto riguarda il patteggiamento, del quale, lasciando immutata l'attuale strutturazione procedimentale, potrebbe essere esteso l'ambito di operatività, come da più parti - e anche da questo Ufficio nelle precedenti relazioni - auspicato, mediante un ulteriore ampliamento del limite massimo di pena detentiva (attualmente di soli due anni) entro il quale può ad esso farsi ricorso. Tali auspici sono stati di recente accolti dal legislatore. La Commissione Giustizia della Camera dei deputati, infatti, il 3 luglio 2002 ha approvato in sede deliberante il d.d.l. n. 1488 (risultante dalla riunficazione di tre d.d.l.), il quale prevede il patteggiamento per pene fino a cinque anni di reclusione.
Quanto alla durata dei processi, i dati statistici elaborati dal Ministero della Giustizia evidenziano che, a fronte di una riduzione della durata media della fase del giudizio di merito, che per i tribunali è stata particolarmente rilevante, essendo passata da 371 a 322 giorni, vi è stato un consistente aumento della durata media della fase precedente. Tale incremento è dovuto, prevalentemente, alla dilatazione temporale della durata dei procedimenti davanti agli uffici del GIP (da 194 a 261 giorni), originata da una consistente riduzione dei procedimenti esauriti (-9,2%) e non compensata dalla contrazione delle sopravvenienze (-6,5%). Il che ha determinato, altresì, un incremento delle pendenze (del 27,6%).
Nell'insieme, ove si ipotizzi un procedimento che si snodi nelle fasi delle indagini preliminari, dell'udienza preliminare, del giudizio di primo grado in tribunale ed in quello di appello, la sua durata media è di 1509 giorni, rispetto ai 1490 giorni del periodo 1° luglio 2000 - 30 giugno 2001. I tempi effettivi sono ancora più lunghi. Quelli riferiti, infatti, tengono conto solo del lasso temporale che intercorre tra il momento in cui un procedimento è incardinato in un determinato ufficio e quello in cui viene adottato il provvedimento che definisce la relativa fase; non anche del tempo necessario perché il fascicolo pervenga al giudice della fase successiva.
I dati sull'attività del giudice di pace, per il limitato periodo preso in considerazione (il primo semestre del 2002; infatti è divenuto competente anche in campo penale dal 2 gennaio 2002), non consentono di esprimere alcuna seria valutazione. L'auspicio è che, una volta divenuto pienamente operativo, tale organo possa alleviare il lavoro dei giudici professionali e contribuire a ridurre la durata dei processi.
A) ASPETTI GENERALI
La perdurante crisi del processo penale
A distanza di un anno, sono ancora valide tutte le osservazioni e le considerazioni fatte nella relazione del 2002, al di là di quanto potrebbe desumersi dai dati statistici ora riportati - alcuni negativi, altri positivi, altri ancora poco significativi - tutti sostanzialmente confermativi della situazione precedente. In assenza di riforme di sistema, preannunciate ma non ancora approvate, è possibile anzi valutare meglio lo stato della giustizia penale ed esaminare il quadro generale e anche taluni aspetti particolari del diritto penale processuale e sostanziale.
Si era parlato, un anno fa, di processo malato, di crisi del processo. Questa certamente perdura. Si può anzi, in modo secco, affermare, che il processo penale oggi ancora non funziona.
Ormai tutti - studiosi, operatori di giustizia, parti private - sono d'accordo credo, su questa conclusione. Il susseguirsi, in questi ultimi anni, di riforme mal coordinate e prive di disegno unitario, ma soprattutto l'introduzione di un numero eccessivo di pretese garanzie, ha determinato una situazione alla quale occorre al più presto porre rimedio con riforme ispirate a esigenze di sistema, senza tener conto eccessivo di interessi di categoria e senza indulgere a compromessi o cedimenti.
L'introduzione del parametro costituzionale del giusto processo impone di modulare le riforme per assicurare il pieno rispetto del contraddittorio dinanzi ad un giudice imparziale tenendo conto dell'esigenza, di pari dignità costituzionale, di assicurarne la ragionevole durata. Il processo penale ha bisogno di garanzie, ma l'esigenza di rispettare i tempi di durata ragionevole impone di sfrondarlo da garanzie ridondanti. Il nostro processo penale è frutto di questa travagliata alternativa tra garanzie ed efficienza, che non ha ancora trovato il punto di equilibrio.
Nella nostra Costituzione i due principi fissati nell'art. 111 forniscono una chiara direttiva al legislatore ordinario su entrambi i versanti, imponendo di coordinarne e contemperarne le diverse finalità, ma tenendo presente che la ragionevole durata del processo non è solo una esigenza di sistema ma un diritto fondamentale del cittadino al pari di quello alle garanzie nel processo, per di più tutelabile in sede comunitaria e fonte di responsabilità per gli Stati membri dell'Unione europea. Questo potrebbe comportare il controllo di legittimità costituzionale delle leggi di garanzia se formulate in modo da impedire il rispetto dell'altro principio. Tutto ciò indurrebbe a escludere - ma il giudizio in proposito spetterà ovviamente alla Corte Costituzionale - che, dei due principi, l'uno sia immediatamente operativo e l'altro meramente programmatico. E tale prospettiva ha probabilmente indotto il legislatore a espandere le garanzie processuali, senza considerarne gli effetti sulla durata del processo. Certo è però che la Commissione europea, nel rilevare l'enorme numero di controversie proposte a causa della violazione del diritto fondamentale alla durata dei processi ci impone ora di adeguare il nostro ordinamento a tale esigenza e quindi di contemperare appunto i due su ricordati princìpi, al fine di evitare condanne comunitarie non più solo sui danni ai singoli ma per inottemperanza alla prescrizione di varare riforme adeguate di sistema che evitino ulteriori lesioni.
I problemi del processo penale. Le varie disfunzioni
Se il processo penale in Italia non funziona e se ha in tanti casi durata eccessiva, esistono evidentemente ragioni precise e bene individuabili.
Storicamente il processo penale, sotto qualsiasi latitudine, ha avuto sempre un centro unico: o il centro era l'investigazione (processo inquisitorio) o il centro era il dibattimento (processo accusatorio). Il nostro processo penale è un processo a più centri di gravità autonomi: l'indagine e il giudizio. Si tratta di una realtà davvero particolare, che produce effetti difficilmente comprensibili: gli atti di indagine, in generale, non valgono per il dibattimento (e questo è coerente con la logica di un processo accusatorio). Però, le garanzie del dibattimento e i criteri di valutazione della prova in esso operanti sono stati estesi dal dibattimento alle indagini preliminari (e questo è assolutamente dissonante con la logica accusatoria). L'indagine preliminare si sta progressivamente modellando sulle forme del giudizio. L'udienza preliminare si è, di fatto, sostanzialmente trasformata in un dibattimento anticipato e il decreto di rinvio a giudizio è, di fatto, diventato un giudizio di responsabilità sulla base dell'istruttoria compiuta.
Il principio del contraddittorio si è poi espanso ben oltre la previsione costituzionale. Esso si è pervasivamente insediato in ogni angolo del procedimento penale.
La logica che muove tale espansione sembra essere questa: il procedimento penale non viene più visto come una indagine in funzione di un giudizio, bensì come una serie di giudizi provvisori e parziali che anticipano il giudizio finale. Così abbiamo un giudizio sull'inazione (archiviazione), un giudizio sui tempi dell'azione, un giudizio sulle modalità dell'azione (misure cautelari personali e reali), un giudizio sulla completezza delle indagini e sul fondamento dell'azione (udienza preliminare). In questo modo, mentre l'indagine difensiva rimane un territorio riservato della difesa, l'indagine del pubblico ministero tende ad essere una indagine in contraddittorio con le parti e sotto il costante controllo del giudice. Tutto questo avrebbe senso se le prove raccolte nel corso dell'indagine valessero per il giudizio. Ma, come si è detto, questo non avviene nel nostro processo. Pertanto, l'indagine preliminare ha perso il suo significato tradizionale, sia nella prospettiva accusatoria, sia in quella inquisitoria. E' una indagine ancora alla ricerca di un senso.
La sovrapposizione di indagine e giudizio, la confusione di strutture e funzioni è la inevitabile conseguenza di un processo a più centri. E' necessario che il legislatore scelga un centro di gravità per il processo. Le scelte incompiute producono diseconomie e irrazionalità.
In particolare, esaminando le singole disfunzioni, si possono fare le seguenti considerazioni.
1) Per quanto riguarda la garanzia del contraddittorio, la Costituzione ne prescrive il rispetto nel giudizio e, comunque, nella formazione della prova. Nel nostro processo il contraddittorio si è esteso non solo dal giudizio all'inchiesta preliminare, come si è visto, ma anche dagli atti di prova a quasi tutti gli atti di indagine. Non solo. Il contraddittorio è stato inteso nella sua massima espansione concettuale, così da dar luogo quasi sempre ad un procedimento incidentale che può giungere fino in cassazione. Ora, è difficile immaginare come possa avere una ragionevole durata un processo in cui ogni atto può generare un microprocesso, che richiede avvisi, notifiche, discussioni, deliberazioni e consente ripetute impugnazioni.
In questa prospettiva prevedere sospensive del procedimento di cognizione in attesa della definizione del procedimento incidentale costituirebbe un colpo esiziale alla ragionevole durata del processo.
Un recupero di efficienza del processo impone di porre un argine normativo alla proliferazione dei procedimenti incidentali, un filtro rigoroso alla loro ammissibilità, forme semplificate quanto alla decisione e una barriera di preclusioni alla loro impugnazione.
2) I riti differenziati sono stati ideati proprio per favorire l'efficienza del processo e accorciarne la durata. I dati statistici dianzi richiamati evidenziano che l'obbiettivo perseguito non è stato raggiunto; in ogni caso, ad esso certamente risponde il patteggiamento, ma è dubbio che vi risponda il giudizio abbreviato.
Invero, il principio di ragionevole durata del processo implica che si deflazioni il dibattimento senza però allungare l'indagine preliminare. Altrimenti, si determina soltanto una diversa allocazione dell'inefficienza.
L'indagine preliminare doveva avere la sola funzione di raccogliere le informazioni probatorie necessarie e sufficienti per decidere se andare a giudizio o archiviare. Essa era, appunto, preliminare nella funzione e nella struttura. I tempi legali dell'indagine erano commisurati a questo scopo. Ma un giudizio abbreviato su dati probatori incompleti non garantiva né il diritto dell'imputato ad un giusto processo, né il diritto della società ad un accertamento veridico del reato. Il giudizio abbreviato per funzionare postulava una completezza delle indagini. Di qui lo snaturamento dell'indagine preliminare: adesso ogni indagine, per qualsiasi reato, al fine di consentire il giudizio abbreviato, è diventata completa e capillare. Nel caso ciò non bastasse, una integrazione probatoria può avvenire nel corso del giudizio abbreviato stesso.
In questo modo tale giudizio è diventato un processo nel processo. Va aggiunto: un processo inquisitorio conficcato nel cuore del processo accusatorio.
Il giudizio abbreviato va, dunque, rimeditato, ponendosi anche il problema del suo mantimento nel vigente sistema processuale. Esso rompe il rapporto penalistico pena-reato perché consente enormi sconti di pena (fino a dieci anni) proprio nei casi di reati più gravi, senza che il giudice possa sindacare la congruità della pena rispetto al caso concreto. Inoltre, altera l'equilibrio tra le parti, dal momento che tale giudizio costituisce un diritto potestativo dell'imputato, cui il pubblico ministero non può opporsi. Non giova alla ragionevole durata del processo perché, se dà sollievo alla fase del dibattimento, appesantisce fortemente la fase delle indagini. E' quanto si è verificato nel nostro "sistema giustizia". I dati statistici confermano tale valutazione: nell'ultimo periodo, a fronte di una riduzione di quarantanove giorni della durata media del giudizio di primo grado vi è stato un aumento della durata delle indagini preliminari e della fase davanti al giudice della udienza preliminare di settantasei giorni; il saldo, come si può constatare, è negativo in termini di "tempo" del processo.
Se poi si considera che il giudizio abbreviato viene chiesto dall'imputato nei casi in cui più alta è la probabilità di condanna, c'è da chiedersi se il costo non sia sproporzionato rispetto all'utile.
Più funzionale agli scopi dianzi richiamati sarebbe un ampliamento dei limiti del patteggiamento. In tale direzione, come si è già detto, si sta opportunamente movendo il legislatore.
3) Le continue interferenze fra procedimenti incidentali e procedimento principale e tra questo e i procedimenti differenziati ha creato un groviglio di situazioni di incompatibilità del giudice che, a loro volta, alimentano nuovi procedimenti incidentali e nuove disfunzioni del procedimento principale. Non è razionale un modello di procedimento penale che generai incessantemente al proprio interno decine di situazioni di incompatibilità.
4) Il principio di garanzia ha portato ad una proliferazione di situazioni di inutilizzabilità di prove e di invalidità di atti. Il processo penale è ormai diventato un contorto e accidentato sentiero, disseminato di ostacoli.
Eppure, in una visione moderna del processo penale le forme processuali andrebbero tutelate non per il loro aspetto ritualistico, ma per la loro funzione obbiettiva. Dove l'atto non lede garanzie e raggiunge il suo scopo, la invalidità non dovrebbe operare.
Il principio costituzionale di ragionevole durata del processo dovrebbe in questo campo portare alla rielaborazione anche normativa della categoria delle invalidità, in modo da valorizzarne la dimensione funzionalistica e la lesività in concreto. Ad esempio, non credo sia davvero razionale che l'eventuale inosservanza del termine iugulatorio di dieci giorni per la trattazione e decisione dell'istanza di ammissione del patrocinio a spese dello Stato determini la nullità assoluta dell'intero processo, nullità che, ovviamente, verrà spesso dedotta solo in fase di ricorso per cassazione. A quest'ultimo proposito non può non rilevarsi che all'elevatezza degli ideali che ispirano la disciplina della difesa d'ufficio e del patrocinio dei non abbienti fa in generale riscontro, nella pratica, un notevole esborso a carico dell'erario, senza che i risultati - in termini di garanzia sostanziale ed effettiva del diritto di difesa - possano davvero definirsi soddisfacenti.
Nella stessa prospettiva occorrerebbe porre un freno alla proliferazione di forme innominate di inutilizzabilità, che hanno un effetto deleterio sulla capacità del processo di provare i fatti.
5) La tensione tra i principi costituzionali garanzie-ragionevole durata del processo trova il suo epicentro nel dibattimento. In via generale, può osservarsi che il principio della ragionevole durata del processo dovrebbe portare anche ad una più rigorosa deontologia dei comportamenti processuali, che vieti pratiche ostruzionistiche: poteri e garanzie devono servire nel processo e per il processo, non contro il processo. Spesso si ascoltano nei dibattimenti, da parte del P.M., requisitorie che vanno al di là delle esigenze della discussione o, da parte della difesa, prospettazioni di eccezioni o richieste manifestamente pretestuose e consapevolmente destinate a seminare ragioni di impugnazione, per dilatare la durata del giudizio.
La struttura portante del nostro processo è segnata dal principio della discontinuità del dibattimento rispetto alle indagini preliminari. Le prove raccolte nell'indagine preliminare non valgono per il dibattimento. Qui tutto deve ricominciare daccapo.
Al riguardo è da dire che la strada seguita dal legislatore ordinario, mentre è autorizzata (ma non imposta) dal principio costituzionale del contraddittorio, sembra però poco consonante col principio di ragionevole durata.
Invero, la scelta di azzerare le prove dichiarative precedentemente raccolte è una scelta radicale, che è comune a pochi ordinamenti processuali nel mondo e che, comunque, destina il processo a tempi inusitatamente lunghi. Non si comprende davvero a cosa serva una indagine preliminare presidiata ad ogni passo da garanzie, se poi nulla di quello che vi è stato raccolto può valere come prova nel dibattimento.
La prova dichiarativa e il diritto al silenzio dell'imputato andrebbero ripensati. La distinzione tra dichiarazioni sul fatto proprio e dichiarazioni sul fatto altrui, in astratto chiara, in concreto è sfuggente e dà luogo a conflitti endoprocessuali, con problemi di inutilizzabilità che si possono trascinare fino in cassazione.
Probabilmente è la logica del giudizio penale che è entrata in crisi. Libero convincimento del giudice e motivazione delle sentenze non sono più sentiti come garanzie di un corretto giudizio. Questa sfiducia nel giudice affiora sempre più nella legislazione processuale, che tende a chiudere gli spazi di discrezionalità decisoria. In questa prospettiva vanno lette quelle disposizioni normative che fissano un metodo legale di valutazione probatoria, o prevedono casi di inutilizzabilità della prova.
6) Altro momento critico del nostro processo è il regime delle impugnazioni. La logica del codice è quella del controllo totale: ogni provvedimento del giudice o anche del pubblico ministero deve essere sottoposto a controllo. In questo modo, accanto ai tradizionali mezzi di impugnazione nei confronti delle sentenze, sono germinate numerose forme di riesame, opposizione, reclami, che danno luogo a procedimenti in camera di consiglio, che a loro volta innescano un regime di impugnazione.
Questo sistema certamente non giova ad un obbiettivo di ragionevole durata del processo. Ma appare anche dissonante con il modello di processo che il legislatore ha in mente.
Innanzitutto, l'idea che la sentenza di secondo grado sia più "giusta" (cioè, contenga un accertamento più veridico) di quella di primo grado è un postulato normativo, ma non ha alcuna evidenza logica. Inoltre, allorché i due accertamenti sono radicalmente incompatibili, è evidente lo sconcerto dell'opinione pubblica e la sfiducia nell'operato dei giudici, anche se rientra nella fisiologia dei sistemi improntati al principio del doppio grado di merito.
Tale sistema di controlli progressivi è coerente con un modello di accertamento del fatto compiuto unilateralmente da poteri pubblici. Ma non appare più coerente in un processo di parti, in cui la ricostruzione del fatto avviene attraverso apporti informativi delle parti in contraddittorio.
Le impugnazioni vanno riviste sotto una triplice direttiva: a) limitazione della legittimazione ad impugnare gli atti del procedimento principale di cognizione; b) limitazione dei motivi di impugnazione, evitando in particolare l'automatismo processuale per cui ogni eccezione non accolta diventa motivo di impugnazione; in questa prospettiva potrebbe essere affrontato anche il problema delle impugnazioni del pubblico ministero, escludendo dalle censure proponibili quelle incidenti direttamente o indirettamente sul trattamento sanzionatorio o relative ai c.d. benefici di legge; c) limitazione dei provvedimenti impugnabili, con riguardo soprattutto a quei provvedimenti endoprocessuali che non incidono sui diritti di libertà e che hanno un breve respiro temporale.
Questa rapida ricognizione dei molteplici problemi del processo penale ci riporta al punto di origine: occorre trovare una mediazione fra i principi di garanzia e di ragionevole durata, i quali invece ora operano come vettori di forze in direzioni opposte.
Se non si danno tempi ragionevoli al processo, la funzione giurisdizionale lavora a vuoto. In questo modo, accanto al mistero del processo, si crea il paradosso del processo: da un lato, il processo viene caricato di sempre più funzioni (pensiamo, per esempio, alla sempre più espansa funzione del processo diretta a colpire la dimensione economica del reato attraverso la confisca), dall'altro lato, esso si dimostra sempre meno in grado di assolvere le sue funzioni tradizionali (funzione di accertamento del reato e di adeguamento della pena alla colpevolezza). Non è un caso che la valutazione della personalità del reo e la reale determinazione della pena inflitta in concreto da espiare stiano lentamente scivolando via dal processo di cognizione verso la fase esecutiva, come non è un caso. Allo stesso modo non sorprende la tendenza del processo di cognizione a delegare, per così dire, al procedimento di prevenzione l'accertamento di tutto ciò che attiene al contesto patrimoniale dell'indiziato.
Davvero spinoso è il problema delle garanzie. Che il processo penale soffrisse di un deficit di garanzie è una constatazione incontroversa. Anzi, fu proprio tale constatazione il principale impulso alla codificazione di un nuovo processo penale. Ma quello che va sottolineato è che questa spinta alle garanzie non risponde ad un progetto coerente di modello processuale. Ci sono garanzie tipiche che valgono per i del processo inquisitorio (in particolare, quelle attinenti alla fase delle indagini) che non valgono per il processo accusatorio. Il nostro legislatore sembra optare per quest'ultimo modello, ma poi vi innesta istituti e garanzie del primo.
Occorre essere consapevoli che in questa sovrapposizione di garanzie si nascondae un rischio: e cioè, che la legislazione processuale, non diversamente da quella sostanziale, acquisti una pura dimensione simbolica. U. Poiché un processo ipergarantito è un processo ipercostoso, cui possono accedere in pochi,. Iil rischio è che all'interno delle strutture di un processo apparentemente unitario vengano nella prassi a crearsi due tipi empirici di processo penale: quello più garantito per chi può permetterselo e quello meno garantito per chi non può permetterselo. Non è senza ragione che dalle relazioni dei Procuratori generali risulta assai limitata l'applicazione della legge n. 397 del 2000 sulle indagini difensive. La principale ragione dello scarso impiego dei nuovi strumenti è, infatti, individuata proprio negli alti costi.
E' difficile pensare che un siffatto processo possa definirsi giusto processo.
I problemi del diritto penale sostanziale
Una giustizia migliore implica non solo un processo più giusto, ma anche un diritto penale più giusto. Un giusto processo che applichi un diritto avvertito come irrazionale o iniquo dalla collettività non rende credibile la giustizia. Così come non rende più credibile la giustizia un diritto penale aderente alle effettive esigenze di difesa della collettività e condiviso, ma applicato in un processo penale sperequato e imprevedibile. Il diritto e il processo penale devono ottenere il consenso della collettività, altrimenti l'amministrazione della giustizia è destinata alla ineffettività; anzi, finisce col generare conflittualità sociale, anziché risolverla.
La giustizia penale oggi deve fronteggiare non solo una sfiducia nel processo ma, prima ancora, una sfiducia nel diritto penale, che è ridondante di fattispecie, le quali poi sovraccaricano il processo penale, inceppandone i meccanismi perché troppo numerose e di difficile accertamento. E l'inefficienza del processo penale rende inefficace il diritto penale; anche nei casi in cui una risposta giudiziaria è fornita alla collettività in tempi ragionevoli.
Abbiamo un codice penale fermo a settanta anni fa (al riguardo è assai viva l'attesa per la conclusione dei lavori dell'apposita commissione ministeriale incaricata nel novembre del 2001 di predisporre un progetto organico di riforma di tale codice) e una legislazione penale complementare in continua espansione.
Nelle società dinamiche come la nostra i beni e i valori subiscono continui mutamenti nella coscienza sociale, che crea nuovi valori e ne declassa altri tradizionali. Il diritto penale deve sapere registrare tali evoluzioni, senza restare custode ostinato del passato.
Nella società contemporanea è cresciuta l'insicurezza e si moltiplicano sia le occasioni, sia il tipo di aggressione alla nostra sfera di libertà. Sono in crisi la famiglia, la scuola, l'etica sociale. Per fronteggiare questa realtà la politica criminale produce incessantemente nuove fattispecie penali.
Tutto questo rischia di creare un vistoso cambiamento nelle strutture del diritto penale. Non più poche fattispecie di reato che rispecchiano condotte ben definite e realmente temibili, ma una proliferazione caotica di ipotesi di reato non riconducibili a sistema. Il diritto penale specialistico sta soverchiando il diritto penale del codice. In effetti, il diritto penale non è più un sistema. I principi generali si flettono sotto la forza d'urto dei diritti speciali.
L'inflazione di norme penali porta, a lungo andare, ad una perdita di autorità delle stesse. E' illusorio pensare che tutti i problemi possano essere risolti con leggi penali. Occorre comunque considerare che queste non sono a costo zero. Esse hanno costi di attuazione. Basta pensare all'impatto sulle strutture investigative e processuali. Se non si affrontano questi costi, le leggi penali rimangono sulla carta, si riducono a legislazione simbolica. O peggio, hanno applicazioni sporadiche, che trasmettono alla collettività il senso della casualità, se non della discriminatorietà. Le leggi penali dovrebbero portare l'ordine: in realtà, abbiamo le leggi, ma non abbiamo l'ordine.
L'ampliamento dell'area della criminalizzazione comporta un'ulteriore conseguenza. In passato il diritto penale rispecchiava una criminalità in qualche modo omogenea. Ora, invece, all'interno della nostra società si sono venute a formare aree criminologiche sempre più diversificate.
Accanto alla criminalità tradizionale delle figure di reato contemplate dal codice penale (tra esse compresi anche i c.d. reati bagatellari), prendono consistenza figure minori di illecito, che danno vita alla sempre più vasta area della criminalità c.d. da strada, spesso contrassegnata dalla emarginazione sociale degli autori e dalle caratteristiche di violenza o clandestinità delle condotte criminose.
C'è poi l'area, non meno temibile e pervasiva, della criminalità economica, che comprende tutto il settore dei reati fiscali, societari e fallimentari.
C'è infine una terza area, quella della criminalità organizzata. In una società ben ordinata essa dovrebbe rappresentare un fenomeno marginale. Invece, essa è diventata un'area invasiva, che paradossalmente rappresenta, sotto il profilo criminologico, un'area di raccordo fra le prime due, in quanto contiene ed esaspera i caratteri dell'una e dell'altra: unisce violenza e frode, attinge uomini dalla prima area e riversa i profitti del crimine nella seconda.
Non è incoraggiante pensare che il sostrato unificante delle forme di criminalità del nostro Paese sia rappresentato dalla criminalità organizzata.
Di fronte a simili fenomeni criminologici, nuovi e differenziati, la politica criminale e il diritto penale sono è chiamatoi a dare una risposta razionale e selettiva, orientata a scopi di tutela della sicurezza della collettività, ma anche a finalità di recupero sociale.
In questa prospettiva appare forse preferibile perseguire i princìpi della certezza e della prontezza della sanzione piuttosto che quello di una severità indifferenziata.
Allo stesso modo non è pensabile che la risposta ai gravi fenomeni del nostro tempo sia data solo dal diritto penale. Il diritto penale non può tutto, anzi a volte può davvero poco. Appare pertanto opportuno, in aree determinate, un agire integrato di strumenti penalistici e di strumenti civilistici e amministrativi, purché nel loro insieme rispondano a criteri di efficacia e di proporzionalità. Rincresce, per esempio, che la prassi abbia finora poco valorizzato uno strumento normativo incisivo come la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche.
Questo diritto penale disgregato provoca scetticismo e produce inefficienza e incertezza.
Tra i rimedi possibili per dare ordine al sistema, il più importante resta quello di una seria depenalizzazione. Il sovraffollamento di norme genera un eccesso di reati e un eccesso di processi. Si invoca allora una maggiore depenalizzazione, che però viene vista in una prospettiva, che risulta spesso falsa,. esclusivamente processuale, come mezzo cioè per ridurre il numero dei processi. La depenalizzazione deve invece rispondere in primo luogo ad una funzione sostanziale. Quella cioè di ridurre l'area del diritto penale secondo un rigoroso criterio di sussidiarietà: il diritto penale deve intervenire dove non sono altrimenti sperimentabili forme di tutela civile o amministrativa.
La deflazione dei processi deve piuttosto realizzarsi per altra via: prevedendo meccanismi semplificati di definizione del processo o di riduzione dell'illecito penale ad illecito amministrativo (il riferimento va, per esempio, alle ipotesi di minima rilevanza offensiva del fatto, all'attuazione di condotte riparatorie, all'ampliamento dei casi di oblazione).
Per dare vita ad una depenalizzazione saggia e misurata, che non escluda cioè fatti di scarsa rilevanza e non includa invece fatti di rilevante allarme sociale, occorre ridefinire i beni tutelati dal diritto penale e poi operare scelte di valori che abbiano un diffuso radicamento nella coscienza sociale, graduandoli secondo una gerarchia definita, ispirata a criteri di proporzionalità e di stretta necessità.Per dare vita ad una depenallizzazione saggia e misurata, che non escluda cioè fatti di scarsa rilevanza e non includa invece fatti di rilevante allarme sociale, occorre ridefinire i beni tutelati dal diritto penale e poi operare scelte di valori che abbiano un diffuso radicamento nella coscienza sociale, graduandoli secondo una gerarchia definita, ispirata a criteri di proporzionalità e di stretta necessità. Il tutto tenendo presente che repentini declassamenti di valori tradizionalmente assistiti da una tutela forte non si muovono in questa logica.
Infine, è di vitale importanza riaffermare le strutture concettuali portanti del sistema penale: la parte generale del codice penale va resa più moderna e funzionale (e in questa direzione si muovono recenti pronunce delle Sezioni Unite sul nesso di causalità nei reati omissivi e sul concorso esterno nel reato associativo), ma va ribadita la sua sovranità sull'intero territorio penalistico. Ciò per evitare il pericolo che si creino sottosistemi penali autonomi contrassegnati da propri principi, in modo da incrinare l'unità del diritto penale.
B) I VARI TIPI DI CRIMINALITA'. L'AZIONE DI CONTRASTO
L'andamento della criminalità. Considerazioni generali
Le relazioni dei Procuratori generali presso le corti di appello tracciano un quadro complessivo della criminalità che non si discosta in maniera sostanziale rispetto agli anni precedenti, pur se quasi tutti sottolineano con soddisfazione un'inversione di tendenza nell'andamento della criminalità, che trova conforto nei dati statistici di seguito riportati.
In tutte viene sottolineata la perdurante inosservanza del precetto costituzionale della ragionevole durata del processo e la scarsa effettività del sistema penale nel suo complesso. Quanto alla individuazione delle sue cause, è diffusa l'opinione che la complessità del vigente sistema processuale sia uno degli ostacoli più rilevanti sulla strada di un processo che, rispettoso dei diritti dell'imputato, pervenga in tempi ragionevoli ad una pronuncia di assoluzione o di condanna e costituisca strumento di difesa della società nei confronti di coloro che pongono in pericolo la civile convivenza e di tutela di chi dal reato subisce un danno.
Va poi registrato con soddisfazione che, pur nel persistere di gravi difficoltà, ancora una volta viene manifestata ed assicurata la volontà di un impegno sempre maggiore, animato da spirito costruttivo, per affrontarle e risolverle con gli strumenti disponibili che, per quanto riguarda la magistratura, possono riguardare solo il versante organizzativo; di qui la sempre maggiore attenzione alla razionalizzazione del lavoro per cercare di ottimizzarne i risultati.
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Dai dati forniti dall'Istituto Nazionale di Statistica emerge che nel periodo in esame i delitti registrati dagli uffici di procura (che comprendono anche i delitti commessi da ignoti) sono stati 2.821.624, con una diminuzione, rispetto al corrispondente periodo precedente, di 112.782 unità (- 4%). Tale dato confortante è confermato da una contrazione generalizzata dei delitti più gravi o che destano maggior allarme sociale, con la sola eccezione dei reati in materia di sostanze stupefacenti, che hanno fatto registrare un preoccupante aumento, come risulta dalla tabella qui di seguito riportata:
Omicidi tentati e consumati 3.112 (- 9%)
Rapine 51.138 (- 8%)
Estorsioni 7.642 (- 5%)
Sequestro di persona a scopo di estorsione 207 (+ 2%)
Violenza sessuale 5.161 (- 11%)
Maltrattamenti in famiglia o verso i fanciulli 4.432 (- 5%)
Bancarotta 5.509 (- 4%)
Stupefacenti 41.762 (+ 54%)
Furti 1.459.205 (- 12%)
La inversione di tendenza che emerge da tali dati va registrata con soddisfazione, ma non deve far indulgere a facili ottimismi o, quel che è peggio, ad abbassamenti della tensione nella lotta alla criminalità e nella tutela della sicurezza dei cittadini. Infatti, come ebbi già occasione di rilevare nella precedente relazione, i dati statistici quando si riferiscono a periodi temporali limitati, qual è un anno, non consentono di trarre conclusioni definitive se non trovano conferma in analoghi andamenti nei periodi successivi.
Resta gravissimo, e preoccupante, il numero dei delitti dei quali sono rimasti sconosciuti gli autori, anche se un segnale di ottimismo può, trarsi dalla conferma di una tendenza alla riduzione, seppure lieve, del loro numero: nel periodo considerato sono stati 2.289.363, pari all'81% di tutti i delitti denunciati (nel periodo precedente erano stati 2.434.367, pari all'83%). Sono rimasti ignoti il 96% degli autori di furti (1.399.807; percentuale sostanzialmente identica rispetto al periodo precedente). Siffatte percentuali scendono al 65% se si tiene conto di tutti i delitti con esclusione dei furti, mentre nel periodo precedente tale percentuale era stata del 66%. Ed è risaputo che per taluni tipi di reati (come il furto di veicoli) le indagini non vengono neppure iniziate.
Tali calcoli non tengono conto delle contravvenzioni, i cui dati non sono oggetto di rilevazione da parte dell'ISTAT; si può solo rilevare che in materia contravvenzionale l'incidenza percentuale degli "ignoti" è sicuramente molto bassa dato che per tali reati vi è, di solito, contestualità fra accertamento ed individuazione dei responsabili.
La criminalità organizzata
Il fenomeno delinquenziale connesso alla presenza di forti e radicate organizzazioni criminali sul nostro territorio nazionale continua a rappresentare l'oggetto principale dell'attività giudiziaria penale e deve suscitare viva e profonda preoccupazione per tutte le istituzioni, per le Forze di polizia e per l'intera società civile.
L'affermazione deve essere recepita non solo come segnale di allarme, ma come sollecitazione a continuare ed intensificare l'impegno e l'attenzione di ciascuna istituzione verso aspetti patologici della vita civile che non solo compromettono la libertà e la dignità di ciascun cittadino, ma inquinano anche ogni segmento della società civile: lavoro, economia, sviluppo sociale.
I gruppi di criminalità organizzata estendono la loro attività all'intero territorio nazionale, con poche e limitate eccezioni, e si contraddistinguono essenzialmente, sul piano strutturale, in due gruppi: la criminalità organizzata di origine nazionale e quella di origine straniera.
Come già evidenziato negli ultimi anni, la differenza strutturale non determina una netta separazione delle aree di "mercato delinquenziale" ma genera, volta a volta, contrasti, contrapposizioni o alleanze, che si traducono in ulteriore aumento degli episodi delittuosi.
Sul piano funzionale l'attività delinquenziale posta in essere dalle varie forme di criminalità organizzata spazia dai molteplici reati contro la persona (omicidi, tentati omicidi, lesioni) ai reati contro il patrimonio (furti, rapine, estorsioni), per dilagare nei traffici illeciti di sostanze stupefacenti, armi, tabacchi e nello sfruttamento della prostituzione e della immigrazione clandestina per poi colpire larghi settori dell'economia pubblica e privata.
L'attività di controllo e contenimento, posta in essere dalle Forze di polizia e dalla Magistratura, ha conseguito buoni risultati su molti fronti e si è caratterizzata, oltre che per una ampia estensione delle tecniche investigative, per la collaborazione tra le varie procure e per la cooperazione giudiziaria internazionale con le magistrature e le forze di polizia di altri Paesi.
a) I gruppi stranieri di criminalità organizzata
La collocazione geografica del nostro Paese favorisce l'immigrazione e l'insediamento di persone, purtroppo anche dedite ad attività delittuose, provenienti da paesi di culture diverse e che stanno vivendo un difficile, travagliato e lungo processo di evoluzione sociale, politica ed economica.
Il fenomeno migratorio, con le connesse realtà criminali indotte o dirette, estese a vari altri traffici illeciti, rappresenta un fenomeno non agevolmente arginabile.
Si tratta di forme di criminalità che presentano grandi difficoltà investigative perché strutturate su una forte base di intimidazione in danno di immigrati della stessa etnia, realizzata con il diretto coinvolgimento di persone che operano all'estero; per la difficile e laboriosa identificazione degli stranieri in condizione di clandestinità; per la non infrequente commistione ed alleanza con gruppi criminali locali; e per la scarsa collaborazione, finora offerta dai taluni Paesi extra comunitari, a rendere possibile l'indispensabile sinergia tra le attività delle polizie e degli organi inquirenti.
Permane invariato il quadro complessivo delle condotte criminose poste in essere dalle diverse organizzazioni di nazionalità straniera.
Sempre attive nel nostro Paese sono alcune "nuove mafie" di importazione, soprattutto russa e cinese. La prima è particolarmente attiva nel settore delle merci e dei prodotti energetici, nonché nelle società che operano nell'import-export. Sono stati di recente segnalati investimenti immobiliari e acquisizioni di centri commerciali, attività turistico-alberghiere e di piccole e medie aziende nel settore dell'abbigliamento e degli elettrodomestici. La seconda, che tende ad assumere le medesime caratteristiche organizzative della madrepatria, è molto presente in quelle che sono le tipiche manifestazioni criminali dei gruppi organizzati: traffico di stupefacenti, estorsioni, gioco d'azzardo, prostituzione e, soprattutto, immigrazione clandestina di connazionali.
La pericolosità ed importanza del fenomeno del traffico di immigrati clandestini impone una sempre più vigile attenzione.
Una complessa ed attenta attività di indagine, svolta in coordinamento tra vari uffici di procura (Trento, Trieste, Roma e Lecce), ha individuato una vasta struttura criminale internazionale, di nazionalità turco-iraniana, dedita all'immigrazione clandestina di stranieri di etnia curdo-irachena, che ha consentito di colpire una organizzazione criminale finalizzata a sfruttare il bisogno di riscatto sociale e la ricerca di una nuova patria da parte di immigrati extracomunitari ed accertato l'esistenza in Turchia di diverse agenzie specializzate nel reclutamento e nella organizzazione del trasporto verso l'Europa, via mare e via terra, dei clandestini curdi.
Sul punto, peraltro, è in atto una modifica di atteggiamento, di segno positivo, dei Paesi interessati dalla migrazione clandestina: un timido passo avanti che non deve illudere, ma che può costituire una prospettiva di utile lavoro investigativo.
Su questo piano la sempre lamentata difficoltà di identificazione sicuramente riceverà beneficio dalla avviata tecnica della identificazione fotodattiloscopica.
Sempre in questa prospettiva viene segnalata la utilità di una previsione di immissione in una rete informatica, su scala internazionale, degli estremi identificativi dei passaporti, che potrebbe arginare la circolazione dei passaporti falsificati, smarriti e rubati, da parte della criminalità organizzata dedita all'immigrazione illegale.
La legislazione in materia si è, finora, rivelata sostanzialmente poco efficace per la repressione del fenomeno, anche se molto apprezzamento continua a riscuotere la previsione della concessione del permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale, che agevola i tentativi di sottrazione ai condizionamenti delle associazioni criminose e rende possibili dichiarazioni di collaborazione alle indagini da parte dei destinatari dei provvedimenti.
Non è consentito, allo stato, formulare previsioni e valutazioni sulla legge 30 luglio 2002, n. 189 (modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo) proprio per l'estrema difficoltà che presenta il fenomeno in esame, oltre che per il limitato periodo di applicazione.
In conclusione può affermarsi che, dal raffronto con i dati della precedente relazione, emerge una maggiore e più efficiente reazione di contenimento e contrasto di questa forma di criminalità, dovuta anche alla creazione in molte procure di gruppi di lavoro specializzati, alla sempre maggiore cooperazione tra gli uffici inquirenti italiani ed alla collaborazione con le istituzioni degli altri Paesi europei. Resta, purtroppo la constatazione che il fenomeno delinquenziale in esame costituisce uno dei più importanti apporti criminogeni all'interno del nostro Paese.
b) La criminalità organizzata di origine nazionale
E' proseguita nell'anno appena decorso la strategia di basso profilo, sul piano della visibilità, adottata dalle organizzazioni criminose interne; in parte dovuta pure alla instancabile opera di Magistratura e Forze dell'ordine nella ricerca dei latitanti, conclusasi anche nel 2002 con importanti successi, fra i quali l'arresto di un noto capo di Cosa Nostra, che ha successivamente operato una scelta collaborativa.
In alcuni distretti (Calabria) - anche se la visione non è così netta in altre realtà afflitte da fenomeni endemici di criminalità organizzata - è riconfermata la presenza di una criminalità con forte radicamento nel territorio, che finisce per condizionare pesantemente il libero determinarsi dei cittadini al punto da minarne, a volte, la stessa fiducia nella democrazia e nella legalità.
Se la pax mafiosa ha ridotto la guerra tra le cosche, anche per effetto di alcuni importanti maxi-processi conclusisi con condanne pesanti per i capi delle organizzazioni, ciò non significa che la 'ndrangheta abbia perso il controllo del territorio. La situazione dell'ordine pubblico continua a presentare carattere di indubbia gravità per la presenza pervasiva di organizzazioni mafiose nei gangli vitali della società, che finisce anche per scoraggiare il nascere di nuove iniziative economiche in un territorio pur afflitto da elevati indici di disoccupazione.
Il traffico degli stupefacenti e le estorsioni, insieme alla gestione diretta o indiretta di appalti pubblici, consentono di lucrare ingenti quantità di denaro da reinvestire in attività illecite, o anche lecite (edilizia, investimenti finanziari), attraverso le quali l'organizzazione è riuscita a consolidare la sua posizione in un più ampio ambito internazionale.
Cosa Nostra palermitana, con la sua immanente presenza, mantiene ancora la capacità di imporre le strategie generali dell'organizzazione, che continua ad esercitare un violento, arrogante ed esteso controllo sulle attività economiche, sociali e politiche del territorio.
Le indagini di polizia continuano a svelare progressivamente l'esistenza, prevalentemente nella Sicilia occidentale, di una vasta rete di fiancheggiatori nei più svariati settori della società e dell'economia, la perdurante ed estrema pericolosità dell'organizzazione mafiosa, nonché la sua straordinaria capacità di infiltrare il tessuto economico e sociale.
Il vertice di Cosa Nostra ha iniziato ad attuare concretamente un complesso progetto di ricostruzione del suo assetto organizzativo per gestire una transizione dalla precedente fase emergenziale ad una fase di restaurazione della struttura organica dell'organizzazione, capace di restituire ad essa la sua tradizionale capacità strategica.
Importanti conferme di questa strategia sono emerse: a) dal contenuto di alcune conversazioni acquisite agli atti processuali, dalle quali emerge l'immagine di una Cosa Nostra pienamente operativa, gestita in modo verticistico, il cui gruppo dirigente appare proteso alla ricucitura di vecchi strappi, per poter riavviare una sorta di convivenza con lo Stato, quale scelta più utile alla sopravvivenza ed al rafforzamento dell'organizzazione mafiosa ed alla sua espansione e reddittività; b) dal contenuto delle più recenti collaborazioni intraprese da chi, all'interno dell'organizzazione criminale, aveva raggiunto una posizione assai elevata ed aveva avuto, a quanto pare, anche il delicato incarico di ricostruire le strutture di Cosa Nostra.
In altre realtà meridionali (Napoli e Bari) si segnala il consolidamento delle organizzazioni criminali dedite ai traffici ed al contrabbando di tabacco, anche mediante operazioni di transazioni "estero su estero". Grazie all'attività di intelligence condotta nel settore, è stato possibile accertare la spiccata matrice internazionale del fenomeno, ormai chiaramente verificabile tanto nei flussi di provenienza, quanto nelle direttrici di destinazione del tabacco di contrabbando, che ha fatto dell'Italia un' importante area di transito verso altri stati del Nord Europa.
In proposito, è stata evidenziata, da un lato, la sottovalutazione del fenomeno da parte della società civile, cui sfugge che la immissione di enormi flussi di denaro sporco è in grado di destabilizzare l'economia sana, e dall'altro la bontà della scelta operata dalla legge 10 marzo 2001, n. 92, che regola la repressione del contrabbando come reato associativo così consentendo maggiori potenzialità operative all'azione di contrasto.
Infine in altre zone del Sud (Salerno e Lecce) si assiste ad un riassetto della criminalità e viene segnalata, insieme ad una presenza di società finanziarie che appare sproporzionata rispetto al numero degli sportelli bancari ed alle esigenze della locale imprenditoria, il pericolo di infiltrazione criminale, per fini di riciclaggio, in settori economici sani quali il turismo e l'agricoltura.
Unanime è l'apprezzamento per l'efficacia che nella lotta alla criminalità organizzata assumono le misure di prevenzione, specialmente quelle di natura patrimoniale. In una società, quale quella attuale, nella quale tale criminalità ha avuto un'espansione che ha superato ogni più pessimistica previsione, il 'fulcro' della repressione penale non può essere soltanto la persona e la libertà personale, ma deve coinvolgere anche il patrimonio e le ricchezze accumulate. Si svela, in tal modo, l'efficacia preventiva del sequestro e della confisca di prevenzione che, quando colpiscono l'appartenenza di beni in capo a soggetti di criminalità organizzata, rivelano una capacità di incidenza diretta sulla rete di rapporti economici dei poteri criminali utilizzati per l'infiltrazione nell'economia legittima. Va, quindi, potenziata l'azione di "repressione" delle ricchezze conseguite tramite il crimine ed oggi moltiplicate dalle opportunità offerte dalla globalizzazione dei mercati e dalla progressiva liberalizzazione dei flussi internazionali di capitale. A tale scopo è necessaria, tuttavia, una razionalizzazione ed un riordino della legislazione in materia; con tale finalità ha lavorato una Commissione di studio istituita presso il Commissariato straordinario del Governo per la gestione e destinazione dei beni confiscati ad organizzazioni criminali, che ha presentato di recente le conclusioni dei propri lavori.
Generale è la condivisione per l'iniziativa (parlamentare e governativa), recentemente tradotta nella legge 23 dicembre 2002 n. 279, volta a rendere permanente la possibilità di disporre un regime carcerario differenziato nei confronti degli appartenenti alla criminalità organizzata e ad estenderne l'ambito di operatività.
Anche quest'anno le relazioni dei Procuratori generali delle regioni più interessate dal fenomeno della criminalità organizzata ribadiscono l'essenzialità dei contributi offerti dai c.d. collaboratori di giustizia; le statistiche, tuttavia, confermano il trend negativo secondo il quale il loro numero negli ultimi anni si è andato progressivamente assottigliando, pur se non è sottovalutata l'importanza di talune collaborazioni.
In ordine alla legge 13 febbraio 2001, n. 45, recante modifiche della disciplina della protezione e del trattamento sanzionatorio dei collaboratori di giustizia nonché disposizioni a favore delle persone che prestano testimonianza, le valutazioni concordano sulla compresenza, nella nuova disciplina, di profili positivi (la protezione differenziata, la nuova valorizzazione dei testimoni estranei al mondo criminale, un minimo di pena obbligatorio prima di beneficiare delle scarcerazioni anticipate) e profili negativi.
In particolare, vengono evidenziati gli inconvenienti derivanti dalle disposizioni varate per risolvere uno dei temi più spinosi e dibattuti in questi anni: quello delle c.d. "dichiarazioni a rate" dei collaboratori. L'introduzione di un termine ultimo e rigido (sei mesi dall'inizio della collaborazione) entro il quale il collaborante deve riferire in ordine a tutti i fatti di maggiore gravità e allarme di cui è a conoscenza ed ai relativi responsabili, è considerata inopportuna. Tale termine è, ad avviso dei Procuratori generali, troppo esiguo, soprattutto per i collaboranti di maggiore spessore, per consentire l'assunzione di tutte le dichiarazioni e l'approfondimento di tutti i temi davanti alle varie autorità giudiziarie competenti. Né può ignorarsi che il collaboratore proviene da un ambiente abituato a percepire lo Stato e i suoi rappresentanti come i propri nemici tradizionali, ed è quindi poco verosimile che egli in soli sei mesi, e prima ancora di essere certo di venire ammesso ad un duraturo programma di protezione, acquisisca quella fiducia necessaria per riferire tutte le sue conoscenze.
Su tali problematiche vi è stato anche un recente intervento della Commissione parlamentare d'inchiesta sul fenomeno della mafia, la quale nella seduta del 27 novembre 2002 ha approvato un documento con il quale viene rappresentata la necessità di prevedere un sistema di proroghe del suddetto termine (comunque non superiore a centottanta giorni) nel caso di collaborazioni particolarmente complesse, ovvero di legittimo impedimento del collaborante e del suo difensore o dello stesso pubblico ministero.
Viene, infine, sottolineato il problema dell'effettivo reinserimento sociale dei collaboratori e dei loro familiari ed il rischio di riconsegnare alla società individui sbandati, sradicati dal proprio territorio e nuovamente disponibili al compimento di azioni delittuose.
In conclusione, grande è e deve restare lo sforzo investigativo e di collaborazione tra le varie Forze di polizia e i diversi uffici di Procura per fare in modo che si realizzino le condizioni di convivenza civile ed economica e secondo l'alto invito del Capo dello Stato, l'intero Mezzogiorno diventi una grande riserva di risorse umane a vantaggio di tutta l'Italia. Senza, peraltro, sottovalutare l'espansione del fenomeno mafioso in realtà territoriali diverse da quelle di origine.
Terrorismo e reati contro lo Stato
Nel periodo considerato non si sono attenuate le preoccupazioni per una ripresa dell'attività terroristica, interna ed internazionale.
La rivendicazione dell'omicidio del prof. Biagi ad opera delle "Brigate Rosse per la costruzione del Partito comunista combattente" desta inquietudine; essa colloca l'omicidio in continuità politico-strategica con il precedente attentato al prof. D'Antona e conferma che il mondo del lavoro costituisce uno degli obiettivi dell'azione eversiva, che tenta di riproporsi come struttura clandestina che "fa politica con le armi" contrastando, in base all'evolversi del dibattito politico-economico, le strategie del Governo nazionale ritenute dannose per gli interessi dei lavoratori.
La pericolosità del momento è confermata dalle strutture investigative la cui attività trova riscontro, in molti distretti, nei procedimenti in corso per reati di terrorismo e per fatti delittuosi che rivestono oggettivo carattere politico; in particolare, sopratutto nel periodo successivo all'azione terroristica di Bologna, è segnalata una recrudescenza di azioni intimidatorie, con attentati a sedi di organi istituzionali, di partiti politici e sindacati, e con diffusione di documenti inneggianti alla lotta armata, che testimoniano il tentativo di alimentare il circuito clandestino.
Le indagini sono seguite con particolare attenzione anche in vista di possibili collegamenti con gli attentati D'Antona e Biagi.
A Bologna, oltre alle complesse indagini sull'omicidio del prof. Biagi, eseguite in coordinamento con la Procura di Roma, sono in fase di approfondimento le investigazioni sul fallito attentato, di chiaro contenuto terroristico, consistito nella collocazione di un ordigno, poi disinnescato, molto verosimilmente destinato a colpire appartenenti alle Forze di polizia richiamate sul luogo da una falsa segnalazione di presenza di sostanze stupefacenti. A tale attentato, oltre che ai gravi incidenti verificatisi nel luglio 2001, è stato collegato quello, caratterizzato da preoccupanti analogie esecutive e dalle stesse finalità, compiuto nello scorso mese di dicembre a Genova.
Le indagini sono svolte in collegamento con le strutture investigative di altre Procure interessate da episodi criminali con finalità terroristica, tra le quali quelle del distretto di Trieste, zona teatro di attentati rivendicati dalla organizzazione clandestina qualificatasi Nuclei Territoriali Antimperialisti (N.T.A.) e nel cui territorio, in più occasioni, sono stati rinvenuti volantini inneggianti alla violenza contro lo Stato ed alla lotta contro il mondo occidentale. Né va dimenticato che la rivendicazione dell'omicidio del prof. D'Antona è partita da Udine, mentre quella dell'attentato omicida al prof. Biagi è stata effettuata tramite posta elettronica proveniente dal Friuli.
Il risveglio dell'azione eversiva di matrice nazionale desta maggiore preoccupazione per le particolari contingenze di carattere socio-economico nazionale ed internazionale, che rischiano di favorire imprevedibili convergenze e strumentalizzazioni delle legittime espressioni di protesta.
La introduzione della nuova normativa sostanziale e processuale in tema di delitti commessi per finalità di terrorismo interno e internazionale - decreto legge 28 settembre 2001 n. 353 (disposizioni sanzionatorie per le violazioni delle misure adottate nei confronti della frazione afgana dei talibani), convertito, con modificazioni, nella legge 27 novembre 2001 n. 415, e decreto legge 18 ottobre 2001 n. 374 (disposizioni urgenti per contrastare il terrorismo internazionale), convertito, con modificazioni, nella legge 15 dicembre 2001 n. 438, emanati per dare attuazione alla risoluzione n. 133/2001 del Consiglio di Sicurezza dell'O.N.U. ed al regolamento CEE n. 2.199 del 12 novembre 2001 (entrambi adottati a seguito dei tragici attentati dell'11 settembre 2001) - è stata accolta con particolare favore consentendo, anche nell'ambito di inchieste in corso, di disporre ulteriori attività investigative nella prospettiva di collegamenti con fenomeni di terrorismo internazionale anche in relazione alla ipotesi di reato di cui all'art. 270-bis c.p.
La presenza sul territorio nazionale di eventuali appartenenti a gruppi terroristici internazionali costituisce oggetto di particolare attenzione in molte realtà giudiziarie.
Indagini preliminari (per il delitto di cui all'art. 270-bis c.p.) sono in corso a Firenze sulle attività economiche svolte da fiduciari di una società finanziaria con sede in Dubai, che risulta essere tra le società destinatarie del congelamento dei capitali, reso possibile dal citato decreto legge 28 settembre 2001 n. 353. In base agli elementi acquisiti dalla polizia giudiziaria, anche tramite servizi di sicurezza stranieri, la predetta struttura finanziaria sarebbe emanazione di una organizzazione integralista fondata da Osama Bin Laden, la cui raccolta di risorse economiche risulterebbe, in parte, destinata al finanziamento di attività terroristiche.
Sul fronte più significativo delle indagini collegate al terrorismo di matrice internazionale ed in relazione ad attività di supporto a centrali terroristiche che agiscono all'estero, a Milano sono stati già celebrati due dibattimenti a carico di altrettante cellule, una delle quali riconducibile alla rete di Al Qaeda e l'altra al GIA algerino, mentre un terzo dibattimento è in procinto di cominciare.
Ma quel che maggiormente preoccupa su tale versante sono le possibili ripercussioni nel nostro Paese del grave stato di tensione esistente nel vicino Medio Oriente. Per la sua collocazione geo-politica non si esclude che l'Italia possa divenire teatro di azioni terroristiche aventi come bersagli anche beni o installazioni di paesi stranieri. Per scongiurare che ciò avvenga è necessaria una sempre più attenta e rigorosa vigilanza degli organi preposti alla sicurezza.
Le altre manifestazioni criminose
a) Omicidi, sequestri di persona, estorsioni, rapine, furti e la cd. microcriminalità.
Omicidi, estorsioni, rapine e furti (come emerge dai dati riportati in dettaglio nel paragrafo dedicato al quadro complessivo della criminalità) presentano una inversione di tendenza rispetto a quanto esposto nella precedente relazione. Sono infatti in diminuzione, mentre si registra un lieve aumento dei sequestri di persona a scopo di estorsione, maturati soprattutto all'interno di comunità di immigrati e nei confronti di prostitute. Viene segnalato, peraltro, un ulteriore salto di qualità nelle modalità di consumazione di tali reati, che appaiono sempre più improntate a violenza ed a totale disinteresse per la vita e la dignità della persona e dei quali, con una frequenza in progressivo aumento, si rendono protagonisti gli stranieri.
In molti casi gli omicidi sono apparsi ricollegabili, purtroppo, a situazioni di malessere nell'ambito familiare.
Particolare allarme suscitano in alcune realtà (Milano, Brescia, Veneto) i reati di riduzione in schiavitù e sfruttamento di donne e minori, che si presentano in costante aumento.
Permane assai elevato, pur se con una tendenza alla contrazione, il numero dei furti, soprattutto di quelli che restano impuniti (ben il 96%); si tratta di un tipo di reato che, oltre ad arrecare sovente un danno rilevante alla vittima, genera insicurezza e sfiducia nei cittadini, principalmente quando viene perpetrato mediante introduzione nelle abitazioni. Al riguardo non sono disponibili i necessari dati statistici per esprimere una meditata valutazione sull'efficacia dissuasiva della nuova figura criminosa, introdotta con la legge 26 marzo 2001 n. 128, del "furto in abitazione e furto con strappo" (art. 624-bis c.p.).
Vi è da rilevare che sono in aumento gli uffici di procura che hanno costituito, in collaborazione con le Forze di polizia, gruppi di lavoro specializzati nel monitorare i fenomeni criminali c.d. minori, così da valorizzare ed utilizzare il patrimonio di conoscenza ed i risultati conseguiti nella "mappatura del territorio", rendere maggiormente uniformi le applicazioni delle misure cautelari e la concessione dei benefici ed incrementare la celerità e certezza nell'esecuzione della pena con l'obiettivo di aumentare la sicurezza e la fiducia dei cittadini. In questa prospettiva va ricordato che recentemente è stata avviata, sia pure in misura limitata, la sperimentazione del c.d. "poliziotto di quartiere".
b) Criminalità economica
Sostanzialmente stabile la situazione dei reati fallimentari e societari, pur se i primi hanno fatto registrare una lieve contrazione.
Da tutti i distretti è evidenziato che è ancora troppo presto per apprezzare gli effetti delle recenti innovazioni legislative sul diritto penale societario (decreto legislativo 11 aprile 2002 n. 61), anche se le previsioni, a causa anche della generalizzata riduzione della pena, sono tutte nel senso di una massiccia prescrizione o archiviazione per la maggior parte dei procedimenti relativi a fatti pregressi. Inoltre, molti Procuratori generali esprimono l'avviso che la riduzione del controllo di legalità esterna del mondo dell'economia da parte della Magistratura avrebbe dovuto essere accompagnata da un rafforzamento dei controlli interni ed amministrativi.
Resta trascurabile il numero dei reati di borsa per la oggettiva difficoltà di perseguire efficacemente questa tipologia di illeciti, che pur richiederebbe maggiore attenzione a garanzia dei diritti del piccolo e medio investitore.
In relazione ai reati di usura ed all'attività di riciclaggio si evidenzia che, pur nell'oggettiva difficoltà di individuazione delle operazioni sospette, sono estremamente limitati e marginali i casi di segnalazioni, provenienti dal mondo bancario, suscettibili di determinare utili indagini giudiziarie.
Nel settore, così come in quello legato al fenomeno dell'usura e dell'attività delle società finanziarie, è auspicabile - se non addirittura necessario - un maggiore sforzo di coordinamento e collaborazione tra il sistema amministrativo di controllo dell'Ufficio italiano cambi, il settore del credito e l'attività di indagine posta in essere dalla autorità giudiziaria e dalle forze di polizia giudiziaria.
Permane notevole il giro di affari legato alla contraffazione dei marchi di impresa.
c) Reati in materia di stupefacenti
L'attività della criminalità dedita alla gestione del traffico e spaccio di sostanze stupefacenti ha avuto una considerevole impennata facendo registrare un'inversione di tendenza rispetto all'andamento evidenziato lo scorso anno; le denunce per i relativi reati sono, infatti, aumentate, nel periodo 1° luglio 2001 - 30 giugno 2002, del 54% nonostante la energica azione di contrasto del fenomeno testimoniata dall'elevato numero dei procedimenti avviati per tali reati e dagli ingenti quantitativi di sostanza sequestrati. E' auspicabile che, almeno in parte, l'incremento delle denunce tragga origine anche da una più intensa attività di controllo e repressione delle Forze dell'ordine e non solo da un'ulteriore diffusione del fenomeno criminoso.
L'aumento è del resto in sintonia con la circostanza che è ormai emerso, a livello processuale, che le organizzazioni criminali nazionali, soprattutto quella calabrese, hanno consolidato una loro dimensione internazionale; sempre più intensi sono, infatti, i collegamenti diretti con i centri di produzione e di smistamento, a livello mondiale, delle sostanze stupefacenti, essendo stati provati rapporti con il Sud-America, il Sud est del Mediterraneo, il Nord Europa, il Canada e l'Australia.
Sul versante della gestione dello spaccio, è da rilevare che aumenta la preoccupazione per l'opera di penetrazione del mercato nei luoghi aperti al pubblico (discoteche, sale concerto e perfino scuole), che viene attuata mediante il coinvolgimento dei giovani impegnati nell'attività di promozione dei locali pubblici e con la distribuzione di biglietti di ingresso omaggio e che giunge, sempre più spesso, anche a far assumere la veste di spacciatore a soggetti minorenni pur se non direttamente compromessi con la sostanza.
Nell'opera di spaccio risulta sempre più attiva la componente criminale straniera; in particolare i gruppi di nazionalità nigeriana e maghrebina, di mentalità più "mercantile" che violenta, svolgono una "silenziosa", ma incessante e redditizia, opera nel traffico e spaccio di sostanze stupefacenti.
d) Reati contro la pubblica amministrazione
In generale, si registra una costante diminuzione dei procedimenti per reati contro la pubblica amministrazione, ricollegabile alla attuale configurazione del reato di abuso di ufficio che ha notevolmente ristretto l'area del penalmente rilevante e conseguentemente ridotto anche l'effetto di penetrazione nel sistema corruttivo che spesso era consentito proprio dalle indagini per abuso di ufficio.
Peraltro, l'elevato numero delle denunce che ancora pervengono alle procure - al di là di più o meno circoscritte criticabili realtà di " denunce facili" - conferma la tuttora diffusa domanda di giustizia che perviene dai cittadini nei riguardi della attività e dei comportamenti della pubblica amministrazione, in cui permangono prassi e condotte illegittime se non illecite.
La diminuzione dei procedimenti, quindi, non è espressione di un effettivo regresso del fenomeno (come è del resto emerso da alcuni procedimenti di grande rilevanza di recente iniziati), ma appare legata ai più sofisticati espedienti cui ricorrono i corruttori ed i corrotti ed alla minore disponibilità a rivolgersi alla giustizia da parte dei concussi e delle persone informate sui fatti.
L'occasione più frequente per la commissione dei reati di corruzione e concussione è pur sempre legata allo svolgimento delle procedure di assegnazione di appalti pubblici.
La introduzione di nuove regole negli appalti pubblici mediante una maggiore trasparenza delle varie fasi della procedura, volte a consentire adeguati controlli sulla esecuzione dei lavori e ad evitare ingiustificate loro sospensioni, finalizzate solo alla revisione dei prezzi ed all'adozione di costose varianti, si è rivelata una iniziativa indubbiamente idonea, necessaria ed utile anche nella conduzione delle indagini, unitamente agli altri strumenti investigativi.
Il sistema di manipolazione illecita degli appalti è stato uno degli obiettivi della criminalità organizzata, in particolare di Cosa Nostra, che ha dimostrato di avere la capacità di imporre un proprio cartello di imprese collegate, anche mediante lo sfruttamento dell'istituto dell'associazione di impresa o dei consorzi, così da ottenere una diretta partecipazione agli appalti.
Neppure il progressivo inserimento del sistema economico italiano nell'ambito europeo è sfuggito all'interesse di tali organizzazioni che si sono attrezzate in questo campo anche con il tentativo di instaurare proficue relazioni con importanti espressioni dell'imprenditoria, della finanza e della pubblica amministrazione, realizzata mediante personaggi che, dotati dei necessari requisiti (know how tecnico, dislocazioni in punti nevralgici del sistema e patrimonio di relazioni personali), sono in grado di svolgere la delicata funzione di interfaccia tra Cosa Nostra e il mondo imprenditoriale.
Dai distretti in cui maggiore è la presenza delle organizzazioni criminali viene segnalato che l'acquisizione di dati sui movimenti di denaro e sulla consistenza patrimoniale degli appartenenti alle organizzazioni risultano utilissimi anche nelle indagini per i reati in esame. In tale prospettiva è di enorme importanza la recente istituzione presso la Direzione Nazionale Antimafia del Servizio pubblici appalti, in costante collaborazione con la Autorità di Vigilanza dei Lavori pubblici.
Anche in realtà non afflitte da fenomeni di criminalità organizzata, si segnala la troppo lieve entità della sanzione prevista per il reato di turbativa nella libertà degli incanti, in quanto le indagini, rivolte all'esame della gestione degli appalti e delle relative procedure di aggiudicazione e di controllo sulla esistenza dei cartelli, rimangono spesso frustrate dall'attuale normativa in termini di pena (troppo bassa, tranne nel caso di coinvolgimento di un pubblico ufficiale) che, da un lato, non consente l'adozione di più efficaci strumenti investigativi e, dall'altro, prevede tempi troppo ristretti rispetto alla vastità della documentazione di riscontro da esaminare.
A Milano è segnalata la conclusione di un processo per fatti corruttivi collegati alla installazione di una discarica, definito con patteggiamento e con un risarcimento che è si è rivelato, nel suo complesso, come il più consistente introito nelle casse dello Stato della storia giudiziaria italiana.
L'avvenuto ampliamento dell'area soggettiva delle persone indagabili per coinvolgimento in operazioni economiche internazionali illecite, ad opera della legge 29 settembre 2000 n. 300, costituisce un innegabile passo avanti nella creazione di un diritto penale internazionale e di uno spazio giudiziario europeo che potrà dare impulso determinante nella lotta alla corruzione. Non sono, peraltro, ancora emerse applicazioni delle nuove fattispecie di reato (salvo pochissime iscrizioni). Allo stesso modo assai scarse sono state le applicazioni della suddetta legge n. 300 e del decreto legislativo 8 giugno 2001 n. 231, in tema di responsabilità amministrativa delle persone giuridiche.
e) Reati inerenti la sfera sessuale
Decisamente positivo è il giudizio in ordine alla efficacia delle leggi vigenti contro la violenza sessuale e lo sfruttamento sessuale dei minori, che sembrano dare maggiore sicurezza alle vittime. La normativa, infatti, si è rivelata idonea a garantire, nel corso del procedimento, la riservatezza e la tutela della dignità della persona offesa, con conseguente riduzione delle pur comprensibili titubanze e ritrosie a rievocare fatti personali dolorosamente vissuti. Può, quindi, affermarsi che la legislazione in materia ha contribuito a determinare una emersione del sommerso costituendo un felice caso di positiva interazione tra innovazione legislativa ed evoluzione del costume.
Purtroppo, spesso i fatti maturano nell'ambito della scuola o della famiglia. A questo fine si è dimostrata utile l'applicazione dell'istituto dell'allontanamento da casa, in presenza di insufficienti sostegni familiari e/o sociosanitari.
Da più parti è stata posta in rilievo l'importanza dello sviluppo di interventi di sostegno in sinergia tra istituzioni diverse, già realizzati in varie città, per la cura dei minori vittime di abusi.
Molte procure hanno lodevolmente dato vita a strutture investigative specializzate e hanno concluso protocolli di intesa con strutture ed istituzioni interessate al fenomeno, mantenendo contatti e promuovendo incontri e seminari di studi per il rilevamento delle notizie e la gestione delle investigazioni.
Sono purtroppo in aumento i reati di pedopornografia.
La preoccupante crescita del fenomeno, segnalata nelle molte realtà in cui si è già sviluppata una particolare attenzione per questa tipologia di reati e di investigazione, richiede un maggiore sforzo per la creazione di strutture investigative con personale attrezzato culturalmente. Di grande utilità si sta rivelando lo strumento investigativo della attività sotto copertura, in particolare per i reati commessi con l'uso di strumenti informatici.
Per quanto riguarda il fenomeno della pedofilia, va segnalato che, allo stato attuale della legislazione, in assenza di diagnosi di non imputabilità o di imputabilità ridotta, non vi può essere alcun intervento coercitivo, a sanzione espiata.
Sarebbe auspicabile uno sforzo di ulteriore elaborazione normativa che prenda in considerazione l'ipotesi di un trattamento obbligatorio successivo alla espiazione della pena, modellato sullo schema della misura di sicurezza, per favorire una terapia permanente delle persone con tendenze pedofiliache, nel tentativo di conciliare il bisogno di maggiore difesa sociale che la collettività avverte con le esigenze di equilibrio del sistema penale.
f) Reati ambientali, urbanistici e negli ambienti di lavoro
In generale si rileva che la opzione verso forme di riduzione dell'area del penalmente rilevante si accompagna, purtroppo, ad una del tutto insufficiente preparazione tecnica ed amministrativa di molti settori della pubblica amministrazione; in particolare nelle realtà di più ridotte dimensioni nelle quali uffici tecnici dei comuni si devono confrontare con realtà imprenditoriali di grande rilievo.
Nel settore dell'edilizia continua la presenza del fenomeno di abusivismo, anche in zone vincolate, che viene avvertito e quasi tollerato come male minore rispetto alle grandi forme di criminalità. In proposito si segnala che, pur in presenza di un generalizzato ricorso alla sanzione della demolizione delle opere abusive anche da parte dell'autorità giudiziaria, permangono le difficoltà di una sua concreta esecuzione, mentre scarsa rimane la applicazione della acquisizione delle aree a causa delle perduranti inerzie e disattenzioni di molte amministrazioni.
Notevoli, ed in molte realtà in aumento, anche le molteplici forme di aggressione all'ambiente. Nessuna risorsa ambientale è risparmiata: estrazione abusiva di ghiaia dai fiumi, discariche abusive di rifiuti sul suolo e nelle acque, inquinamento dell'aria con conseguenti effetti diretti ed indiretti sulla salute dell'uomo, forme di alterazione del demanio ed utilizzo abusivo delle acque potabili.
Grande attenzione è dimostrata verso il contrastato fenomeno dell'elettromagnetismo, la cui possibile rilevanza penale ha trovato conferma anche in recenti decisioni della Corte di cassazione.
Sul piano normativo è confermato l'enorme impatto del diritto comunitario sulla nostra legislazione ambientale, evidenziato anche dalle molteplici questioni pregiudiziali di interpretazione del diritto comunitario sollevate da molti giudici italiani dinanzi alla Corte di giustizia delle Comunità europee, e la necessità di forme di collaborazione tra Stati per contrastare i fenomeni di inquinamento transfrontaliero e di traffico illecito di sostanze e rifiuti inquinanti e pericolosi.
In proposito la redazione di testi unici in materia, la cui utilità è stata invocata da più parti, non si è ancora avviata; l'unico testo approvato è quello dell'edilizia (decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001 n. 380), ma la sua entrata in vigore è stata ulteriormente differita anche in relazione alla necessità di tener conto non solo della nuova normativa in materia (legge 21 dicembre 2001 n. 443), ma anche degli effetti del nuovo riparto di attribuzioni Stato-Regioni delineato dal nuovo titolo V della nostra Costituzione.
Si assiste, in definitiva, ad una troppo disattenta alterazione dell'ambiente nel suo complesso, che viene drammaticamente messa in risalto in occasione dei disastri naturali; è necessario rilanciare l'impegno per una piena attuazione dei principi comunitari in materia della precauzione, prevenzione e più elevato livello di tutela.
All'aumento degli infortuni sul lavoro, in quasi tutte le realtà economicamente interessate da fenomeni di industrializzazione, si accompagna una richiesta di maggiore specializzazione del personale preposto al controllo ed alla prevenzione negli stabilimenti ed ambienti di lavoro.
Va segnalato, infine, che non condivisibile appare la esclusione nel decreto legislativo 8 giugno 2001 n. 231, già citato, attuativo della legge sulla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, dei reati in tema di infortuni sul lavoro ed ambiente.
g) Reati tributari
E' confermata la consistente riduzione dei reati del settore, che deve unicamente ricollegarsi alla nuova legislazione, la quale ha ridotto le fattispecie penalmente rilevanti mediante l'innalzamento delle soglie di punibilità delle evasioni fiscali. A tal proposito taluni Procuratori generali manifestano la preoccupazione che tale innalzamento possa avere ripercussioni negative sulle entrate tributarie dello Stato.
h) Criminalità informatica
L'applicazione delle specifiche norme del codice penale in materia di criminalità informatica permane scarsa; ad esempio, il Procuratore generale di Roma riferisce che nel distretto il fenomeno è pressoché sconosciuto. E' legittimo il sospetto che il fenomeno effettivo rimanga sommerso, anche per lo scarso interesse a segnalare forme di aggressione ai propri sistemi di rete informatica e per le oggettive difficoltà di individuazione dei soggetti coinvolti.
Non significative nemmeno le forme di truffa via Internet, anche per l'uso non ancora diffuso di tale tipo di transazioni commerciali.
Molte sono le indagini, definite o in corso, per episodi di pedopornografia informatica mediante intrusione nella privacy o commercio di materiale pedopornografico di minori tramite Internet.
Peraltro, il fenomeno dei reati informatici nelle sue svariate tipologie (pedofilia via Internet, utilizzo della rete per fini criminali o terroristici, acquisizione a fini illeciti di dati riservati o coperti da segreto, diffusione di informazioni illegali e aggressione di programmi altrui ad opera dei c.d. hackers) va assumendo sempre maggiore rilevanza e non può più essere affrontato con sufficienza ed approssimazione. E' necessario che si sviluppi una maggiore sensibilità sia con una migliore organizzazione di mezzi e uomini, sia con una nuova cultura specialistica, anche in seno alla Magistratura, che sia in grado di conoscere in tutti i suoi aspetti il fenomeno per combatterlo e punirlo adeguatamente.
In tale prospettiva si segnala la recente sottoscrizione della Convenzione internazionale di Budapest del 23 novembre 2001 sulla "Criminalità informatica" che obbliga tutti gli Stati aderenti, tra cui l'Italia, ad introdurre nel proprio ordinamento nuove specifiche figure di reato e prevede norme processuali e di cooperazione internazionale.
i) Criminalità minorile
Il fenomeno della criminalità minorile si conferma come preoccupante non tanto per il numero dei procedimenti quanto perché, anche dove si segnala una diminuzione dei reati, permane o aumenta la gravità della tipologia dei delitti commessi; inoltre modalità sempre più violente connotano i comportamenti dei giovani, che non esitano a delinquere neppure all'interno delle scuole.
In realtà non afflitte da fenomeni di criminalità organizzata gli autori non provengono più dalle c.d. famiglie multiproblematiche, ma appartengono sempre più spesso a famiglie "normali" e la spinta a delinquere non è più collegabile, né giustificata da un obiettivo economico.
Nelle medesime realtà, ed ancor più in quelle dove invece sono presenti organizzazioni criminali sempre pronte a creare forme di sfruttamento o reclutamento ed addestramento delinquenziale dei minori, viene evidenziato il preoccupante fenomeno di forme anche autonome di aggregazione dei minori, quasi ad imitazione delle modalità di condotta della criminalità adulta, tanto da avere condotto ad una pronuncia di condanna a carico di minori per il reato di cui all'art. 416-bis c.p..
Ulteriore dato di riflessione e preoccupazione è quello che discende dal frequente accertamento e contestazione della recidiva, che rende manifesta la difficoltà di individuare efficaci strumenti e strutture di recupero e prevenzione, ancor più necessarie quando gli autori sono minorenni di nazionalità straniera.
E' pressoché generalizzato il rilievo, contenuto in tutte le relazioni dei Procuratori generali, secondo cui la devianza minorile appare riconducibile all'assenza di validi riferimenti familiari, allo scadimento dei valori tradizionali, al diffuso consumismo ed all'enfatizzazione dei modelli di vita negativi realizzata, a volte, anche da un approccio troppo disinvolto, superficiale e di puro spettacolo al tema da parte del mondo dell'informazione.
In tale quadro viene segnalata come inadeguata una mera prospettiva di aumento degli strumenti di responsabilità e punizione; mentre si rende sempre più necessario rimettere al centro dell'attenzione i problemi dell'educazione dei giovani nella famiglia, nella scuola e nello stesso processo penale mediante una doverosa e giusta punizione che si collochi all'interno di un percorso di crescita dei giovani devianti.
In questo settore è ancor più emblematica e rilevante l'attuazione di un "giusto processo" mediante un sempre più frequente ricorso ai riti alternativi, possibilmente all'udienza preliminare (lasciando al dibattimento i casi più gravi nei quali non è stato possibile attuare un percorso di recupero), e la definizione dei procedimenti in tempi ragionevoli e ravvicinati all'epoca di commissione dei reati, così da realizzare un grande effetto educativo trasmettendo ai giovani, coinvolti e non, il messaggio di una giustizia equa ed efficiente. A tredici anni dalla sua riforma, anche il processo penale minorile avrebbe bisogno di interventi di semplificazione, al fine di consentire una più celere celebrazione dei processi, soprattutto per i reati più modesti.
E' atteso, inoltre, da decenni un ordinamento penitenziario minorile, affinché la permanenza dei ragazzi nelle carceri minorili sia disciplinata da regole diverse da quelle degli adulti e si possano sperimentare nuovi momenti sanzionatori, ma anche più ricchi percorsi di aiuto per i minorenni che commettono gravi reati.
In questa ottica è significativo e doveroso l'apprezzamento per il notevole incremento, fortemente sostenuto da tutta la magistratura minorile, delle iniziative programmate e finanziate dallo Stato italiano e dai competenti organismi europei, anche attraverso l'impegno ed il coinvolgimento del volontariato, per interventi socio-assistenziali in favore dei minori. Di tale impegno è stata concreta testimonianza il premio conferito dal Dipartimento della Funzione Pubblica al "Progetto Pollicino", presentato dal Centro per la giustizia minorile di Palermo unitamente a cooperative di volontariato.
La Direzione nazionale antimafia
La Direzione nazionale antimafia, istituita, com'è noto, nell'ambito della Procura generale presso la Corte di cassazione, che è anche preposta alla sorveglianza su di essa, ha proseguito con instancabile incisività ed efficacia la sempre più difficile azione di contrasto alla criminalità organizzata.
Come sottolinea nella sua relazione il Procuratore nazionale antimafia, l'economia mafiosa si sta estendendo con silente, ma capillare, pervasività nell'economia legale con un continuo aumento del fatturato e dei profitti dei mercati e delle imprese mafiose o a partecipazione mafiosa. La globalizzazione dell'economia ha comportato una globalizzazione del crimine organizzato. Gli effetti sono davvero temibili: l'economia mafiosa rappresenta una minaccia gravissima alla democrazia e all'economia legale.
Contro il carattere trasnazionale del crimine il rimedio auspicato consiste in una più incisiva cooperazione internazionale.
In tale prospettiva, nel periodo 1° luglio 2001 - 30 giugno 2002 la D.N.A. ha intensificato le missioni dei magistrati all'estero e gli incontri in Italia con autorità straniere con finalità di coordinamento e di impulso investigativo.
Sul piano legislativo vanno segnalate alcune importanti novità. La legge 5 ottobre 2001 n. 367 ha aggiunto il comma 5-ter all'art. 727 c.p.p., prevedendo che "in ogni caso, copia delle rogatorie dei magistrati del pubblico ministero, formulate nell'ambito di procedimenti relativi ai delitti di cui all'art. 51, comma 3-bis, è trasmessa senza ritardo al procuratore nazionale antimafia". Tale disposizione accresce la capacità informativa della D.N.A. e ne consente una maggiore funzionalità operativa. Altra importante novità riguarda la partecipazione della D.N.A. al Comitato di sicurezza finanziaria previsto dal decreto legge 12 ottobre 2001 n. 369, convertito con modificazioni, nella legge 14 dicembre 2001 n. 431. Tale partecipazione consente alla D.N.A. di compiere una lettura unitaria delle dinamiche dei mercati finanziari infiltrati dalla ricchezza mafiosa.
Ma nuove iniziative legislative vengono sollecitate.
Per una più efficace azione preventiva contro l'infiltrazione della criminalità organizzata negli appalti di opere pubbliche si suggerisce la riduzione del numero delle stazioni appaltanti e, in piena sintonia con i Procuratori generali, l'aumento delle pene per i delitti di turbata libertà degli incanti (art. 353 c.p.) e per l'astensione dagli incanti (art. 354 c.p.).
Per quanto riguarda le misure di prevenzione, è ribadita la necessità che vengano attribuiti anche alla D.N.A. e alle procure distrettuali i poteri di accertamento e di proposta ora assegnati al procuratore della Repubblica, al questore e al direttore della Direzione investigativa antimafia.
Parimenti, ancora una volta viene segnalata l'opportunità che il potere di disporre le intercettazioni preventive, finalizzate esclusivamente all'attività di prevenzione in ordine a specifiche tipologie di delitti previsti dall'art. 51 comma 3-bis c.p., sia attribuito anche al Procuratore nazionale antimafia con un corredo di penetranti forme di garanzia.
A livello di coordinamento operativo va registrato il forte impegno della D.N.A., che nel corso dell'anno ha organizzato ben 129 riunioni di coordinamento con le procure distrettuali, con le Forze di polizia ed altre autorità.
L'intensa attività della D.N.A. nei suoi principali campi di azione è resa palese dai seguenti, ulteriori dati statistici: 62 applicazioni di magistrati della Direzione agli uffici di procura impegnati nelle indagini per reati di criminalità organizzata; 28 colloqui investigativi; 1113 pareri ex art. 4-bis dell'ordinamento penitenziario sulla richiesta di misure alternative alla detenzione da parte di soggetti collegati alla criminalità organizzata; 1437 pareri sulla protezione dei collaboratori di giustizia; 2402 pareri in tema di gratuito patrocinio.
E' stato inoltre potenziato il sistema informatico con la predisposizione di una nuova versione delle regole minime concernenti l'organizzazione e il funzionamento delle banche dati.
A tale riguardo, l'indispensabile maggior ricorso ai sistemi informatici per la gestione dei notevoli flussi di informazione impone l'urgente formazione presso la D.N.A. di una sezione di analisti, composta da personale di polizia giudiziaria delle tre Forze di polizia, con uno status analogo al personale che svolge funzioni simili presso le Direzioni distrettuali antimafia.
Un'efficace lotta alla criminalità organizzata richiede il costante adeguamento e potenziamento di tutte le strutture in essa impegnate, prima fra tutte la D.N.A.
Polizia giudiziaria e strutture investigative
L'attività espletata dalla polizia giudiziaria ha riscosso meritato apprezzamento in tutti i distretti di corte d'appello. Carabinieri, Guardia di Finanza e Polizia di Stato - così come, per quanto di competenza, gli altri Corpi - hanno agito con dedizione, fattivamente collaborando in tutti i settori d'indagine. In tale giudizio vanno ricomprese le sezioni di polizia giudiziaria istituite presso le procure della Repubblica, peraltro costrette ad operare in condizioni di difficoltà per il perdurante sottodimensionamento degli organici.
Tale sproporzione è vistosa in rapporto alla vastità dei fenomeni criminali radicati nel territorio, il cui "controllo" da parte dello Stato dev'essere segnato in primo luogo proprio dall'effettivo impegno di un numero congruo di operatori, che renda percettibile la preponderanza della legalità rispetto alla presenza criminale.
Fortunatamente marginale - ma, comunque, sempre da evitare - è l'interpretazione delle funzioni di polizia giudiziaria in chiave burocratica. Di regola si è invece registrato un impegno costante sia nel contrasto di quelle figure di reato che destano maggiore allarme nella collettività, sia nell'azione specialistica, necessaria a fronte del variegato e mai statico atteggiarsi dei fenomeni delinquenziali: l'uso di tecniche di polizia scientifica sempre più sofisticate è imprescindibile nelle indagini relative agli omicidi, per il rischio d'impunità che consegue alla mancata acquisizione scientifica, nell'immediatezza dei fatti, di riscontri oggettivi; le investigazioni di natura finanziaria sono essenziali per incidere sui flussi monetari e sui patrimoni illecitamente acquisiti, anche al fine di contrastarne efficacemente il reimpiego in ulteriori attività, illecite o apparentemente lecite, che possano fungere da fattori di incremento o di "ripulitura" dei capitali; l'ambiente minorile fa emergere, a sua volta, la necessità di una polizia giudiziaria dotata di specifica preparazione, così per i rapporti con l'ambiente e le famiglie, come nei riguardi dei soggetti perseguiti quali autori di reato, nonché al fine di prevenire i già ricordati fenomeni d'organizzazione per bande ovvero di organico inserimento dei ragazzi nelle strutture criminali maggiori.
Tuttavia, all'impegno tipico di polizia giudiziaria si affiancano di frequente incombenze marginali (come, ad esempio, informazioni e controlli in materia sostanzialmente amministrativa), fonte di distrazione di significative risorse dall'impiego più propriamente investigativo. In questo contesto va rammentato il controllo di soggetti sottoposti ad arresti domiciliari, purtroppo non alleviato dall'innovazione introdotta dall'art. 2 del decreto legge 24 novembre 2000 n. 341, convertito, con modificazioni, nella legge 19 gennaio 2002 n. 4: il c.d. braccialetto elettronico risulta nella pratica scarsamente applicato. Giungono pure segnalazioni della scoperta di possibili modalità di elusione del controllo a distanza.
Sul piano delle dotazioni strumentali resta d'attualità la richiesta, da parte della magistratura inquirente, di nuove attrezzature soprattutto d'intercettazione ambientale e dei telefoni cellulari, nonché di moderni apparecchi di ripresa. I tempi d'attesa (oltre che i notevoli costi) per poter utilizzare le apparecchiature necessarie non di rado risultano incompatibili con le urgenze e gli obiettivi d'indagine.
C) ESECUZIONE DELLA PENA
Anche nell' anno 2002 è proseguito il recupero di efficienza degli uffici preposti all'esecuzione penale. In particolare le procure della Repubblica e le procure generali non sembrano avere alcun ritardo in nessun distretto e anche i tribunali di sorveglianza hanno incrementato il numero delle udienze e dei procedimenti definiti, in molti casi riducendo significativamente le pendenze (Roma, Firenze, Bari, Genova). La situazione appare generalmente buona nei piccoli distretti (in particolare, Campobasso e Messina), con l'eccezione di Potenza. Decisamente negativa, per cause non imputabili ai magistrati, è la situazione delle pendenze a Reggio Calabria e a Palermo, e addirittura drammatica quella che sono chiamati a fronteggiare il tribunale e la magistratura di sorveglianza di Napoli.
Va, tuttavia, rilevato che anche dove sono stati raggiunti risultati particolarmente positivi si è ben lontani dal rispetto del termine di legge di quarantacinque giorni dalla presentazione dell'istanza: ove i ritardi sono più contenuti (Genova, Messina ) si registra una media di quattro-sei mesi per la definizione di un procedimento di sorveglianza. Del resto il termine di quarantacinque giorni per la decisione era stato stabilito quando l' affidamento in prova poteva essere concesso solo ai detenuti in espiazione di pena, per condanna non superiore a tre anni, dopo tre mesi di osservazione in ambito penitenziario. Da un lato si è verificato, per successivi interventi normativi ed estensioni operate dalla Corte costituzionale, un enorme ampliamento della platea dei soggetti che possono essere ammessi alle misure alternative, dall'altro, per i richiedenti le misure in stato di libertà, è necessario attendere la relazione dei Centri di servizio sociale, che dovrebbero avere un minimo di serietà e consistenza. Il termine, quindi, anche ove fosse possibile astrattamente, non potrebbe essere rispettato pena una decisione non ponderata e priva di istruttoria per i condannati in regime di sospensione.
In ordine alle pendenze, tuttora assai elevate, va poi rilevato che l'ultima determinazione degli organici della magistratura di sorveglianza risale alla fine degli anni ottanta, mentre le funzioni ed il contenzioso sono enormemente aumentate. A ciò si aggiungono le persistenti carenze e scoperture degli organici del personale amministrativo e dei Centri di servizio sociale. Come avevo già anticipato nella relazione dello scorso anno scorso, tutti i magistrati di sorveglianza sono ben consapevoli della trasformazione del loro ruolo, da garanti della legalità dell'esecuzione della pena a responsabili dell'eseguibilità delle condanne e delle modalità di esecuzione. La conseguenza è che in distretti come Palermo il numero delle udienze del tribunale di sorveglianza è stato elevato a quattro a settimana, cui vanno aggiunte le udienze monocratiche del magistrato di sorveglianza; il che, però, ha avuto ripercussioni negative sullo svolgimento di altre attribuzioni: le visite al carcere e la conoscenza dei detenuti si sono drasticamente ridotte proprio in una delle realtà più drammatiche per affollamento degli istituti penitenziari e tipologia dei detenuti. La situazione è peraltro pressoché generalizzata, e si vanno diffondendo prassi semplificatorie delle procedure; così, ad esempio, alcuni tribunali di sorveglianza dichiarano le estinzioni della pena a seguito di positivo svolgimento della misura alternativa dell'affidamento in prova al servizio sociale o della liberazione condizionale senza adottare la procedura in contraddittorio prevista dall'art. 678 c.p.p., riservando ai soli casi dubbi la fissazione dell'udienza camerale.
Molto opportunamente, quindi, il Parlamento ha, di recente, varato, con la legge 19 dicembre 2002 n. 277, una riforma della legge 26 luglio 1975 n. 354 che, come era stato auspicato nella relazione dello scorso anno, ha modificato l'iter procedimentale in materia di liberazione anticipata attribuendola alla competenza del magistrato di sorveglianza, che provvede con ordinanza de plano, reclamabile al collegio.
Il rapporto tra misure alternative richieste e concessioni è del tutto in linea con quello dei due anni precedenti, salvo un aumento della detenzione domiciliare dovuto all'ampliamento dei limiti normativi di concedibilità. Si rafforza la tendenza a concedere l' affidamento in prova per i tossicodipendenti solo in presenza di programmi residenziali di recupero presso comunità terapeutiche.
Limitatissimo il numero di casi di ritardato o mancato rientro da permessi.
Alcune recenti modifiche normative sono state positivamente apprezzate: sul piano processuale la riforma dell'art. 656 c.p.p., che ha ripristinato la notifica in luogo della consegna a mani proprie dell'ordine di carcerazione, e l'inserimento nell'art. 677 c.p.p. del comma 2-bis che prevede l'obbligo del richiedente una misura alternativa di eleggere domicilio a pena di inammissibilità della richiesta. Ciò ha molto semplificato le notifiche. Sul versante sostanziale ha avuto larga applicazione la concessione della detenzione domiciliare oltre i limiti ordinari ai condannati affetti da gravi malattie, in sostituzione dei rinvii o delle sospensioni dell' esecuzione.
La situazione delle carceri appare sempre più grave. L'amministrazione ha valutato in 41.602 la recettività complessiva di tutti gli istituti in condizioni di rispetto del regolamento e delle finalità rieducative, oltre che di sicurezza e di pieno controllo della situazione da parte della polizia penitenziaria, indicando però una più elevata soglia di capienza di necessità (circa 60.000), legata, appunto, alle contingenze del momento. Tale distinzione suscita perplessità, poiché in linea di massima i diritti dei detenuti e il rispetto della loro dignità non sono comprimibili, ed è difficile ammettere uno scarto così elevato tra capienza regolamentare e capienza di necessità; ma va tenuto presente che la prima è stata calcolata sulla scorta dei requisiti minimi di superficie per persona richiesti per le abitazioni civili. In ogni caso il numero dei detenuti al 30 giugno 2002 era di 56.271 unità (dei quali 22.135, pari al 39,3%, in custodia cautelare), con un incremento di circa 900 unità rispetto al 30 giugno 2001 (nei mesi successivi si è avuta una lieve diminuzione: al 14 novembre 2002 erano 56.032); si è, quindi, ormai vicini alla c.d. capienza di necessità.
Ma la situazione è certamente più grave di quanto appaia perché il sovraffollamento non è distribuito in modo uniforme; esistono situazioni come quella di Massa in cui il rapporto tra capienza regolamentare e presenze è addirittura di 82 a 237; assai grave è, comunque, il sovraffollamento a Napoli, Palermo e Reggio Calabria. La popolazione carceraria presenta problematiche particolari per presenza di tossicodipendenti (pari al 28% dei detenuti presenti) e malati di epatite o immunodeficienza, turbe psichiche e di un elevato numero di stranieri (il 30%), moltissimi dei quali di religione islamica, con tutte le conseguenze legate alle diverse abitudini alimentari e di culto.
Inoltre le strutture penitenziarie sono giudicate, in molti casi, inadeguate per vetustà e degrado. E' auspicabile che il piano straordinario di potenziamento delle strutture penitenziarie previsto dall'art. 6 del decreto legge 11 settembre 2002 n. 201, convertito, con modificazioni, nella legge 14 novembre 2002 n. 259, possa avere tempestiva attuazione.
Va ancora segnalata la carenza di strutture sanitarie. In Sardegna non esiste un solo ospedale psichiatrico giudiziario; per tutta la Sicilia e la Calabria ce n'è uno solo. Eppure è noto che la detenzione è una situazione di stress che favorisce le sindromi depressive reattive, e il numero dei suicidi e dei tentati suicidi di detenuti è purtroppo assai elevato: per citare solo alcuni dati, nel distretto di Milano si sono verificati ben 13 suicidi, in quello di Bologna 107 tentati suicidi e 5 suicidi, ad Ancona 7 tentativi e 2 suicidi, a Sassari 3 suicidi, a Trieste 2 tentativi ed un suicidio, a Venezia 9 tentativi ed un suicidio, a Palermo 3 suicidi, a Catanzaro 2. Altre corti d' appello non hanno fornito il dato.
La situazione penitenziaria è al centro del dibattito politico. Non compete al Procuratore generale la scelta delle misure più opportune. Sembra però giunto il momento di affrontare con urgenza un problema il cui esito era prevedibile da anni, poiché la popolazione penitenziaria è ininterrottamente cresciuta nonostante il sempre maggior ricorso a misure alternative (che coprono ormai ben più della metà delle condanne a pena detentiva) e la recente depenalizzazione. Anche le legittime aspirazioni alla sicurezza e alla certezza della pena debbono confrontarsi con l'attuale rigidità ed inadeguatezza del sistema penitenziario. Occorre una visione globale del problema; eventuali misure temporanee di riduzione dell'affollamento che si ritenesse di adottare dovrebbero essere accompagnate da un programma di rinnovamento dell'edilizia penitenziaria e di aumento degli organici della polizia penitenziaria e degli educatori, per rendere la espiazione della pena più coerente possibile con i principi costituzionali di umanizzazione e rieducazione.
LA CORTE DI CASSAZIONE E LA PROCURA GENERALE
Sulla Corte di cassazione restano tuttora valide le considerazioni svolte lo scorso anno; permangono, infatti, tutte le difficoltà allora evidenziate perché possa avere piena attuazione il suo ruolo istituzionale di organo posto al vertice (funzionale, non gerarchico) del sistema giudiziario italiano, come emerge non solo dagli artt. 111 della Costituzione e 65 dell'ordinamento giudiziario, che affidano ad essa "l'uniforme interpretazione della legge" e "l'unità del diritto oggettivo nazionale", ma anche dall'art. 104 comma 2 della Carta fondamentale, che conferisce al Primo Presidente ed al Procuratore Generale della Corte di cassazione il ruolo di componenti di diritto del Consiglio Superiore della Magistratura e dal successivo art. 135 comma 1, che attribuisce alla Corte di cassazione e alla Procura generale il potere di nominare un quinto dei giudici della Corte costituzionale.
Resta infatti imponente - e non trova pari in corti supreme di Paesi ad ordinamento giuridico simile al nostro - il numero dei ricorsi che annualmente affluiscono alla Corte di cassazione. Nel periodo 1° luglio 2001 - 30 giugno 2002 ne sono pervenuti 79.170, di cui 32.682 in materia civile e 46.488 in materia penale; nello stesso arco temporale sono state pronunciate ben 63.534 sentenze. Armonizzare, sia pure nell'ambito dei singoli settori e delle varie materie trattate, un così elevato numero di decisioni al fine di garantire l'uniforme interpretazione della legge è mera utopia, nonostante gli sforzi, anche organizzativi, che la Corte compie in tale direzione con l'indispensabile supporto dell'Ufficio del Massimario, particolarmente attento e sensibile alla pronta rilevazione e segnalazione di ogni contrasto di giurisprudenza. In tale attività si rivela sempre più prezioso l'ausilio degli strumenti informatici, il cui ulteriore sviluppo è stato, tuttavia, rallentato da restrizioni di bilancio.
Per fronteggiare tale situazione è urgente por mano con decisione a riforme che riducano il sovraccarico della Corte. Talune di esse, di natura più strettamente tecnica, sono state già auspicate nella relazione dello scorso anno e non è il caso di indugiarvi ancora; mi limiterò a segnalare che nel settore penale è ulteriormente aumentato, sia in termini assoluti che percentuali, il numero dei ricorsi proposti personalmente dall'interessato (che costituiscono un non senso in un giudizio caratterizzato da spiccato tecnicismo, qual è quello di cassazione): sono stati 11.706, pari al 25%, a fronte del 21% del periodo precedente; va pertanto registrata con soddisfazione una proposta di legge di iniziativa parlamentare (n. 2754-bis/C) volta ad eliminare tale possibilità mediante una modifica dell'art. 613 c.p.p.
E' sempre più necessario impegnarsi per un cambiamento della mentalità di tutti coloro che operano in cassazione (magistrati ed avvocati) perché, ciascuno per la loro parte, contribuiscano a ricondurre il giudizio di cassazione nell'àlveo suo proprio di giudizio di legittimità, che si limita a verificare la corretta applicazione della legge sostanziale e processuale, senza sostituirsi al giudice di merito nella valutazione dei fatti per cui è processo.
Se non è possibile procedere nella direzione, più volte auspicata negli anni scorsi, di una drastica riduzione, sia nel settore civile che in quello penale, dei provvedimenti soggetti a ricorso per cassazione, pur nel rigoroso rispetto della disposizione di cui all'art. 111 comma 7 della Costituzione, secondo il quale contro le sentenze ed i provvedimenti sulla libertà personale pronunciati dagli organi giurisdizionali è sempre ammesso ricorso per cassazione, è necessario evitare un'ulteriore dilatazione dei provvedimenti ricorribili. Una tale estensione rischierebbe di paralizzare definitivamente la suprema Corte e di porsi in rotta di collisione con il principio della ragionevole durata del processo, sancito dal comma 2 del suddetto art. 111, tutte le volte in cui oggetto dell'impugnazione fossero provvedimenti adottati nel corso dell'iter procedimentale che conduce alla pronuncia e volti a disciplinarne lo svolgimento.
A quanto detto si aggiunga che le condizioni di grave disagio in cui sono costretti ad operare i magistrati della Corte di cassazione non ne agevola certo il lavoro. La maggior parte di loro non dispone, non dico di una stanza, ma neppure di un tavolo sul quale potersi appoggiare quando vengono in ufficio per studiare gli incarti processuali; senza parlare, poi, della assoluta mancanza di supporti umani che possano agevolare tale studio: il pensiero corre alla tante volte auspicata introduzione del c.d. "assistente di studio".
Nella relazione dello scorso anno non era stato possibile fare un bilancio su alcune riforme del procedimento davanti alla Corte di cassazione intervenute nei primi mesi del 2001. Trascorso oltre un anno dalla loro introduzione, tale bilancio è ora possibile.
Per quel che concerne il settore penale e gli effetti della legge 26 marzo 2001 n. 128, con la quale è stato semplificato il procedimento camerale e se ne è potenziata l'utilizzazione con la creazione di un'apposita sezione della Corte (la VII sezione penale), cui è affidato l'esame dei ricorsi inammissibili, il bilancio è senz'altro positivo. Nel periodo considerato sono pervenuti a tale sezione 21.620 ricorsi, pari al 46% del totale; ciò sta a significare che quasi la metà del lavoro della Cassazione in materia penale viene svolto dalla nuova sezione, con due importanti conseguenze: a) le rimanenti sezioni possono dedicarsi più proficuamente alla trattazione degli altri procedimenti; b) la sollecita individuazione e la tempestiva definizione dei ricorsi inammissibili costituisce un utile mezzo di dissuasione contro l'utilizzazione strumentale e defatigatoria di tale impugnazione. Non è poi estraneo alla istituzione della nuova sezione il consistente aumento delle declaratorie di inammissibilità di si dirà più oltre.
E' auspicabile, tuttavia, che l'attività preliminare di individuazione dei ricorsi inammissibili sia ispirata a criteri di maggior rigore; infatti ancora assai elevato è il numero dei ricorsi che vengono dichiarati inammissibili dalle altre sezioni: circa il 40%. Ciò significa che vi è ancora spazio per migliorare il funzionamento del meccanismo procedimentale voluto dal legislatore e, quindi, per ottimizzarne gli effetti.
Nel settore civile, la riforma dell'art. 375 c.p.c. è stata introdotta per consentire alla Corte di risolvere, più rapidamente e in modo più informale, i ricorsi per i quali lo strumento della sentenza, sorretta da una motivazione compiutamente esplicitata, non rispondeva ad alcuna vera esigenza. Adeguandosi a tale richiesta, il legislatore ha previsto - con la legge 24 marzo 2001 n. 89 - la possibilità di decidere il ricorso in camera di consiglio e con motivazione succinta non più soltanto nei casi di inammissibilità e per i regolamenti, ma anche nei casi di manifesta fondatezza o di manifesta infondatezza, oppure di mancanza dei motivi di cui all'articolo 360 c.p.c., in particolare quando con il ricorso si chiede una rivalutazione dell'accertamento di fatto.
Il bilancio che ad oggi è possibile fare di questa riforma non può dirsi soddisfacente: i risultati dell'innovazione legislativa appaiono molto scarsi in tutte le sezioni della Cassazione civile (con tale procedura sono stati definiti poco meno del'10% dei ricorsi), fatta eccezione per la terza sezione e per la sezione tributaria, anche se naturalmente prima che l'attuazione della nuova disciplina vada a pieno regime, è necessità un certo spazio di tempo per elaborare le più opportune misure organizzative. Non convincono pienamente le ragioni addotte da altre sezioni civili della Corte, nelle quali si fissano per l'udienza pubblica ricorsi che bene potrebbero essere decisi in camera di consiglio. Anche infatti a parità di tempi di fissazione, si trascura di considerare che si tratta di una direttiva di legge che intende dissuadere dalla proposizione di ricorsi inammissibili, che invece la trattazione in udienza fa apparire come meritevoli di attenzione da parte di una corte suprema. Non esistendo per il settore civile una sezione apposita (come accade invece nel settore penale con la VII sezione), sarebbe auspicabile il rafforzamento degli uffici-spoglio già esistenti, affidandone la cura ai presidenti assegnati a ciascuna di esse.
I dati statistici (che si riferiscono al periodo 1° luglio 2001 - 30 giugno 2002) evidenziano con spietata implacabilità la grave situazione in cui versa l'organo posto al vertice dell'organizzazione giudiziaria italiana.
I ricorsi pendenti - sia nel settore civile che in quello penale - a fine periodo ammontavano a 104.565, mentre al 30 giugno 2001 erano 88.955, con un aumento, quindi, del 17%.
Nel settore civile il numero delle sopravvenienze continua ad aumentare in misura molto elevata e quest'anno è stata superata quella soglia di 32.000 nuovi processi all'anno, che fino a pochi anni fa veniva considerata una prospettiva troppo pessimistica. I dati dell'ultimo triennio mettono in luce una progressione allarmante: dai 24.235 procedimenti sopravvenuti nel periodo dal 1° luglio 1999 al 30 giugno 2000 si era già passati, nei 12 mesi successivi, a 29.272, con un incremento, quindi, del 21%. Le sopravvenienze sono ulteriormente aumentate nell'ultimo anno, sia pure con una progressione meno accentuata: nel periodo dal 1° luglio 2001 al 30 giugno 2002, infatti, sono stati iscritti in Cassazione 32.682 nuovi ricorsi, con un aumento dell'12% rispetto ai dodici mesi precedenti.
La gravità della situazione è poi accentuata dalla notevole riduzione del numero dei processi esauriti nel corso dell'anno: 18.155, contro i 20.944 dei dodici mesi precedenti (- 13%) e i 21.128 dell'anno giudiziario 1999-2000. La riduzione riguarda tutte le sezioni, eccettuate le Sezioni unite e la sezione tributaria, e sommando i processi pendenti all'inizio del periodo di riferimento (pari a 61.951) a quelli sopravvenuti nel corso del periodo (pari a 32.682), si ha un "carico" di 94.633 processi rispetto al quale il numero di quelli esauriti (pari, come si è detto, a 18.155) rappresenta una quota del 19%, certamente insufficiente.
Poiché la mole di ricorsi che vengono annualmente iscritti è di gran lunga superiore a quella che la Corte riesce a decidere e questa eccedenza si cumula con quella degli anni precedenti, la pendenza è aumentata quest'anno da 61.951 a 76.478 ricorsi (+ 23%).
Per effetto di tale situazione si è verificato un consistente aumento della durata media del ricorso per cassazione in materia civile, passata da 836 a 994 giorni, pari a 33 mesi.
Come è stato posto in evidenza nella relazione dell'anno scorso, questo abnorme incremento del numero dei ricorsi ha una causa precisa. Si verifica infatti in un settore ben delimitato: quello della materia tributaria. Nel periodo 1° luglio 2001 - 30 giugno 2002 sui 32.682 ricorsi di nuova iscrizione, infatti, ben 9.767 hanno avuto ad oggetto sentenze delle commissioni tributarie regionali o della Commissione tributaria centrale. Di fronte a questo afflusso, la capacità di definizione della sezione appositamente istituita per questa materia ha avuto - grazie anche all'aumento del numero dei magistrati ad essa addetti - una impennata verso l'alto tanto rimarchevole quanto insufficiente essendo passati, i ricorsi definiti, da 2.531 a 3.784: il risultato è che la pendenza, per i giudizi in materia tributaria ha superato le 25.000 unità (ed è andata ulteriormente aumentando nel periodo successivo: al 30 ottobre 2002 erano 28.187).
Depurando i dati complessivi da quelli relativi alla materia tributaria, il quadro che ne deriva è grave, ma meno allarmante: la sopravvenienza si colloca a 22.915 unità; il numero dei giudizi definiti a 14.371 (pur sempre inferiore, quindi ai ricorsi sopraggiunti nel medesimo arco di tempo, ma con un divario ridotto e, tutto sommato, meno scoraggiante); la pendenza finale si attesta a 50.955 ricorsi, con un incremento del 13% (rispetto al 23% avendo riguardo a tutti i ricorsi).
Gli sforzi organizzativi sin qui fatti al fine di cercare di far fronte all'imponente mole dei nuovi ricorsi non hanno raggiunto lo scopo ed anche la speciale procedura camerale prevista dal nuovo testo dell'articolo 375 c.p.c., come si è detto, non sembra aver dato i frutti sperati. Va tuttavia segnalato che, con la collaborazione dei magistrati addetti all'esame preliminare dei ricorsi, si sta realizzando l'accorpamento dei ricorsi c.d. seriali, al fine di definirli in un'unica udienza. Il che ha portato a un incremento del numero dei ricorsi definiti.
E' stata poi avviata (presso la terza sezione civile) il procedimento di informatizzazione, nella prospettiva di estenderlo, se ne sarà confermata l'utilità, a tutte le altre sezioni.
Nel settore penale, la situazione è meno pesante, anche se non si deve indulgere a facili ottimismi. Infatti, a fronte di una contrazione delle sopravvenienze del 6%, essendo le stesse passate, rispetto al periodo precedente, da 49.798 a 46.488, si è registrata una riduzione del 2% dei ricorsi definiti (da 46.295 a 45.379).
Le sopravvenienze hanno risentito positivamente degli effetti della depenalizzazione dei reati minori di cui alla legge 25 giugno 1999 n. 205 ed ai successivi decreti legislativi di attuazione 30 dicembre 1999 n. 507 e 10 marzo 2000, n. 74. Ma all'incidenza quantitativa non ha corrisposto una pari riduzione del lavoro dei magistrati, in quanto i ricorsi aventi ad oggetti i reati poi depenalizzati, di regola, non presentavano eccessive difficoltà. Per contro, la sempre maggiore complessità dei procedimenti sui quali la Corte è chiamata a pronunciarsi - sia per la obiettiva delicatezza e difficoltà di molte questioni, accentuate dalle frequenti modifiche del quadro normativo, che impediscono la formazione di orientamenti giurisprudenziali consolidati, sia per l'elevato numero di ricorrenti presenti in molti procedimenti - giustifica la contrazione del numero dei procedimenti definiti. Basti pensare ai problemi connessi alla successione di norme penali sostanziali originati dalla nuova disciplina dei reati in materia societaria, che hanno dato origine a non ancora risolti contrasti interpretativi, ed alla frequenza con la quale ormai anche in Cassazione la trattazione di un singolo procedimento si protrae per più udienze. Nell'anno appena decorso sono stati decisi diciassette procedimenti che hanno richiesto per la loro definizione ben cinquantasette udienze. In particolare, sono stati venti i procedimenti con più di venti ricorrenti, dei quali uno con sessantasette, uno con ottantaquattro, uno con novantotto ed uno con ben centotrentuno ricorrenti.
Per effetto dei dati sopra riportati nel periodo considerato si è verificato un aumento delle pendenze del 4%; sono, infatti, passate da 27.004 a 28.087; è confermato, in tal modo, un trend verso il progressivo incremento delle pendenze, già emerso nell'anno precedente, che si era arrestato solo nel periodo 1° luglio 1999 - 30 giugno 2000.
La durata media dei ricorsi per cassazione in materia penale è stata di 219 giorni, dal momento in cui pervengono alla Corte a quello in cui vengono decisi (nel periodo precedente era stata di 192 giorni). La suddetta pendenza corrisponde, quindi, al lavoro della Cassazione di poco più di sette mesi, ove si consideri che mediamente (tenuto conto anche del periodo feriale) il numero dei ricorsi definiti in un mese è stato di 3.781 unità.
L'esame degli esiti evidenzia che gli annullamenti, totali o parziali, sono stati il 16,81% (una percentuale di quattro punti inferiore a quella del periodo precedente), a fronte del 31,17% di rigetti, che hanno subito una lieve contrazione (-2,03%) e del 50,20% di inammissibilità, che sono aumentate in maniera assai consistente, essendo passate a tale incidenza percentuale dal 44,3% del periodo precedente; il residuo 1,82% è costituito dai conflitti, di giurisdizione o competenza, rettifiche ed altro. In ordine agli annullamenti, i dati statistici non rilevano la diversa incidenza percentuale di quelli con rinvio rispetto agli annullamenti senza rinvio. Si può, tuttavia, rilevare che l'incidenza dei secondi è assai modesta e dovuta, nella quasi totalità dei casi, alla sopravvenienza di cause di estinzione del reato.
Questi dati debbono far riflettere sull'uso distorto che viene fatto del ricorso per cassazione in materia penale: la metà di quelli proposti lo sono per ragioni che non possono essere esaminate dal giudice di legittimità; il 12% (pari a 5.488) sono proposti avverso sentenze con le quali il giudice accoglie l'accordo intervenuto fra le parti (patteggiamento); l'85% di questi ultimi sono dichiarati inammissibili (4.695).
Di ciò i magistrati della Cassazione, specie dopo la già ricordata istituzione della VII sezione penale, hanno acquisito definitiva consapevolezza. E' auspicabile che altrettanto facciano gli utenti del servizio giustizia, i quali dovranno rendersi conto della inutilità di una impugnazione che non abbia ad oggetto esclusivamente vizi di legittimità, considerato anche che, secondo l'ormai consolidato orientamento della giurisprudenza, una impugnazione inammissibile preclude anche la declaratoria di estinzione del reato per prescrizione.
Non dovrà essere più consentito, se si vuole che la Cassazioni operi come giudice supremo, di proporre - senza subire conseguenze in caso di rigetto - ricorsi il cui unico scopo sia quello di procrastinare il passaggio in giudicato della sentenza.
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Presso la Corte di cassazione è costituita, quale organo del pubblico ministero, la Procura generale. Sulle funzioni ed i poteri, tutt'affatto particolari e diversi rispetto agli omologhi uffici di merito, ad essa attribuiti nel nostro ordinamento e sulla sua posizione nell'ambito dell'organizzazione giudiziaria, mi sono soffermato nella relazione dello scorso anno, e non è quindi il caso di tornare, anche se non possono ignorarsi le proposte di riforme strutturali attualmente allo studio, sulle quali non è ovviamente possibile pronunciarsi.
I dati statistici sopra richiamati sui flussi di lavoro della Cassazione sono riferibili anche alla Procura generale, che esprime il parere, scritto o orale, su tutti i provvedimenti, anche in materia civile, che la Corte adotta.
Quanto alle competenze proprie della Procura, si è avuto un consistente incremento dei provvedimenti in materia di determinazione della competenza nel corso delle indagini preliminari, adottati a seguito di contrasti, positivi o negativi, tra organi del pubblico ministero appartenenti a distretti diversi (artt. 54 e 45-bis c.p.p.), ovvero su sollecitazione della parti private che ritengano competente per le indagini il pubblico ministero di un distretto diverso da quello dell'organo procedente (art. 54-quater c.p.p.). Essi, infatti, nel periodo 1° luglio 2001 - 30 giugno 2002, sono stati 315, con un aumento del 9% rispetto al periodo precedente.
Una lieve contrazione hanno subìto, invece, i provvedimenti di cessazione delle misure cautelari allorché questa consegua a sentenze della Corte di cassazione, che l'art. 626 c.p.p. attribuisce alla competenza del Procuratore generale; nell'anno appena decorso sono stati 132 ed hanno riguardato 208 ricorrenti.
Nel settore civile particolarmente intensa ed impegnativa è stata l'attività dei magistrati della Procura volta ad applicare con la massima latitudine possibile la nuova procedura di cui al citato art. 375 c.p.c., specie per quanto attiene al delicato settore dei regolamenti di giurisdizione davanti alle Sezioni Unite.
Nell'anno appena decorso la Procura generale ha ulteriormente intensificato i rapporti con gli uffici omologhi di Paesi stranieri, soprattutto europei. In ambito continentale, infatti, è sempre più avvertita la necessità di conoscenze, di scambi culturali e di esperienze nel settore della giustizia, che consentano di porre le basi per una futura armonizzazione dei vari ordinamenti, superando la dimensione prevalentemente economica dell'Unione europea.
Per dare ulteriore impulso a tali rapporti nel novembre scorso è stato istituito l'Ufficio relazioni internazionali", nell'ambito del quale opererà anche il Punto di contatto della Rete giudiziaria europea in materia civile e commerciale, essendo stata la Procura generale presso la Corte di cassazione designata quale uno dei due punti di contatto, per l'Italia, di detta Rete (l'altro è l'Ufficio legislativo del Ministero della Giustizia).
I PROCEDIMENTI DISCIPLINARI
Per quanto attiene al settore della responsabilità disciplinare dei magistrati, vanno ricordate le novità strutturali già evidenziate nelle relazioni degli anni trascorsi, quali :
a) la definitiva affermazione del carattere giurisdizionale del procedimento, con conseguente applicabilità ad esso del principio del "giusto processo";
b) la sentenza n. 497/2000 della Corte costituzionale, che ha reso possibile al magistrato sottoposto a procedimento disciplinare di avvalersi, per la difesa, dell'opera professionale di un avvocato del libero Foro;
c) l'entrata in vigore della legge 24 marzo 2001 n. 89 (c.d. legge Pinto) che, configurando all'art. 5 un ulteriore caso di responsabilità contabile per danno erariale conseguente alla non ragionevole durata del processo, ha inciso sul regime della responsabilità disciplinare del magistrato, ampliando il sistema di controllo dei doveri di laboriosità e professionalità.
A queste novità dello scorso anno devono aggiungersi e segnalarsi, per l'anno di riferimento, due significativi interventi della Corte costituzionale (sentenze n. 457/2002 e 270/2002): con il primo di essi i giudici della Consulta hanno escluso, con riferimento al procedimento di trasferimento di ufficio per incompatibilità ambientale ex art. 2 del regio decreto legislativo 31 maggio 1946 n. 511, la sussistenza del diritto del magistrato ad essere assistito da un avvocato del libero Foro. A tale conclusione la Corte è pervenuta in base alla considerazione che il procedimento in esame, diversamente da quello disciplinare in senso stretto, non riveste natura giurisdizionale, posto che in esso non viene in rilievo un illecito compiuto dal magistrato, ma una situazione obiettiva che si determina nell'Ufficio ove egli esercita le sue funzioni; e considerando altresì che il procedimento segue lo schema tipico del procedimento amministrativo, in cui ciascun suo componente può intervenire e manifestare pubblicamente la propria opinione, concorrendo infine alla deliberazione finale a seguito di votazione pubblica.
Con la sentenza 270/2002, la Corte costituzionale, in sede di risoluzione del conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto in punto di sindacabilità da parte del C.S.M. delle condotte, in ipotesi disciplinarmente rilevanti, poste in essere da magistrato poi collocato fuori del ruolo organico della magistratura per mandato parlamentare, ha affermato l'importante principio in base al quale i comportamenti riconducibili esclusivamente allo "status" di magistrato ed ai connessi doveri, non essendo qualificabili come opinioni (né tanto meno come voti) espresse nelle funzioni parlamentari, non possono essere in alcun modo ricondotti alla sfera della insindacabilità garantita dall'art. 68, comma primo, della Costituzione.
Nella decisione della Corte è rimasto peraltro impregiudicato un altro tema di fondamentale rilevanza e cioè se in capo al magistrato eletto in Parlamento possa ipotizzarsi la permanenza di qualcuno dei doveri collegati alla "status" tuttora rivestito di magistrato.
Per quanto riguarda i compiti spettanti a quest'Ufficio ai sensi della c.d. legge Pinto, occorre considerare che oggetto del decreto della competente Corte di appello è l'accertamento della violazione del fondamentale dovere dello Stato di fornire il servizio giustizia in un termine ragionevole, e non l'accertamento della responsabilità del singolo operatore del processo (giudice, ausiliario, parte) nel quale il ritardo ingiustificato si assume verificato.
Ciò nonostante, e pur nella consapevolezza di aggravare di un ulteriore onere i capi di Corte, si è dato seguito alle prescritte comunicazioni, procedendo ad acquisire informazioni sull'operato dei magistrati, al fine di verificare se la durata irragionevole del procedimento fosse imputabile a colpa del giudice, o dei giudici incaricati della trattazione del procedimento medesimo, nonché al fine di controllare il rispetto del dovere di diligenza e operosità da parte del magistrato (in aggiunta alle ordinarie fonti di acquisizione di informazioni al riguardo, quali le ispezioni, le segnalazioni dei capi degli uffici, le statistiche ecc.).
E' significativo in proposito constatare che, a fronte delle 201 pratiche aperte a tal fine nel 2001, nel corso del 2002 risultano aperti oltre 1500 procedimenti, cui hanno fatto seguito altrettante richieste di accertamento rivolte ai Capi delle Corti territoriali che, in più occasioni, hanno segnalato l'estrema difficoltà ad espletare tale compito. E vi è da dire che tale impegno non ha portato a risultati in qualche modo significativi o utili, non essendo stato possibile, nella stragrande maggioranza dei casi, ravvisare inerzia o difetto di laboriosità addebitabili disciplinarmente a singoli magistrati ed essendo risultato che la durata non ragionevole del processo è quasi sempre dovuta piuttosto a carenze del sistema o a vicende di varia natura, quali ad esempio l'avvicendarsi di più magistrati nella trattazione del procedimento, per trasferimento di sede o destinazione ad altro incarico. Altre volte si è riscontrata la particolare gravosità, per qualità e quantità, del carico di lavoro assegnato al singolo, o l'esistenza di carenze di organico nell'Ufficio, sia dei magistrati, sia del personale amministrativo.
Le modifiche della normativa (a seguito del decreto legge 11 settembre 2002 n. 201) prevedevano, come si è già ricordato, la possibilità di un accordo transattivo su proposta dell'Avvocatura dello Stato, investita direttamente da chi propone l'istanza di equa riparazione ai sensi della legge 89/2001. Tali modifiche tuttavia risultano, a oggi, venute meno a seguito della mancata conversione in legge del decreto sopra citato. Si confida comunque in un ripensamento della intera disciplina della materia che tenga conto delle difficoltà applicative emerse.
A proposito della (da gran tempo) auspicata individuazione delle fattispecie tipiche di illecito disciplinare e delle relative sanzioni, si registra con favore che essa è stata inserita nel disegno di legge delega presentato dal Governo nello scorso mese di marzo per la riforma dell'ordinamento giudiziario (n. 1296/S), concernente la riforma dell'ordinamento giudiziario (art. 1 lett. f ed art.7). Si auspica che, nell' emanando decreto legislativo, si ponga mano anche alla riforma delle regole del procedimento disciplinare, tuttora assoggettato alla disciplina del codice di procedura penale abrogato; inoltre; che si modifichi la impugnabilità delle sentenze della Sezione disciplinare, che attualmente prevede, forse impropriamente, la competenza alle Sezioni Unite civili della Corte di cassazione. Si rappresenta poi l'esigenza di dotare anche il Procuratore generale presso la Corte di cassazione di autonomi poteri di inchiesta e dei relativi strumenti di controllo della deontologia dei magistrati.
A proposito del disegno di legge di riforma dell'ordinamento giudiziario sopra citato, suscita non poca perplessità la previsione (art. 4 lett. g, n. 2) del trasferimento del potere di vigilanza sui magistrati, con obbligo di segnalare i fatti disciplinarmente rilevanti, dai capi di corte (artt.14 e segg. ord. giud. vigente) ai Consigli giudiziari che, quale organo collegiale, si troverebbero a dover fronteggiare le difficoltà di una procedura necessariamente più complessa al fine di individuare le notizie disciplinarmente rilevanti, da far pervenire ai titolari dell'azione disciplinare.
Si conclude riaffermando che lo strumento disciplinare, usato con tutte le garanzie di legge, costituisce, ed ancor più potrà costituire in futuro, un fondamentale strumento di verifica, volto al controllo dell'osservanza, da parte dei magistrati, dei doveri connessi all'espletamento delle funzioni (ed in particolare della loro operosità e diligenza), nonché al controllo dei comportamenti degli stessi nella vita privata e di relazione, ivi compreso il rispetto del dovere di riserbo in rapporto al diritto di critica e manifestazione del pensiero.
ASPETTI ORGANIZZATIVI
Rifacendomi a quanto si era detto in Premessa, occorre soffermarsi su taluni importanti aspetti di una possibile riorganizzazione del sistema, al fine di proseguire nel cammino del recupero dell'efficienza e di estendere a tutti gli uffici giudiziari i metodi di lavoro sperimentati con successo in alcune corti e in alcuni tribunali.
Nelle relazioni di tutti i Procuratori distrettuali vi è ampia condivisione della necessità di proseguire nel cammino del recupero dell'efficienza attraverso un maggiore impegno, diretto e immediato, in tutti gli uffici giudiziari, già in base agli strumenti oggi disponibili. Questo dimostra quanto sia sentita nella magistratura questa esigenza di concretezza. Mi auguro che nelle loro relazioni del 18 p.v. tutti i Procuratori generali delle Corti di appello la vorranno ribadire. Personalmente, vorrei aggiungere che in molti casi è possibile suggerire l'applicazione di metodi di organizzazione del lavoro sperimentati con successo in alcuni uffici giudiziari. Il principio affermato, in punto di effettività della tutela giudiziaria, nel novellato art. 111 Cost. deve avere infatti diretta applicazione, quale obbligo di risultato, anche da parte di tutti coloro che sono preposti a compiti di dirigenza e di organizzazione.
Mi fa piacere segnalare che esistono oggi numerosi esempi virtuosi di uffici giudiziari nei quali, grazie allo spirito d'iniziativa e all'impegno dei capi, e grazie alla collaborazione dei magistrati che ne fanno parte, sono stati formulati (così è avvenuto, ad esempio, in molti settori del tribunale di Roma) piani di riorganizzazione degli uffici e dell'attività dei singoli magistrati secondo moduli operativi preventivamente studiati e concordati, verificati poi alla fine dell'anno, per la riduzione degli arretrati e per l'ordinato svolgimento del lavoro giudiziario corrente. Nel settore civile, risultano rispettati in molti uffici i tempi giusti per i giudizi di nuova instaurazione e, con l'ausilio dell'informatizzazione, si sono ottenuti ottimi risultati per il migliore funzionamento e la trasparenza dei più importanti settori, come quello (molto delicato) fallimentare - e qui vorrei segnalare il programma informatico approntato dal tribunale di Monza - quello societario e quelli delle esecuzioni, dei procedimenti cautelari e di volontaria giurisdizione. In molti uffici giudiziari, con l'ausilio degli strumenti informatici, magistrati, avvocati e le stesse parti interessate sono in grado di seguire l'andamento delle procedure. Ciò dimostra la possibilità, prima ancora che sia stata formulato un piano generale di riorganizzazione, di ottenere risultati concreti con il solo impegno personale dei magistrati.
E' giunto, credo, il momento di valorizzare i compiti che spettano ai capi degli uffici. Occorrono magistrati dirigenti dinamici e autorevoli, dotati di capacità organizzative, che sappiano gestire gli uffici secondo programmi predefiniti e con criteri che abbiano di mira i risultati da conseguire e che sappiano realizzare gli scopi che la situazione locale impone. Occorre che il C.S.M. li scelga perciò in base a criteri di efficienza e non di sola anzianità di ruolo, chieda loro di prendere conoscenza della situazione e dei problemi in atto, li chiami a enunciare i propri programmi e poi a rendere conto, a determinate scadenze, dei risultati conseguiti.
A simili riforme organizzative, che si possono realizzare già in base alla normativa vigente, altre se ne potrebbero aggiungere, sempre nell'intento di modernizzare un servizio che, per rispettare il canone fondamentale della piena autonomia sul versante giurisdizionale, non può ottenere risultati utili in termini di efficienza se non attraverso sistemi di coordinamento e di controllo sui metodi organizzativi adottati.
In particolare, ferme restando le competenze del C.S.M., occorrerebbe potenziare i controlli interni alla stessa magistratura, da attuarsi attraverso i capi degli uffici (scelti secondo i criteri sopra auspicati) e con la collaborazione dei consigli giudiziari, al fine di verificare le modalità di svolgimento del lavoro giudiziario nei singoli settori ed i risultati conseguiti. Il tutto sempre nel rigoroso rispetto dell'indipendenza del magistrato e della funzione giurisdizionale.
Attualmente, per quanto attiene all'organizzazione del servizio giustizia sul territorio, vi è una realtà complessa. Esistono 26 corti di appello e 165 tribunali, con i relativi uffici di procura, senza parlare degli uffici dei giudici di pace. Un numero forse eccessivo, specie con riferimento a taluni comprensori dove meno elevata è la litigiosità o la criminalità. Sono in servizio 9157 magistrati, di cui 8262 investiti di funzioni giurisdizionali (2069 con funzioni requirenti). Di questi, 3280 sono donne (il 37,9 % del totale). La presenza dei magistrati donna è cospicua negli uffici di merito e si avvia a diventare visibile anche nelle funzioni di legittimità (con 25 consiglieri di cassazione e 3 magistrati addetti alla Procura generale) e negli incarichi direttivi. Il che sta a significare che la magistratura è stata in grado di recepire i fermenti nuovi della società, facendo vivere anche al proprio interno il valore costituzionale dell'uguaglianza.
Questa complessa, e qualificata, macchina della giustizia deve poter funzionare al meglio. L'enorme mole di lavoro che incessantemente si riversa su di essa impone ormai, in una visione d'insieme, di fare uso dei principi della scienza dell'organizzazione, con una progettualità di largo respiro.
E' importante infine riaffermare l'esigenza che, pur nella distinzione delle funzioni, giudicante e requirente, tutti i magistrati continuino a far parte di un unico ordine e abbiano una comune cultura della giurisdizione, per potere operare in piena indipendenza nell'interesse generale, ben vero nel rispetto delle regole interne di coordinamento fissate nell'ambito degli uffici di appartenenza ai fini di un corretto ed efficiente esercizio dell'attività giudiziaria.
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Il quadro attuale dell'organizzazione giudiziaria e della gestione della giustizia risulta però ancora inadeguato.
Talune iniziative, che lo scorso anno avevano ingenerato speranze, segnano il passo. Così, ad esempio, le disposizioni (di cui alla legge 13 febbraio 2001 n. 48) in tema di sostituzione dei magistrati assenti dal servizio per temporanea indisponibilità: la formazione presso ogni corte di appello di una pianta organica di magistrati distrettuali "a disposizione", da destinare alla sostituzione dei colleghi del distretto che risultino assenti per una delle ragioni predeterminate dalla legge (malattia, gravidanza, maternità, sospensione cautelare, ecc.), potranno avere una concreta attuazione solo quando verranno espletati i concorsi previsti da detta legge. Non si è ancora realizzata poi la tanto attesa istituzione della figura professionale dell'assistente del giudice, per un ausilio nelle ricerche, nella stesura di provvedimenti seriali e nell'esame di incartamenti particolarmente voluminosi.
Si riscontra, d'altro lato, il permanere di carenze, già rilevate anche lo scorso anno, per quanto riguarda l'entità e la distribuzione delle risorse tra i vari uffici giudiziari, nonché la insufficienza degli organici del personale amministrativo e la scarsità delle dotazioni materiali (fra i molti settori oggetto di doglianze nei diversi distretti vi è pure quello della attività investigativa - molto rilevante là dove più consistenti sono le attività investigative in tema di criminalità organizzata - che richiedono l'uso di apparecchiature per intercettazioni telefoniche soprattutto ambientali, la cui carenza costringe a fare ampio ricorso a collaborazioni esterne, con notevole lievitazione dei costi).
L'inadeguatezza dei fondi destinati al lavoro straordinario del personale amministrativo limita considerevolmente le attività degli uffici giudicanti e requirenti, specie per quanto attiene alle udienze ed alle indagini più impegnative. Con tale problema interagiscono negativamente anche la scarsa flessibilità consentita dalle disposizioni vigenti nell'impiego dei dipendenti (problema che rischia di acuirsi con la progressiva attribuzione a gran parte del personale di qualifiche superiori, a detrimento della varietà delle professionalità occorrenti), nonché la scarsità di personale esecutivo (come nel caso dei commessi, la cui assenza determina non secondarie difficoltà pratiche di gestione delle attività d'ufficio).
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Specifica trattazione occorre dedicare al settore informatico, non soltanto per le peculiarità della materia, ma anche per la situazione su scala nazionale, differente da quella registrata in generale per le strutture giudiziarie, che ho dianzi sintetizzato.
Per l'informatica è infatti unanime la valutazione in termini positivi circa la dotazione di apparecchiature negli uffici giudiziari e l'apprestamento di sistemi funzionali. La richiesta più pressante che viene dai distretti concerne la necessità di curare la preparazione degli operatori, al fine di raggiungere l'effettiva piena utilizzazione delle risorse disponibili.
La formazione di una diffusa cultura informatica in ambito giudiziario richiede in effetti uno sforzo consistente, anche nella consapevolezza che assai più marcata è l'esigenza di aggiornamento in questo settore, rispetto a quasi tutti gli altri ambiti operativi. Si registra perciò con preoccupazione il notevole ridimensionamento dei fondi per l'informatica, riscontrato negli ultimi mesi, che - oltre a rendere difficoltosa la gestione dei sistemi in uso e la formazione del personale - ha significativamente rallentato l'attuazione dei progetti in fase di realizzazione. La stessa gestione informatica del settore disciplinare, in via di apprestamento in questa Procura generale, ha subìto una inattesa battuta d'arresto.
L'AVVOCATURA
In conformità con una prassi, opportunamente consolidatasi nel corso degli anni, il Consiglio nazionale forense, in vista dell'inaugurazione dell'anno giudiziario, ha fatto pervenire le proprie riflessioni sullo stato dell'amministrazione della giustizia.
Nella consapevolezza che "la funzione giurisdizionale, essendo per eccellenza presidio del valore dello Stato deve essere difesa da ogni attacco che non sia legittima critica del singolo caso giudiziario", nel documento si auspica che, "superando le discussioni e le tensioni che hanno caratterizzato l'anno trascorso, tutti gli operatori della giustizia possano ritrovare, nella concordia degli strumenti tecnici, il modo per ridare autorevolezza ai soggetti del processo". Di un processo che deve essere restituito al corretto dispiegarsi delle dinamiche processuali e protetto da possibili ingerenze esterne, così da restare "un luogo il più possibile asetticamente separato dal più generale contesto sociale e politico", nel quale operi "una difesa sempre attiva e presente nel processo e non contro il processo".
I principi costituzionali esigono che la domanda di giustizia sia soddisfatta, attraverso mezzi definiti e risultati certi, il più celermente possibile, poiché "giusto processo significa anche e soprattutto processo di durata ragionevole". Il che impone l'abbandono in sede legislativa delle visuali parziali e settoriali per affrontare in una visione complessiva i problemi della riforma con l'approvazione "dei tanti istituti di cui si parla ogni giorno, tutti utili alla causa della giustizia".
Il Consiglio nazionale forense è anche consapevole che la realizzazione dei valori costituzionali esige "un'etica di comportamento e di responsabilità" e, in questa prospettiva, riferisce delle numerose iniziative adottate a livello culturale e deontologico.
CONSIDERAZIONI FINALI
Al termine di questa lunga esposizione sullo stato e l'andamento della giustizia, si possono fare alcune considerazioni conclusive. La più importante mi sembra quella che tutti oggi condividono il desiderio di poter fruire di una giustizia efficiente e sollecita, ma anche di vedere ristabilito il corretto, normale rapporto tra la magistratura e le altre istituzioni, ponendo fine a contrasti e polemiche.
Si è parlato della crisi del processo, della necessità di altre riforme ben coordinate, che vadano nella direzione di assicurare la effettività e la tempestività della giustizia. Si è detto infine della possibilità di attuare la riorganizzazione degli uffici giudiziari secondo logiche di progettualità conformi alle esigenze del nostro tempo.
Per avviare a soluzione il problema della scarsa efficienza della giustizia c'è bisogno però di una nuova cultura del processo, che deve essere liberato da formalismi eccessivi e poter essere gestito in modo funzionale allo scopo da raggiungere. C'è una crisi del processo civile che si trascina da anni ma che, forse, con le riforme in arrivo, sembra potersi gradualmente avviare a soluzione. Resta grave invece, e anzi si è ulteriormente aggravata, la crisi del processo penale, che non funziona nei suoi snodi tecnici e che si svolge spesso in un clima di forti tensioni, anche per contrasti tra esigenze di essenzialità e celerità che i magistrati cercano di realizzare e posizioni difensive o accusatorie varie, consentite alle parti dall'attuale normativa. In questo settore occorre non solo agire con riforme di sistema che assicurino la durata ragionevole del processo, ma soprattutto operare perché vi siano, da parte di tutti i suoi protagonisti, comportamenti improntati a misura e a responsabilità, oltre che a rispetto reciproco, così da eliminare eccessi e accanimenti, specie nel dibattimento. I magistrati e gli avvocati - si sono appena ricordate le assicurazioni fornite dal Consiglio Nazionale Forense - lo auspicano con convinzione. Bisogna ora mettere a frutto queste disponibilità.
La crisi del processo si traduce in crisi di consenso da parte della collettività, la quale esige chiarezza nelle regole e normalità nella risposta di giustizia. Ci devono essere norme, soprattutto processuali, che consentano di "prevedere" i possibili esiti di un giudizio, esiti che poi si realizzano in tempi adeguati, anch'essi prevedibili.
La crisi di consenso nei confronti della giustizia, che è - come si è detto - crisi di efficienza e anche di comportamenti, si traduce poi in crisi di fiducia soprattutto nei confronti della magistratura, alla quale si addebitano spesso colpe che sono invece del sistema nel suo insieme. Ma occorre darsene carico per la parte che concerne la nostra professionalità, nella convinzione che anche coloro che muovono quelle accuse si ricrederanno.
La Magistratura in qualche occasione è stata accusata, in relazione a taluni provvedimenti o a talune dichiarazioni pubbliche di singoli magistrati, di essersi lasciata coinvolgere nelle contrapposizioni che caratterizzano attualmente la società italiana. Le reazioni, talvolta strumentali, che vi sono state, quando non improntate solo a - legittima - critica, hanno via via creato però, anche per l'amplificazione fattane nel circuito mediatico, l'immagine - sbagliata - di una magistratura non imparziale e incline alle polemiche politiche, affetta in molti suoi componenti da protagonismo. Non si considera, da parte di costoro, che i magistrati decidono in base a quello che risulta dagli atti di causa, ignoti ai più, e che il loro convincimento e le loro decisioni, magari opinabili o criticabili, sono passibili di impugnazione secondo le ordinarie regole del processo. Per il resto, desidero assicurare che la stragrande maggioranza dei magistrati lavora con assoluto equilibrio e con rigorosa imparzialità, rifugge da polemiche e protagonismi ed ha piena consapevolezza che non si può oggi ragionare solo in termini di poteri e di funzioni, bensì di servizio da rendere alla collettività. Il magistrato sa che non può più attendersi, come in passato, rispetto sociale solo per la carica che ricopre e che dovrà guadagnarsi stima e considerazione in base alle sue qualità professionali, di giudice, di pubblico ministero, di capo di un ufficio.
E' sempre più avvertita l'esigenza di una nuova professionalità del magistrato, il quale svolge una funzione delicata e incisiva che richiede, oltre alla conoscenza di tante leggi e principi giuridici, grande equilibrio e prudenza, e anche garbo verso tutti coloro che hanno contatto con la giustizia. Occorre puntare ad un'immagine di magistrato non solo preparato ma anche cortese, disponibile all'ascolto, responsabile. Tutto questo gioverà per il recupero di fiducia che tutti ci auguriamo e restituirà autorevolezza e prestigio.
Ma detto tutto questo, nell'intento di contribuire a migliorare il rapporto tra magistratura e società civile, è giusto anche chiedere alla collettività di considerare in modo equanime l'operato dei magistrati, anche quando adottano decisioni non condivise o sgradite, soprattutto per il lavoro ordinario, che non suscitano l'interesse dei media, ma che permette di far fronte a una così estesa domanda di giustizia. Il Paese dovrà riflettere sull'importanza del ruolo di presidio della legalità per tutti i cittadini, che ad essa è stato assegnato dalla Costituzione, quale ordine indipendente e autonomo da ogni altro potere.
Si annuncia una stagione di grandi riforme nell'organizzazione dello Stato che dovrebbe coinvolgere anche l'ordinamento giudiziario, la cui "rivisitazione" fu ritenuta necessaria dallo stesso costituente. Credo di poter interpretare i sentimenti dell'intera Magistratura nell'affermare che la fedeltà alla Costituzione, della quale è stata data dai magistrati ampia prova in oltre mezzo secolo di storia repubblicana, comporta il riconoscimento da parte di tutti noi del primato della legge e del Parlamento, espressione del Popolo sovrano, ma anche il pieno rispetto, da parte delle altre istituzioni e di tutti, della autonomia e indipendenza della Magistratura. In tale quadro istituzionale, desidero esprimere il forte auspicio che siano evitate riforme che sconvolgano l'attuale assetto dell'ordine giudiziario e che pongano a rischio - se non ora, in un futuro più o meno prossimo - la sua autonomia e indipendenza. Che non costituiscono un privilegio dei magistrati, ma una garanzia per il rispetto della legalità.
La crisi del rapporto tra politica e amministrazione della giustizia, che sembra caratterizzare i nostri giorni, potrà allora, nella condivisione dei valori e princìpi sopra ricordati, avviarsi finalmente a soluzione, ristabilendo la normalità nei rapporti istituzionali.
Ed è in questa convinzione e con questi auspici che La prego, signor Primo Presidente, di volere dichiarare aperto l'anno giudiziario 2003.
INDICE DELLE TAVOLE STATISTICHE (*)
MATERIA CIVILE
Grafico dei procedimenti in materia civile - Primo grado - Anni 1990-2001
Grafico dei procedimenti in materia civile - Grado di appello - di Tribunali e Corti di Appello -Anni 1990 - 2001
Tavola 1 - Movimento dei procedimenti civili per tipo di ufficio e grado di giudizio
Tavola 2 - Procedimenti civili
Tavola 3 - Movimento di alcuni procedimenti civili
Tavola 4 - Movimento dei procedimenti civili di cognizione - Primo grado: Giudici di pace, Preture, Tribunali, Corti di Appello anni 1990 -2001
Tavola 5 - Movimento dei procedimenti civili di cognizione - Grado di appello: Tribunali, Corti di Appello anni 1990 - 2001
Tavola 6 - Durata media in giorni delle controversie civili anni 1994- 2001
Tavola 7 - Durata media in giorni delle controversie in materia di lavoro, previdenza e assistenza anni 1994-2001
MATERIA PENALE
Grafico dei procedimenti in materia penale - Primo grado - Anni 1992-2001
Tavola 8 - Movimento procedimenti penali - Pendenti a fine periodo
Tavola 9 - Movimento procedimenti penali - Sopravvenuti
Tavola 10 - Movimento procedimenti penali - Esauriti
Tavola 11 - Movimento procedimenti penali - Rapporto esauriti/carico
Tavola 12 - Principali modalità di esaurimento dei procedimenti
Tavola 13 - Durata media in giorni dei procedimenti
Tavola 14 - Delitti denunciati per i quali è iniziata l'azione penale
Tavola 15 - Delitti denunciati per i quali è iniziata l'azione penale - Quozienti per 100.000 abitanti
Tavola 16 - Delitti denunciati per i quali l'Autorità giudiziaria ha iniziato l'azione penale e delitti di autore ignoto
Tavola 17 - Delitti denunciati per i quali l'Autorità giudiziaria ha iniziato l'azione penale
Tavola 18 - Delitti denunciati, esclusi i furti, per i quali l'Autorità giudiziaria ha iniziato l'azione penale
Tavola 19 - Presenti al 31 dicembre negli Istituti di prevenzione e pena, per adulti, secondo la posizione giuridica anni 1999-2001
Tavola 20 - Condannati per delitto con sentenza definitiva secondo il sesso
Tavola 21 - Condannati per delitto con sentenza definitiva secondo il grado del giudizio
Tavola 22 - Condannati per delitto con sentenza definitiva secondo la pena inflitta
Tavola 23 - Condannati per delitto con sentenza definitiva secondo la specie del delitto
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(*) Fonte: Ministero della Giustizia - Ufficio delle statistiche (tavole 1-13) e ISTAT - Servizio giustizia (tavole 14-23)