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in Il Riformista 15 Novembre 2002

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INCLEMENZE. DETENUTI QUASI TUTTI STRANIERI O MERIDIONALI
Meno reati, più carcerati e senza un difensore civico
Nuove leggi, nuove prigioni, ma siamo ai numeri del dopoguerra

In tre anni mezzo la popolazione detenuta è cresciuta di ben 7 mila unità. Lo scorso 31 luglio i detenuti ospitati negli istituti di pena italiani erano 56.002. La crescita è stata progressiva, continua, sistematica. Solo sei mesi prima, ossia il 31 dicembre 2001, le persone recluse erano 55.275. Nel febbraio del 2001 i detenuti erano 53 mila e 800. Nei due anni precedenti la popolazione detenuta era crescita di circa 2 mila unità l'anno. Il 31 dicembre del 2000 i detenuti erano 53.165, l'anno precedente 51.814, mentre all'inizio del 1999 erano poco più di 49 mila. Per ritrovare dimensioni maggiori nelle presenze in carcere in Italia bisogna risalire agli anni immediatamente successivi al secondo conflitto mondiale, quando la popolazione detenuta raggiunse quota 73.818 detenuti. Fornire una spiegazione razionale di questa crescita esponenziale è complesso, in quanto negli ultimi quattro anni si sono succeduti governi e provvedimenti legislativi di segno opposto. Da un lato il pacchetto sicurezza, dall'altro la legge Simeone-Saraceni; da una parte le varie riforme in senso restrittivo della custodia cautelare, dall'altra il nuovo regolamento di esecuzione dell'ordinamento penitenziario. Tali provvedimenti disomogenei, e fra loro in controtendenza, non giustificano il crescente affollamento degli istituti di pena. Sicuramente ciò che più di tutto condiziona la crescita dei numeri è la forte pressione di opinione pubblica subita della magistratura di cognizione e di sorveglianza, vittima di campagne martellanti sulla sicurezza. Così siamo arrivati alle attuali cifre, ossia a 14 mila persone in più rispetto ai posti letto regolamentari. In alcune carceri metropolitane il tasso di sovraffollamento raggiunge il 60%. La composizione socio-anagrafica della popolazione carceraria, inoltre, definisce qualitativamente i detenuti del terzo millennio: stranieri o meridionali, con bassa scolarizzazione, disoccupati o inoccupati, con problemi di tossicodipendenza. Se sommiamo gli extracomunitari ai detenuti provenienti da 4 regioni del sud di Italia, Puglia, Campania, Sicilia e Calabria raggiungiamo il 75% dell'intera popolazione detenuta. Quindi, se non si vuole accedere a improbabili tesi lombrosiane o geo-antropologiche, risulta evidente che i tassi di esclusione sociale sono direttamente proporzionali alla possibilità di finire in galera.
Il Guardasigilli, ministro Castelli, ha sostenuto fin dal suo insediamento che la risposta al sovraffollamento è l'edilizia penitenziaria. L'esempio milanese testimonia invece che costruire carceri non risolve il problema. Prima c'era solo San Vittore, poi è arrivata Opera. Dopo si sono riempite entrambe, e si è costruita Bollate. Ora non ne bastano tre, e gli arrestati a Milano finiscono a Monza. Tutto ciò, dati Istat alla mano, mentre diminuiscono denunce e reati.
Il volontariato sostiene che la soluzione consiste nel restituire al carcere un ruolo minimo. In attesa di un codice penale nuovo, in attesa di un provvedimento di clemenza-tampone che nella situazione attuale finisce paradossalmente per assumere il significato di un atto di giustizia sostanziale, bisogna intervenire attraverso l'applicazione convinta e non timorosa dell'ampio spettro di misure alternative al carcere già presenti nel nostro sistema penitenziario. Non è secondaria la questione dei diritti dei detenuti, per il rispetto dei quali manca un vero garante terzo e indipendente. I paesi anglosassoni da quasi un decennio hanno istituito la figura del «prison ombudsman», il difensore civico delle persone private della libertà personale indispensabile alla tutela di soggetti i cui diritti sono evidentemente a rischio.