INCLEMENZE. DETENUTI QUASI TUTTI STRANIERI O MERIDIONALI
Meno
reati, più carcerati e senza un difensore civico
Nuove leggi, nuove prigioni,
ma siamo ai numeri del dopoguerra
In tre anni mezzo la popolazione detenuta è cresciuta di ben 7 mila
unità. Lo scorso 31 luglio i detenuti ospitati negli istituti di
pena italiani erano 56.002. La crescita è stata progressiva,
continua, sistematica. Solo sei mesi prima, ossia il 31 dicembre
2001, le persone recluse erano 55.275. Nel febbraio del 2001 i
detenuti erano 53 mila e 800. Nei due anni precedenti la popolazione
detenuta era crescita di circa 2 mila unità l'anno. Il 31 dicembre
del 2000 i detenuti erano 53.165, l'anno precedente 51.814, mentre
all'inizio del 1999 erano poco più di 49 mila. Per ritrovare
dimensioni maggiori nelle presenze in carcere in Italia bisogna
risalire agli anni immediatamente successivi al secondo conflitto
mondiale, quando la popolazione detenuta raggiunse quota 73.818
detenuti. Fornire una spiegazione razionale di questa crescita
esponenziale è complesso, in quanto negli ultimi quattro anni si
sono succeduti governi e provvedimenti legislativi di segno opposto.
Da un lato il pacchetto sicurezza, dall'altro la legge
Simeone-Saraceni; da una parte le varie riforme in senso restrittivo
della custodia cautelare, dall'altra il nuovo regolamento di
esecuzione dell'ordinamento penitenziario. Tali provvedimenti
disomogenei, e fra loro in controtendenza, non giustificano il
crescente affollamento degli istituti di pena. Sicuramente ciò che
più di tutto condiziona la crescita dei numeri è la forte
pressione di opinione pubblica subita della magistratura di
cognizione e di sorveglianza, vittima di campagne martellanti sulla
sicurezza. Così siamo arrivati alle attuali cifre, ossia a 14 mila
persone in più rispetto ai posti letto regolamentari. In alcune
carceri metropolitane il tasso di sovraffollamento raggiunge il 60%.
La composizione socio-anagrafica della popolazione carceraria,
inoltre, definisce qualitativamente i detenuti del terzo millennio:
stranieri o meridionali, con bassa scolarizzazione, disoccupati o
inoccupati, con problemi di tossicodipendenza. Se sommiamo gli
extracomunitari ai detenuti provenienti da 4 regioni del sud di
Italia, Puglia, Campania, Sicilia e Calabria raggiungiamo il 75%
dell'intera popolazione detenuta. Quindi, se non si vuole accedere a
improbabili tesi lombrosiane o geo-antropologiche, risulta evidente
che i tassi di esclusione sociale sono direttamente proporzionali
alla possibilità di finire in galera.
Il Guardasigilli, ministro Castelli, ha sostenuto fin dal suo
insediamento che la risposta al sovraffollamento è l'edilizia
penitenziaria. L'esempio milanese testimonia invece che costruire
carceri non risolve il problema. Prima c'era solo San Vittore, poi
è arrivata Opera. Dopo si sono riempite entrambe, e si è costruita
Bollate. Ora non ne bastano tre, e gli arrestati a Milano finiscono
a Monza. Tutto ciò, dati Istat alla mano, mentre diminuiscono
denunce e reati.
Il volontariato sostiene che la soluzione consiste nel restituire al
carcere un ruolo minimo. In attesa di un codice penale nuovo, in
attesa di un provvedimento di clemenza-tampone che nella situazione
attuale finisce paradossalmente per assumere il significato di un
atto di giustizia sostanziale, bisogna intervenire attraverso
l'applicazione convinta e non timorosa dell'ampio spettro di misure
alternative al carcere già presenti nel nostro sistema
penitenziario. Non è secondaria la questione dei diritti dei
detenuti, per il rispetto dei quali manca un vero garante terzo e
indipendente. I paesi anglosassoni da quasi un decennio hanno
istituito la figura del «prison ombudsman», il difensore civico
delle persone private della libertà personale indispensabile alla
tutela di soggetti i cui diritti sono evidentemente a rischio.
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