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L’articolo di Lucetta Scaraffia sull’Osservatore Romano del
3 settembre ha suscitato scandalo e proprio per questo aiuta a pensare
profondamente due esperienze di frontiera dell’esistenza umana: il coma
irreversibile, e la fine della vita che una commissione di scienziati a
Harvard ha deciso, quarant’anni fa, di far coincidere con la morte
cerebrale, senza attendere che nel paziente sopraggiunga anche l’arresto
cardiocircolatorio. È vero che quella decisione, oggi parametro indiscusso,
non cessa di turbare e ha cambiato il nostro rapporto con la morte.
E’difficile non pensare che essa sia stata anticipata non solo grazie a più
accurate conoscenze, ma anche per render possibili - sul piano etico,
giuridico - i prelievi di organi. I trapianti infatti avvengono in presenza
di elettroencefalogramma piatto, ma riescono pienamente solo se cuore e
respiro restano attivi grazie a apparecchi esterni: è uno dei motivi per cui
il paziente con elettroencefalogramma piatto, incamminato sicuramente verso
la morte, vien dichiarato a questo punto trapassato e del suo corpo - tenuto
in vita artificialmente - si parla come di cadavere a cuor battente.
L’articolo sull’Osservatore introduce in tutte queste certezze la spina
dell’angoscia: parole come cadavere a cuor battente resuscitano archetipi
impaurenti (morti-viventi, zombie) e per questo la spina d’angoscia aiuta a
pensare, su quel che si fa col corpo dell’uomo. I molti testi apparsi
ultimamente, di medici e scienziati come Umberto Veronesi o Giuseppe Remuzzi,
non sarebbero stati scritti con lo stesso sforzo pedagogico se non avessero
dovuto reagire a inquietudini rilevanti.
Cosa accadde esattamente nel ’68, quando la commissione della Medical School
di Harvard decretò che la fine delle funzioni cerebrali era morte, anche se
il malato continuava a esser attaccato a macchine di respirazione e
circolazione sanguigna? Aveva a cuore il paziente, o era mossa anche da
altri interessi, di persone disperate e però estranee al morente? Scaraffia
cita Hans Jonas, il filosofo tedesco che dal ’69 combatté la definizione di
Harvard, proseguendo la battaglia fino a metà degli Anni 80. Sconfortato,
scrisse poi che la guerra era perduta. In un post-scriptum dell’85 al testo
pubblicato nel ’74 (Controcorrente, in Tecnica, medicina ed etica, Einaudi
’97) constatò: «La mia è stata un’esercitazione in inutilità». L’articolo
sull’Osservatore gli rende omaggio: l’esercitazione non è stata vana. Vale
dunque la pena rievocare quel che disse precisamente su morte cerebrale e
vocazione medica, per estendere la discussione e ricordare alcune sue idee
di fondo, lasciate in ombra dall’articolo.
Jonas non era affatto contrario ai trapianti, ne capiva profondamente il
dramma, l’urgenza, la natura di dono. Non è vero, insomma, che «consentendo
al trapianto si accetta implicitamente la definizione della morte data a
Harvard». Quel che il filosofo chiedeva era di dare priorità assoluta al
morente, temendo che il suo corpo venisse trasformato innanzi tempo in
cadavere e che a questo passo ne seguissero altri ben più scabrosi: i
cadaveri potevano esser tenuti artificialmente in vita a tempo indefinito, e
trasformati in banche semi-permanenti di organi, sangue, ormoni. Voleva
regole più rigide sui prelievi, sperando che essi iniziassero immediatamente
dopo lo stacco del respiratore. Dare priorità al morente significava per lui
una cosa soltanto: non essendo quest’ultimo più una persona a tutti gli
effetti, ed essendo la morte imminente e sicura, ogni tubo o macchina
dovevano essere staccati. In maniera chiara, Jonas fa capire che se la nuova
definizione della morte avesse avuto come scopo primario quello di
consentire il distacco del tubo, sarebbe stata da lui benvenuta.
Jonas era contro l’eutanasia ma favorevole al lasciar morire, in caso di
coma irreversibile e se il paziente lo voleva. Anche se incosciente, il
moribondo ha infatti diritti inalienabili, e «il diritto di morire è
inalienabile come il diritto alla vita». È anzi parte del diritto alla vita
(«l’essere è un’avventura della mortalità»). Scaraffia sostiene che secondo
la dottrina cattolica e le direttive della Chiesa il comatoso irreversibile
è persona completa, non identificandosi quest’ultima con le sole attività
cerebrali. Jonas era convinto che l’opinione della Chiesa fosse un’altra,
vicina alla sua: in particolare la voce di Pio XII, i cui discorsi del ’57 -
su rianimazione e analgesia - sono più volte citati nei suoi testi (nel sito
Vaticano appaiono solo in spagnolo). Nei due discorsi il Papa considera
leciti sia l’interruzione della terapia artificiale in caso di coma
irreversibile, sia il ricorso a analgesici che sollevino dal dolore pur
accorciando la vita. La definizione della morte, per Pio XII, non appartiene
a Dio o alla natura: «Spetta al medico e all’anestesista dare una
definizione chiara e precisa della “morte” e del “momento della morte” di un
paziente in stato di incoscienza» (24-11-57).
L’obiezione di Jonas alla morte cerebrale resta tuttavia intatta, da
meditare sempre. È vero ad esempio che i requisiti che consentono di
certificare la morte sono severi, in Italia («La nostra legge è molto più
attenta al donatore che all’attività di trapianto. I requisiti \ sono ad
abundantiam», scrive Remuzzi sul Sole-24 Ore del 6 settembre). Ma altrove le
pratiche sono più disinvolte. Il rischio, scrive Jonas, è che il trapianto
diventi soverchiante, e la trasformazione del paziente in cadavere venga
sempre più anticipata. Memore dell’uso che il nazismo fece della scienza,
Jonas mette in guardia contro questo sperimentare attorno al corpo umano
sulla soglia della morte, in nome di entità astratte come la razza, la
società, o anche l’umanità. Il rapporto di Harvard creava pericolosi
equivoci, minacciando il rapporto di fiducia tra malato e medico: «Il
paziente deve esser totalmente sicuro che il medico non sarà il suo boia, e
che nessuna definizione della morte gli darà il potere di divenirlo. \
Nessuno ha il diritto al corpo d’un altro».
Il diritto a morire è essenziale in Jonas, e fonda la sua obiezione al
rapporto Harvard. La tecnica che simula vita è il suo avversario, e non la
convinzione che la persona resti integra con elettroencefalogramma piatto
(«Non è umanamente giusto prolungare artificialmente la vita di un uomo
privato di cervello» - Il paziente immobile o comatoso «non ha meno diritti
di chi sceglie di morire rifiutando la dialisi»). Il pericolo non è lo
stacco del tubo ma il riattacco del tubo, che simulando vita facilita
trapianti. Tracciare confini evidenti tra vita e morte è difficilissimo,
aggiunge, e di una cosa è persuaso: l’arresto cerebrale è l’anticamera della
morte - è uno «stadio intermedio», una «soglia» - e non la morte (tra la
morte del tronco del cervello e l’arresto del cuore passano 48-72 ore,
scrive Remuzzi, e tuttavia per il certificato di morte e il trapianto le ore
requisite sono 6 per l’adulto e 12 per i bambini, in Italia). Il dubbio di
Jonas si riassume così: «In realtà, abbiamo tutti i vantaggi del donatore
vivo senza gli svantaggi, che nascono dai diritti e dagli interessi del
donatore stesso, che non ha più diritti essendo un cadavere».
Giungiamo così a quella che per Jonas è l’urgenza vera: una ridefinizione
della medicina, più che della morte. Il medico deve seguire il comandamento
fondatore (primo, non nuocere) ma imparare ad accordare tale comandamento
con l’etica. In presenza di atroce dolore non potrà non somministrare
medicine che alleviano il dolore, pur accorciando o interrompendo la vita.
In ogni momento, si guarderà dal mutare l’uomo in cosa, in mezzo. Lo si
tramuta in cosa in ambedue i casi: se non si rispetta il suo diritto a
morire, e se gli si antepongono interessi della Società. La morte appartiene
all’uomo, non all’umanità.