Bilancio sociale
Francesco Maggio
Giornalista di «Vita» e «Il Sole 24 Ore»
in Aggiornamenti sociali n. 1 2007
Il bilancio sociale è uno strumento di
rendicontazione che imprese, enti locali, organizzazioni senza fini
di lucro realizzano volontariamente, senza uno specifico obbligo di
legge. Lo scopo è di presentare l'impatto socio-ambientale che, a
vario titolo, la loro attività produce nei confronti dei rispettivi
portatori di interesse (i cosiddetti stakeholder). Si tratta
di uno strumento relativamente giovane, di appena trent'anni,
essendo opinione diffusa che la sua prima apparizione risalga al
1976, anno in cui l'American Accounting Association (un'associazione
che promuove criteri e pratiche di rendicontazione) individuò quelli
che sarebbero dovuti essere gli elementi più qualificanti di una
«contabilità sociale» come, in particolar modo, la valutazione degli
effetti di specifici programmi di responsabilità sociale d'impresa e
la quantificazione dell'impatto complessivo dell'attività aziendale
sulla società civile.
La necessità di mettere a punto una rendicontazione non solo
economico-finanziaria, ma anche di tipo sociale e ambientale (in
questo secondo caso si parla, più propriamente, di «bilancio di
sostenibilità»), varia a seconda della tipologia organizzativa che
attraverso il bilancio sociale si «racconta».
Perché un bilancio sociale
Nel caso dell'impresa la motivazione è, anzitutto, strettamente
correlata al peso crescente assunto negli ultimi anni dalla finanza
nelle sue dinamiche di crescita. L'eccessiva finanziarizzazione
dell'attività economica sposta fuori dalla competenza del bilancio
d'esercizio (relativa all'anno trascorso) fatti sempre più rilevanti
per la vita aziendale. Si ricordi quanto accadde alla fine degli
anni Novanta con la «febbre» della new economy e il
proliferare delle cosiddette «dot.com» (società che gestiscono la
maggior parte dei loro affari su Internet) sopravvalutate
all'inverosimile per via dei presunti introiti attesi piuttosto che
sulla base dei fondamentali economici tradizionali, non di rado
quasi del tutto inesistenti (un capitale sociale adeguato, una o più
sedi «ufficiali», dipendenti regolarmente assunti, per dirne alcuni
tra i più emblematici). Ebbene, quando «salta» il principio di
competenza e il futuro, con tutte le incertezze che naturalmente lo
contraddistinguono, diviene il vero termometro dello stato di salute
di un'azienda, allora questa avverte più forte che mai il bisogno di
rassicurare gli stakeholder circa la capacità di centrare gli
obiettivi che si è data e di infondere loro fiducia, bene
intangibile per definizione. Ma a contabilizzare la fiducia non può
certo essere la bottom line, ossia l'ultima riga del conto
economico in cui appaiono l'utile o la perdita di esercizio. Ci
vuole ben altro. Ecco allora apparire la triple bottom line,
una rendicontazione che, oltre a tener conto degli aspetti
strettamente economici della vita d'impresa, ne considera anche
quelli sociali e ambientali. L'impresa diviene sempre più
consapevole che fattori come l'efficienza della guida e della
gestione, il rispetto costante dei diritti dei lavoratori, una
dialettica aperta e collaborativa con la società civile organizzata
suscitano fiducia e possono fidelizzare i propri
cittadini-consumatori. E così decide di comunicare all'esterno, con
un documento specifico quale è appunto il bilancio sociale, questo
suo tratto identitario.
Nel caso dell'ente pubblico (Comune, Provincia, Regione), la ragione
che spinge alla realizzazione di un bilancio sociale è diversa. Non
cambiano gli aspetti procedurali, che possono essere anche molto
simili a quelli di un'impresa. Ma la finalità dello strumento è
un'altra e deriva da una duplice circostanza: l'ente locale fa uso
di risorse pubbliche e quindi avverte il bisogno di «spiegare» alla
cittadinanza, al di là di quello che possono fare fredde cifre, il
loro impiego; oggi le amministrazioni pubbliche, per via di
ineludibili esigenze di riforma del welfare che non possono
che ispirarsi al principio di sussidiarietà (non foss'altro che per
le critiche condizioni in cui versa il bilancio dello Stato), si
trovano ad essere protagoniste di processi sociali di trasformazione
e innovazione assolutamente inediti. Comunicare le tappe di questo
percorso attraverso il bilancio sociale vuol dire allacciare, seppur
a volte solo idealmente, un dialogo continuo con i destinatari di
tali mutamenti, renderli partecipi di decisioni anche «impopolari»
ma necessarie, offrire testimonianza del fatto che amministrare la
res publica vuol dire rendere un servizio a tutti (e, con
ciò, porre anche le basi per un rinnovato, futuro consenso
politico).
Per quanto riguarda, infine, le organizzazioni non profit,
forse la terminologia più adatta per indicare il bilancio sociale è
quella di «bilancio di missione». Infatti, mentre nel caso
dell'impresa, il bilancio sociale mira a comunicare «qualcos'altro»
rispetto alla sua finalità principale che è comunque quella di fare
profitti - anzi il «qualcos'altro» è proprio strumentale al
conseguimento di utili più alti -, con le organizzazioni senza fini
di lucro è vero, in un certo senso, il contrario. L'obiettivo ultimo
di un ente non profit è, per definizione, di natura sociale,
e quindi il bilancio ad esso più appropriato non è il bilancio
d'esercizio - che acquista una valenza in alcuni casi secondaria -
ma giustamente quello sociale, perché permette di comunicare la
missione dell'ente. Se, per esempio, un'Associazione che si occupa
di accoglienza di portatori di disagio psichico amplia il proprio
raggio d'azione costruendo nuovi alloggi in diverse aree del Paese
con ricorso all'indebitamento bancario, il bilancio d'esercizio
rileverà un aumento dei debiti, che però significa ben poco rispetto
al grande risultato che l'evento rappresenta in termini di coerenza
con la missione dell'Associazione, cosa che il bilancio sociale
opportunamente metterà in evidenza.
Le «luci» del bilancio sociale
L'efficacia comunicativa (ma non solo) del bilancio sociale negli
ultimi anni è andata progressivamente migliorando, fino al punto da
essere considerato «eloquente» allo stesso modo, se non addirittura
di più, del bilancio civilistico d'esercizio. Una testimonianza
decisamente significativa in proposito è data dal fatto che si sono
moltiplicate, negli ultimi anni, le raccomandazioni e le linee guida
su come fare un bilancio sociale. Questo, infatti, assomiglia a una
sorta di «abito su misura». Non ci sono, come per il bilancio
contabile, principi contabili che devono essere obbligatoriamente
adottati. Ciascun soggetto si rifà alle linee guida che ritiene più
consone alle proprie esigenze. Le raccomandazioni della Global
Reporting Initiative (una rete mondiale di rendicontazione
economica, ambientale e sociale delle imprese), che sono lo
standard di bilancio sociale più diffuso al mondo, sono state
promosse nel 1997 dalla Coalition for Environmentally Responsible
Economies (CERES: Coalizione per le economie responsabili
dell'ambiente) e dalla United Nations Environment Programme (UNEP:
Programma delle Nazioni Unite per l'ambiente), e per ciascuna
categoria (economica, ambientale, sociale) «invitano» a prendere in
considerazione una serie di parametri: in materia ambientale, per
esempio, prevedono che l'impresa rendiconti circa l'uso dell'acqua,
dell'energia, dei materiali impiegati, sulle emissioni di anidride
carbonica, sul tipo di trasporti cui ricorre per distribuire la
merce, ecc.
In Italia ampio consenso trova lo standard GBS (Gruppo di
studio sul Bilancio Sociale), il quale stabilisce che il bilancio
sociale deve articolarsi in almeno tre parti (identità dell'azienda,
calcolo e distribuzione del valore aggiunto, relazione sociale) e
ispirarsi a 17 principi, tra cui: la trasparenza, la coerenza, la
neutralità rispetto a interessi di parte, la comparabilità, la
chiarezza, la periodicità.
Sebbene il numero di aziende in Italia che decidono di pubblicare un
bilancio sociale sia ancora piuttosto esiguo (e ancor di più lo è
quello di enti pubblici e di organizzazioni non profit), si
sono registrati negli ultimi anni importanti passi in avanti. Da una
recente indagine realizzata dal network internazionale di
revisione contabile PKF e dalla società di consulenza aziendale
Atman Project, è emerso che il 60% delle grandi imprese italiane
redigono un bilancio sociale (cifra comunque piuttosto esigua, in
valore assoluto, se si pensa che il nostro tessuto produttivo è
composto per oltre il 96% da piccole e medie imprese). Quanto al
settore produttivo, quello di gran lunga più prolifico è il settore
bancario: l'ABI (Associazione Bancaria Italiana) ha calcolato che
oltre l'80% delle banche italiane, considerate in base al numero di
sportelli, pubblica un bilancio sociale. Un motivo tra i più
plausibili di un simile primato non è difficile da comprendere: le
banche, soprattutto per via di alcuni scandali finanziari che hanno
interessato il mondo del risparmio gestito (si pensi ai casi
Parmalat e Cirio), sono oggi tra i soggetti economici che più
soffrono, nel complesso, di una crisi di fiducia da parte dei
cittadini-clienti. La pubblicazione del bilancio sociale mira il più
possibile a ristabilirla.
Le «ombre» del bilancio sociale
Tra il dire e il fare, tuttavia, non di rado il divario è grande. A
fronte, infatti, delle ragioni «esplicite» che spiegano perché
imprese, enti pubblici, organizzazioni non profit
intraprendono il percorso della rendicontazione sociale, ve ne sono
altre meno «presentabili», ma non per questo meno reali,
riconducibili sostanzialmente al desiderio di mettersi in mostra, di
usare il documento come un mero veicolo di marketing,
caratterizzato da autoreferenzialità. Non a caso, la qualità dei
bilanci sociali è molto varia: si oscilla tra la produzione di
plichi di carta e foto destinati a ingombrare le scrivanie e la
realizzazione di un vero e proprio strumento strategico di gestione
e di crescita. Questo anche in funzione dell'accuratezza con cui
sono condotte le sue varie fasi e modalità di realizzazione:
interviste a dipendenti e collaboratori; riunioni periodiche tra le
diverse linee manageriali; ascolto delle istanze degli
stakeholder (rappresentanti di enti locali, di organizzazioni
non profit, fornitori, funzionari di autorità di garanzia e
controllo), ecc.
Un simile traguardo, tuttavia, sembra ancora piuttosto lontano
poiché la grande maggioranza dei bilanci sociali tuttora realizzati
presenta vistose lacune perlomeno sotto tre punti di vista.
Anzitutto si tralasciano di indicare gli impegni socio-ambientali
che l'organizzazione in questione intende assumersi in futuro e i
tempi entro i quali prevede di portarli a termine. Viene quindi a
mancare quell'indispensabile analisi in cui si confrontano il
«prima» e il «dopo», da cui si può ricavare un suo grado di
affidabilità.
Una seconda «ombra»: a certificare la veridicità di quanto sostenuto
nel documento è quasi sempre una società di revisione contabile. Si
tratta di un grande limite poiché, essendo il bilancio sociale una
sorta di abito su misura, ha poco senso che un ente terzo come una
società di revisione (peraltro molto più autorevole in materia di
bilanci «tradizionali», di natura contabile) certifichi il rispetto
di requisiti formali. Sarebbe maggiormente utile accompagnare il
documento con una relazione finale di una organizzazione della
società civile, che ha titolo per esprimere valutazioni di merito.
Sarebbe interessante se, per esempio, una società petrolifera
facesse «certificare» da un'associazione ecologista il proprio
bilancio sociale e il rispetto degli impegni assunti in campo
ambientale.
Infine, ma non meno importante, i bilanci sociali continuano a
essere stampati in un numero esiguo di copie, in ogni caso inferiore
ai potenziali lettori che essi dovrebbero raggiungere. Se, per
esempio, una banca con qualche migliaio di sportelli pubblica poche
centinaia di copie del bilancio sociale (ipotesi tutt'altro che
teorica), allora nemmeno ciascun responsabile di filiale ha modo di
leggerlo. Una carenza comunicativa che rende poi impossibile il
ritorno di quel prezioso flusso di informazioni che viene «dal
basso», indispensabile per delineare strategie di sviluppo
sostenibile lungimiranti.
Per saperne di più
BAGLIANI M. - VICARI S., «Bilancio sociale, strumento da non usare
solo per la comunicazione», in Il Sole 24 Ore, 3 maggio 2004,
9.
CHIESI A. - MARTINELLI A. - PELLEGATTA M., Il bilancio sociale,
Il Sole 24 Ore, Milano 2000.
HINNA L. (ed), Il bilancio sociale, Il Sole 24 Ore, Milano
2002.
UNIONCAMERE, La responsabilità sociale delle imprese e gli
orientamenti dei consumatori, Franco Angeli, Milano 2006.
VIVIANI M., Specchio magico. Il bilancio sociale e l'evoluzione
delle imprese, il Mulino, Bologna 1999.
www.bilanciosociale.it
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