L´11 MARZO 1947 all´Assemblea costituente Benedetto Croce parlò sul
progetto di Costituzione. E pronunciò la famosa esortazione: «Ciascuno
di noi si ritiri nella sua profonda coscienza e procuri di non prepararsi,
col suo voto poco meditato, un pungente e vergognoso rimorso». Chissà
quanti dei 156 senatori che ieri hanno votato la greve revisione di quella
stessa Costituzione sentiranno un "rimorso" di quel tipo. Pochi,
è da credere. Perché il dato forse più grave di questa decisione di
maggioranza è stata la banalizzazione della Costituzione. La sua
riduzione a oggetto di un baratto esclusivo al gruppo di governo. Un
mercanteggiamento con poste che non erano idee e tesi sul
costituzionalismo, ma assestamenti interni alla coalizione prevalente: con
un fortissimo potere di ricatto da parte del piccolo partito di
"governo e di secessione".
Il
baratto delle istituzioni
Così è
mancato quel respiro organico che rende una riforma degna di tal nome. Si
è proceduto a pezzi e bocconi. Ora, in questo disegno appena approvato,
non è che la Costituzione abbia un´altra faccia. Ha solo una faccia
butterata.
Le finalità di partenza, su cui anche l´opposizione conveniva, erano
quelle di completamento e di riequilibrio. Ci sono state due grandi
rotture nella continuità del nostro sviluppo costituzionale. Nel 1993, la
nuova legge elettorale maggioritaria; nel 2001, la nuova configurazione
del rapporto tra lo Stato e le regioni. Queste due rotture richiedevano, e
ancora richiedono, misure rivolte, da un lato, a moderarne gli eccessi (lo
scompenso tra poteri della maggioranza e poteri dell´opposizione; le
esigenze di unitarietà nell´arcipelago delle competenze tra Stato,
regioni, autonomie locali). Misure, d´altro lato, di completamento (la
razionalizzazione dei poteri di governo in capo al primo ministro; la
trasformazione del Senato in luogo di armonizzazione degli interessi
regionali). Nessuna di queste misure è stata attuata. Al contrario, si è
operata una accumulazione di formule e di omissioni la cui combinazione
risulta perversa. Vediamo.
L´attuale rapporto maggioranza-opposizione, il cui sbandamento è stato
il più vistoso effetto della nuova legge elettorale, non è stato
minimamente corretto. Sono state respinte tutte le proposte che cercavano
di sottrarre, al dominio incontrollato della maggioranza le decisioni:
sulle incompatibilità elettorali, sulle commissioni d´inchiesta, sulla
stessa composizione delle Assemblee. Né sono state accolte le proposte
sulla possibilità di ricorso di minoranze parlamentari alla Corte
costituzionale, sulle garanzie ai pubblici impiegati oggetto di spoils
system, sulla costituzionalizzazione di grandi aree "non
maggioritarie" da affidare ad Autorità indipendenti. Tutto questo
mentre, nell´altro ramo del Parlamento, s´approvava la legge di sistema
radiotelevisivo che consacra la condizione di disuguaglianza dell´attuale
opposizione nell´accesso alla comunicazione di massa, determinante nelle
campagne elettorali.
Il riequilibrio istituzionale del rapporto maggioranza-opposizione è,
insomma, ancora affidato a quello stesso regolamento parlamentare che ha
consentito, a maggioranza, il "contingentamento" dei tempi di
parola per una revisione costituzionale di questo tipo...
È in questo squilibrio assoluto che si devono leggere e interpretare le
norme che trasformano il nostro regime parlamentare in regime elettorale
del primo ministro. Qui non è la prevalenza del premier in Consiglio dei
ministri il punto decisivo (anche se la formula di cipiglio adoperata per
descrivere la sua funzione ha un lessico rivelatore: "determina"
la politica nazionale, anziché "dirige"...). Il punto è che il
sistema parlamentare è svuotato d´ogni flessibilità e viene consegnato,
letteralmente, nelle mani del primo ministro. Il passaggio del potere di
scioglimento della Camera dalle mani del presidente della Repubblica a
quelle del premier, in un contesto di delegittimazione di contropoteri e d´assoluto
sovranismo elettorale, non è tanto un rafforzamento e una stabilizzazione
dei poteri di governo, quanto un impoverimento delle risorse e delle
garanzie istituzionali del sistema. La lacrimosa mistica contro i
"ribaltoni" è stata adoperata in eccesso: per impedire, tra un´elezione
e l´altra, il potere di moderazione, di discussione, di confronto, di
controllo in cui è la perdurante necessità dei parlamenti. Il capo dello
Stato è ristretto "espressamente" (è detto proprio così) a un
piccolo catalogo di competenze, proprio per vietargli la specifica
missione - che la nostra storia costituzionale da sempre gli assegna - di
alto arbitrato politico costituzionale tra governo, Parlamento, corpo
elettorale.
Di fronte a questo sistema centrale così irrigidito, a un primo ministro
che, tra un´elezione e l´altra, può vivere di rendita, senza Parlamento
né presidente della Repubblica cui veramente rispondere, v´è il sistema
regionale. Il Senato dovrebbe essere il naturale raccordo tra l´uno e l´altro
sistema. Così non è. Per comporre i conflitti tra Stato e regioni - che
dovrebbe essere la principale vocazione di questa Assemblea con radici
territoriali - è stato ripescato il concetto d´"interesse
nazionale". Ripescato, però, nella stessa errata formula,
genericamente politica, con cui era stato affossato nel 2001. Allora s´era
buttata l´acqua sporca (fu giusto) con la categoria giuridica (che si
doveva, invece, salvare). Per dare un senso nuovo alla cosa, sarebbe stato
possibile, come proposto dalle regioni, come proposto dall´opposizione,
"estrarre" dall´attuale testo della Costituzione i veri
contenuti dell´"interesse nazionale". Sono questi: i livelli
essenziali dei diritti civili e sociali, da garantire in ogni parte del
territorio della Repubblica; l´unità giuridica e l´unità economica
dell´ordinamento; il riequilibrio delle risorse finanziarie. Vuota com´è,
la formula è pericolosa: il nuovo Senato non riuscirà mai a utilizzarla.
Ovvero, come temono le regioni, diventerà il loro
"controllore".
Posto in condizioni sbagliate rispetto al suo fine principale, il Senato
viene però a complicare terribilmente l´ordine delle fonti legislative
della Repubblica. Un gran numero di competenze legislative, a toppe e
rammendi, gli sono state via via addossate, in un confusissimo dibattito.
Alle già difficili operazioni di confine nel catalogo di competenze tra
Stato e regioni, s´aggiunge ora, a incrocio, quella della distribuzione
di primogeniture legislative tra Camera e Senato...
È in questa incerta geografia legislativa che s´inserisce il mito della
devolution. È difficile capire in questo contesto, quel che significhi
giuridicamente l´aggettivo "esclusiva" usato per la
legislazione regionale in materia di sanità, istruzione, polizia. Quello
che si percepisce fin troppo bene è il tentativo di forzare la mano sui
grandi sistemi nazionali. D´operare una secessione di fatto nelle zone
costituzionali di uguaglianza: l´apparato sanitario, i programmi
scolastici, i corpi di polizia. Il tutto accompagnato da grumi di
"libera determinazione" di popoli e nazioni (che sarebbero
oppressi dall´Italia). Come si può leggere in quello che dovrebbe essere
il nuovo articolo 67 sul libero mandato parlamentare. "Ogni deputato
e ogni senatore rappresenta la Nazione e la Repubblica": quasi che
non vi fosse più coincidenza tra l´una e l´altra. Come si può leggere
in una disgraziata norma transitoria che concede una sanatoria di 5 anni
per poter frantumare le regioni esistenti senza il requisito
costituzionale del referendum tra tutti i cittadini coinvolti nella
separazione territoriale.
Croce, davanti all´Assemblea attonita, concluse quel discorso del marzo
di 57 anni fa, «raccogliendo tutti quanti a intonare le parole dell´inno
sublime: Veni, creator Spiritus, Mentes tuorum visita...». Altri tempi.
Non c´era traccia di quello Spirito a Palazzo Madama, quando, trascorsi
gli ultimi minuti del tempo "contingentato", l´opposizione se n´è
uscita, dato che non poteva più parlare. Da qualche parte si dice ch´è
stata avviata una riforma. Costituzionale.
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