C´È NELLA inquieta Italia all´inizio del 2004 un ministro delle Riforme
istituzionali che minaccia di mandare il Parlamento a casa se entro il
corrente mese «non si fa il federalismo». Può darsi che questa
legislatura avrà accorciata la sua vita. Ma non certo perché «non si fa
il federalismo», secondo l´onorevole Umberto Bossi. E questo per tre
ragioni: ognuna più forte dell´altra. La prima ragione è che un
vastissimo decentramento federale è già in Costituzione, da quando gli
italiani lo approvarono con il referendum del 7 ottobre 2001. È un
federalismo anche troppo profondo. Così almeno l´ha giudicato la Corte
costituzionale con la sentenza (recente ma già famosa) n. 303 del primo
ottobre scorso.
Il Paese spaccato che Bossi vuole
Esaminando la
legge-obiettivo sulle grandi opere pubbliche, i giudici costituzionali
hanno infatti detto che quando vi è «esigenza di esercizio unitario»
sovraregionale, allora deve essere spostata, a favore dello Stato,
addirittura la stessa competenza legislativa che spetterebbe alle regioni.
Un federalismo troppo profondo l´hanno giudicato anche essenziali
componenti della maggioranza (An, Udc) che hanno riproposto la tutela dell´"interesse
nazionale della Repubblica" come garanzia nei confronti della
legislazione regionale. Una formula unificante che va bene anche all´opposizione:
purché non sia generica, ma puntuale sintesi dei paletti che già ci sono
nella riforma del 2001. I paletti che indicano l´intima sostanza della
indivisibilità della Repubblica. "La tutela dell´unità giuridica e
dell´unità economica dell´ordinamento. La tutela dei livelli essenziali
delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, prescindendo dai
confini territoriali dei governi locali. Risorse e interventi dello Stato:
per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà
sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l´effettivo
esercizio dei diritti della persona. Il principio di leale collaborazione
tra poteri pubblici centrali e periferici". Sono tutte misure di
cautela già scritte nella Costituzione vigente e a cui la formula
"interesse nazionale" deve specificamente riferirsi per definire
l´orizzonte che il federalismo italiano non può varcare. Ma lo stesso
fatto che si sono ritenuti necessari questi interventi di tutela unitaria
significa che la svolta "federale" è già avvenuta...
La seconda ragione è che nessuno ostacola il cosiddetto
"completamento" del federalismo. Questo completamento era già
scontato nell´art. 11 della riforma costituzionale del 2001. La revisione
delle norme sul Parlamento è stata da sempre e da tutti considerata il
logico coronamento dell´avvenuta attribuzione alle regioni della massima
parte delle funzioni legislative. La riconduzione del Senato a quella
"base territoriale" che dal 1948 era rimasta una formula vuota,
non è contrastata da nessuno.
Se vi sono responsabilità nella mancata accelerazione di questo
cambiamento, esse sono dell´attuale maggioranza (ma anche istituzionali).
Si è infatti negato l´ingresso, già da adesso, in Parlamento ai
rappresentanti delle regioni e degli enti locali. Quell´apertura,
prevista dalla legge costituzionale, con l´integrazione della Commissione
parlamentare per le questioni regionali, munita di nuovi, penetranti
poteri procedurali.
Vi è solo discussione - che attraversa sia la maggioranza sia l´opposizione
- sulla formula della rappresentanza territoriale nel nuovo Senato. Se, a
modello Germania, il Senato dovrà essere costituito dai rappresentanti
dei governi territoriali. Se, invece, a modello Stati Uniti, si devono
solo rafforzare i vincoli regionali dei senatori: che avranno però un
libero mandato politico. Se, ancora, dovrà prevalere piuttosto una
formula mista: rappresentanti dei governi territoriali e senatori eletti
con forte radicamento regionale. Come si vede, un dibattito (quasi)
tecnico, senza alcuna coincidenza con gli schieramenti politici. La
ricerca di una giusta composizione che tenga conto delle tre funzioni che
dovrà svolgere il "nuovo" Senato: di rappresentanza
territoriale, di legislazione, di garanzia. Un dibattito che sta per
concludersi senza necessità di sfondare alcuna porta, dato che sono tutte
aperte.
Se poi per "completamento" s´intende la delicata questione dell´ordinamento
fiscale, ebbene anche per questo problema non si avvertono tensioni
politiche. Si avverte, semmai, una fortissima tensione culturale, legata
allo storico dualismo dell´economia italiana e della capacità
contributiva degli abitanti. D´altra parte, come ricorda Vincenzo Visco,
un federalismo fiscale già c´è: con trasferimenti dallo Stato ai
governi territoriali, con tributi e addizionali locali. Si tratta di
razionalizzarlo e rafforzarlo calcolando i maggiori poteri trasferiti alla
periferia. È questo il compito della commissione, istituita presso il
ministero dell´economia. È un lavoro difficile. È bene perciò
attenderne i risultati: senza schiamazzi di bottegai elettorali, né al
Sud né al Nord. Poi, se ne discuterà.
La terza ragione per cui le sorti della legislatura non dipendono dal
"federalismo che non si fa" è che la devolution, nata dalla
"secessione", s´è ora ridotta, per pressioni di coalizione, a
"legislazione esclusiva". È una formula di per sé priva di
sintassi giuridica, dato che non ci può essere nulla d´"esclusivo"
in materie spartite con lo Stato (sia per regolazione diretta sia per
dettatura di principi). Senza parlare dei condizionamenti di diritto
costituzionale e di ordine comunitario. Un´operazione, dunque, cosmetica.
Se ci fosse un´associazione a tutela degli elettori, interverrebbe subito
a svelare il trucco. Tuttavia, poiché le parole della Costituzione sono
pietre, è sempre ugualmente pericoloso accogliere un concetto di questo
tipo per sistemi "naturalmente" nazionali: come la sanità, la
scuola, la polizia. Ed è ovvio che ci sarà opposizione in Parlamento.
Come ci sarà opposizione contro la proposta di squartare il
"nuovo" Senato in commissioni corrispondenti a macro-regioni
(dopo avere però frammentato le regioni esistenti, con referendum
"facili", senza alcun progetto economico e sociale di riassetto
territoriale).
Se però quell´aggettivo "esclusivo" non ha solo un valore
ordinamentale ma vuole trascinare con sé anche i criteri di destinazione
e ripartizione delle risorse finanziarie, allora il discorso si aggrava e
l´opposizione diventerà frontale. Già da ora, infatti, le regioni
meridionali non ce la fanno da sole ad assicurare le prestazioni minime
sanitarie e scolastiche. Se la "perequazione" tra ricchi e
poveri di cui parla la Costituzione venisse di fatto annullata, ci sarebbe
una gran parte d´Italia in cui verrebbe negato lo stesso concetto sociale
di cittadinanza.
Ma, attenzione, questo non è "il federalismo che non si fa". È
soltanto il tentativo di inserire, in un ampio ed anche rischioso processo
federale in atto, elementi di frattura territoriale tra due Italie. Già
il Paese si sta accorgendo, con angoscia, della grande frattura che si è
aperta in tutte le sue regioni, con lo sprofondamento economico di una
vasta fascia di ceti e di lavori. È impensabile che il Parlamento della
Nazione voglia ora aggiungere, per effetto di irragionevoli minacce,
frattura a frattura.
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