L´ATTUAZIONE della
riforma federale nella Repubblica «una e indivisibile» è impresa
difficile di per sé. Non a causa di deficienze di impianto (come invece
continuano meccanicamente a ripetere, da ruoli istituzionali, quelli che,
per ragioni elettorali, l´avversarono). Ma per l´intrinseca «povertà»
del diritto costituzionale, inadatto da solo a rifinire gli edifici che
fonda. Da che mondo è mondo, infatti, l´intervento costituente deve
essere seguito da una fedele «intendenza».
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I
giocolieri della Costituzione tra esperimenti e proclami show
Come
dimostra l´ultima polemica la prevalenza parlamentare del Polo invece di
stabilizzare il sistema politico sembra metterlo in emergenza permanente
Il presidenzialismo appena rilanciato è solo l´etichetta di una
bottiglia vuota. Tuttavia va preso sul serio: riflette la tendenza della
maggioranza a forzare situazioni istituzionali
Sono le leggi
ordinarie, i regolamenti parlamentari, le convenzioni istituzionali, i
provvedimenti amministrativi che si devono avvitare ad esso e completarlo.
La maggioranza di governo si trova dunque, da un lato, a rispondere a
questo dovere costituzionale. E deve fare appello perciò a tutte le
energie istituzionali, dal Parlamento alla Corte costituzionale, dalle
Università all´intero mondo delle autonomie, perché questa cruciale
transizione repubblicana proceda con ordine e rapidità, al minore tasso
possibile di conflittualità. Il recente accordo interistituzionale di
Palazzo Chigi e certe iniziative del ministro delle regioni corrispondono
a questa logica.
Ma questo necessario clima di pace istituzionale ad un certo punto si
rompe proprio all´interno della maggioranza di governo. Essa infatti deve
continuare a sostenere che il «vero» federalismo non è quello della
Costituzione votata dal corpo elettorale nel referendum. Ma quello
contenuto nello squinternato progetto di devolution dell´on. Bossi.
Quello che sancisce un «fai-da-te» regionale, un costituzionalismo «à
la carte», del tutto opposto alla logica cooperativa e solidale del
federalismo entrato in Costituzione. La maggioranza si trova dunque di
fronte, tanto per cambiare a un conflitto di fedeltà.
L´obbligo istituzionale ad attuare al meglio la riforma e l´obbligo
politico a sabotarla, nella sua vera sostanza, per far posto a quella
della Lega.
Davanti al Capo dello Stato, questo conflitto è stato svelato soprattutto
dalle dichiarazioni senza fronzoli dei rappresentanti delle regioni, delle
province, dei comuni. Tutti preoccupati dei ritardi nell´attuazione.
Tutti concordi nel rifiutare la deviazione senza uscita della devolution.
È da questa strettoia che la maggioranza ha inventato il rilancio del
presidenzialismo. Per ora, come etichetta su una bottiglia piena di vuoto.
Da allineare accanto a quella della devolution, nella stanza dei
giocattoli della Casa delle Libertà. E tuttavia da prendere sul serio nei
suoi effetti d´annuncio. Perché anche nell´invenzione di diversivi,
viene fuori la pericolosa tendenza della maggioranza a forzare le
situazioni istituzionali, a cercare protesi e additivi istituzionali. Come
se non bastassero i numeri parlamentari a rassicurarla della sua capacità
di governare. La larga prevalenza parlamentare invece di stabilizzare il
sistema politico, agisce così come una minaccia che lo pone in emergenza
permanente, in crisi continua.
È avvenuto così anche per la sbrigativa idea (un po´ scolastica, un po´
datata, un po´ sbagliata) di puntare al presidenzialismo come
contropotere al federalismo. Quell´annuncio improvvisato ha saltato
infatti almeno tre passaggi di sicurezza.
Il primo è che la dimensione unitaria del federalismo non va ricercata in
poteri fuori da esso, ma in meccanismi interni al sistema stesso federale.
Precisamente in quei principi fondamentali di legislazione concorrente con
cui lo Stato difende l´uguaglianza repubblicana (e che la maggioranza
vorrebbe abolire come fonte di «confusione»). Precisamente, ancora, in
quella compartecipazione delle autonomie ai meccanismi parlamentari: nella
Commissione per le questioni regionali (in ritardo ostruzionistico, dopo
oltre 9 mesi dal referendum, nonostante gli sforzi di Nicola Mancino per
trovare una ragionevole soluzione); nel Senato della Repubblica federale
(in attesa di un progetto che dopo tanti anni sviluppi l´antico embrione
concepito in Assemblea Costituente).
Precisamente, infine, in quel punto strategico di ogni Stato composito che
è la ripartizione equilibrato delle risorse finanziarie (ora oggetto,
invece, di una contro-legislazione di riaccentramento).
Il secondo passaggio omesso è che l´idea di garanzia contro i rischi di
disunione nazionale verso il basso, deve combinarsi con una riserva
intangibile di unione nazionale nel punto più alto della Repubblica.
Dinanzi ad un regionalismo che deve fare i conti ogni giorno,
letteralmente, con il potere centrale di governo, valgono sempre più le
motivazioni a favore di un Capo dello Stato che sia la garanzia «di
chiusura», l´ultima risorsa della «Repubblica di tutti». E perciò
espresso da un´assemblea parlamentare a cui partecipino le regioni come
istituzioni (quella partecipazione rafforzata dal Senato federale).
Rinunciare alla forza, non solo simbolica, di una rappresentanza dell´unità
nazionale sopra le parti, è ancora una fuga verso super-poteri assoluti.
Nell´illusione di bloccare il sistema con un meccanismo monolitico in cui
i poteri di capo dello Stato si cumulino con quelli di capo del governo.
(Mentre un certo presidenzialismo italiano potrebbe tranquillamente
continuare a svilupparsi lungo il naturale cammino già intrapreso: con il
confronto elettorale per la carica di primo ministro tra leader di
coalizioni...).
Il terzo passaggio logico, contraddetto più che omesso, è la necessità
sempre più forte di elevare - e non ulteriormente abbassare - le soglie
delle garanzie in un ancor giovane sistema bipolare. Invece di sognare un
presidenzialismo assoluto alla Chirac (ma senza le garanzie della
Costituzione francese) una classe di governo cosciente del rischio
democratico, dovrebbe preoccuparsi delle garanzie reciproche dell´alternanza.
E porsi le domande che chi guarda lontano già si pone. Sono
costituzionali i regolamenti parlamentari quando assommano fatto
elettorale maggioritario ai vincoli che per la minoranza pone il
parlamentarismo «razionalizzato»? costituzionale, in base al principio
del giusto processo («un giudice terzo e imparziale»), l´articolo 62
della Costituzione che consegna alla maggioranza parlamentare il giudizio
sulla composizione delle Camere? È costituzionale, in base al principio
di eguaglianza, l´articolo 68 della Costituzione quando riserva al
giudizio di maggioranza l´impunità per fatti estranei alle funzioni
parlamentari? E, per tornare al federalismo, è costituzionale, sul metro
della cittadinanza politica nazionale, quella legge costituzionale che
attribuisce ad ogni singola regione il potere di darsi una forma di
governo diversa, facendo dell´Italia una Repubblica a pezze d´Arlecchino?
Insomma sono ormai divenuti reali certi paradossi di manutenzione delle
libertà politiche. Democratizzare la democrazia. Costituzionalizzare la
Costituzione. Il problema è infatti quello di far combaciare i pezzi ora
sparpagliati del puzzle istituzionale che si chiama Italia. E solo una
classe politica tutta intera, responsabile e persuasa dello scopo comune,
e non costretta a sfiancarsi nei sospetti di una crisi istituzionale
permanente, potrebbe farcela.
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