DA BRUXELLES a Roma, c´è un legame tra la Convenzione che lavora sulle
istituzioni europee e l´accidentata fase italiana di attuazione del
federalismo. Le dichiarazioni avventuristiche in Senato del ministro Bossi
incidono anche su questo legame. Nel 1957 quando a Roma si firmarono i
Trattati fondatori, nell´Europa che cominciava a unificarsi, soltanto la
Germania aveva struttura federale. Ora nella matura Unione europea che si
avvia ad un trattato costituzionale non c´è Stato, di quelli già membri
e di quelli candidati, che conservi la vecchia forma accentrata.
SEGUE A PAGINA
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La
devolution eversiva che minaccia l'unità dello Stato
Il rischio è trovarsi con più "senati" contrapposti,
ciascuno con una sua parte di Paese: una specie di secessione per
implosione Allora servirebbe un altro Garibaldi
In Italia si assiste a una schizofrenia governativa: Umberto Bossi cerca
di disfare un disegno già in via di attuazione sostenendo un piano denso
di strappi pericolosi
Il processo federativo europeo è una necessità dovuta anche alla
globalizzazione Infatti un localismo ben strutturato può sfruttarne i
benefici e gestirne gli effetti negativi
La prise de pouvoir a Parigi di Jean Pierre Raffarin, pioniere della
Francia «profonda» della regionalizzazione e della décentralisation, è
un po´ il simbolo alto e riassuntivo di questo processo federativo
europeo.
Un processo «spinto» dalla stessa Unione. Che ha preferito per la sua
politica di coesione, interlocutori istituzionali in «prossimità» alle
aree di intervento. Un processo favorito dagli stessi Stati nazionali. Che
hanno visto nell´«altro» confine, quello concentrico dell´Unione, la
nuova garanzia di contenimento delle storiche spinte autonomistiche nel
proprio seno. Un processo necessitato dall´onda lunga della
globalizzazione. Rispetto a cui si è subito capito che solo la
flessibilità di un localismo ben strutturato poteva sfruttarne i benefici
e, insieme, ammortizzarne le forze di devastazione economica e culturale.
Insomma, negli ultimi decenni, l´Europa che ha inventato gli Stati
nazionali, è stato anche il posto del mondo dove è stato meglio inteso l´insegnamento
che dall´università di Tel Aviv ci dava Daniel J. Elazar: «Il
federalismo è la sola forma di unità possibile nella modernità».
Dopo il pallido regionalismo italiano che comincia a funzionare nel 1970,
sarà l´elezione diretta dei sindaci, nel 1993, il vero inizio del nostro
processo federativo. Perché radicato nelle perduranze della storia
nazionale, perché finalmente capace di far venire fuori le energie delle
comunità di «destino». E si capisce che le regioni, per acquistare
vitalità, dovranno seguire quella strada. Non solo in senso istituzionale
(a questo provvederà l´elezione diretta dei presidenti regionali, oggi
ciecamente rimessa in discussione a favore di un´Italia a pezze d´Arlecchino...).
Ma soprattutto in senso culturale: per la necessità, cioè, di
connettersi intimamente alle stesse radici dell´autonomia territoriale
del Paese. Insomma, per dirla tutta, in Italia non è possibile un
federalismo regionale che non sia, innanzitutto, federalismo municipale.
Come non è possibile concepire regioni vitali che non siano anche
regioni-federazioni di comuni.
Risponde a queste coerenze il referendum popolare che il 7 ottobre 2001
conferma la riforma «federale»: non a caso co-decisa insieme dalla
maggioranza parlamentare dell´Ulivo e dall´unanime «mondo» di regioni,
province, comuni.
Una riforma che capovolge il sistema delle attribuzioni nella Repubblica
per fondare una nuova, più salda unità repubblicana, basata su tre
pilastri.
Il pilastro della coesione territoriale. Ora la posizione delle componenti
territoriali della Repubblica è paritaria. Non è più legittimo il
centralismo nazionale ma neppure il centralismo regionale. Ora i comuni
hanno una tutela costituzionale nei loro statuti, nella loro legge
elettorale, nei loro organi di governo, nella loro autonomia finanziaria.
Sono la base generale delle funzioni amministrative. Partecipano al
sistema regionale con i Consigli delle autonomie locali e al sistema
parlamentare con propri rappresentanti nella Commissione per le questioni
regionali.
Il pilastro della coesione sociale. La compagine delle autonomie
territoriali è tenuta insieme, come dice la Costituzione, dalla garanzia
«su tutto il territorio nazionale» - e dunque «prescindendo dai confini
territoriali dei governi locali» - dei «livelli essenziali delle
prestazioni concernenti i diritti civili e sociali». È tenuta insieme da
un «fondo perequativo» istituito «per i territori con minore capacità
fiscale per abitante». È tenuta insieme da «interventi speciali» e
dalla destinazione di «risorse aggiuntive in favore di determinati
comuni, province, regioni».
Il pilastro della coesione istituzionale, infine. Spetta allo Stato
assicurarla. Allo Stato-governo con la sua responsabilità primaria per l´osservanza
dei vincoli comunitari europei; con il suo potere di controllo anche
sostitutivo per violazioni e omissioni regionali. Allo Stato-parlamento,
con la legislazione esclusiva sulle materie che «tengono» l´intero
sistema e per quella che detta i principi fondamentali nelle materie di
competenza regionale.
È questo il disegno visibile della riforma federale del 7 ottobre. Non vi
è più centralismo statale. Ma non vi è neppure diaspora di autonomie.
Vi è un´articolazione precisa dei governi territoriali. Ma vi sono anche
tutte le possibilità per una politica di unità nella diversità.
E poi vi sono le garanzie della Costituzione che, certo, la nuova forma
repubblicana richiama alle armi. Il Presidente della Repubblica per il
quale le parole della Costituzione - «rappresenta l´unità nazionale» -
ora significano qualcosa di più di quanto significassero ieri. La Corte
costituzionale che ora, sbaraccato il vecchio ordine dei controlli
statali, si vede attribuire, in prima e ultima istanza, i conflitti tra i
governi del sistema. Ma anche il Parlamento che il referendum ha chiamato
alla riforma perché divenga, con un Senato federale, il luogo naturale di
riconduzione, a centro della Repubblica, di tutte le periferie italiane e
la stanza di compensazione dei loro interessi. Insomma, anche per l´Unione
europea, la Repubblica italiana resta quella dell´articolo 5 della
Costituzione: "Una e indivisibile".
Rispetto a questo panorama - che è anche cantiere aperto - si sta
manifestando una straordinaria schizofrenia governativa. C´è, da un
lato, il ministro delle Regioni ha imboccato, finalmente, la via maestra
dell´attuazione costituzionale. Una via che passa, come fu già per la
grande riforma dell´Ulivo, per una intesa con il mondo delle autonomie.
Una intesa generale interistituzionale conclusa il 30 maggio e intese
specifiche sui punti cruciali. E c´è, dall´altro lato, il ministro per
le Istituzioni, l´on. Bossi, che cerca di sfasciare punto per punto quel
disegno e le sue garanzie. Attenzione: non è il Bossi un po´ così dei
comizi padani. È il ministro Bossi che esterna, come ieri, in Parlamento
e si fa approvare solennemente dal Consiglio dei ministri un insostenibile
progetto di legge: quello che porta il nome di devolution, già in
discussione al Senato.
Insostenibile perché condensa, in poche righe, tanti strappi eversivi
della sostanza costituzionale. I fatti più gravi di quel progetto non
sono tanto nella implicita fine del sistema sanitario nazionale o nella
creazione di una polizia regionale competente per i «piccoli crimini» o
nella «regionalizzazione» dei programmi di insegnamento scolastico. Sono
tutti questi, certo, fatti impensabili per l´unità repubblicana. Eppure
quello che preoccupa di più è l´attacco metodico ai pilastri del nuovo
sistema federale.
Basta confrontare il progetto «leghista» con le «forme e le condizioni
particolari di autonomia» previste già dalla Costituzione (art. 116).
La devolution scuote il pilastro della coesione territoriale: escludendo
dalla sua attuazione ogni coinvolgimento dei governi locali. L´ossessione
è per le regioni, per i loro poteri, per i loro confini. In questo
neo-centralismo, è ormai abusivo il ricordo del Carroccio comunale.
Il pilastro della coesione sociale è ignorato perché una devoluzione,
fatta regione per regione, prescinde dai principi di coordinamento e di
solidarietà fissati, in una visione nazionale, dall´art. 119 della
Costituzione. Insomma: Mezzogiorno, addio.
Il pilastro della coesione istituzionale salta perché con la devolution
si vorrebbe introdurre una sorta di legislazione regionale «esclusiva»:
che è un non senso nei moderni sistemi federali fatti di interdipendenze
e non di separatezze.
E anche le garanzie della Costituzione in questo gorgo annegano. La
rigidità delle norme costituzionali è messa in crisi da un meccanismo di
autoapplicazione, secondo il quale ogni regione modifica da sola, à la
carte, le proprie competenze. La Corte costituzionale, massima garanzia di
unità del nostro sistema come di ogni altro sistema federale, diverrebbe
una sorta di collegio arbitrale in cui ciascuno si sceglie i suoi
rappresentanti (ci sarebbe, per farlo, una pomposa «assemblea permanente
dei delegati regionali»...). Il Parlamento vedrebbe "territorializzato",
e dunque squartato, il suo Senato. Nord, Centro, Sud: a ciascuno il suo
Senato. Così il disegno di un Senato federale, luogo centrale dell´incontro
fra lo Stato e le autonomie - e perciò garanzia unitaria della Repubblica
delle diversità - cederebbe il passo a un opposto disegno. Quello di
"senati" contrapposti tra loro, ciascuno con un pezzo di Italia
in bocca. La secessione per implosione, insomma.
Sarebbe questo il sistema Italia da inserire nella Costituzione europea. E
ognuno capisce che di fronte a tanto sconquasso, non basta più l´inno di
Mameli. Bisognerebbe far tornare Garibaldi: per cominciare. Questa volta
da Marsala a Bruxelles.
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