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SEGREGATI
IN PERIFERIA
JEAN PAUL FITOUSSI
Ormai è stato detto tutto, o quasi tutto, sulla questione dei territori meno
favoriti della Repubblica; perciò non avrei voluto aggiungere la mia voce al
concerto delle spiegazioni. La violenza non è legittima, e qualunque
spiegazione, che lo si voglia o meno, diventa una giustificazione. Comprendere
vuol già dire scusare. Ma il fenomeno presenta la particolarità di chiamare in
causa vari attori, ciascuno dei quali ha i suoi torti: gli architetti, per aver
concepito luoghi di vita mostruosi; lo Stato, per aver lasciato che la
segregazione urbana si sviluppasse fino a limiti estremi; i "giovani" delle
banlieues per le violenze commesse.
Segregati in periferia
L´etnicizzazione
dei conflitti comporta due atteggiamenti contraddittori: da un lato, il rifiuto
delle minoranze definite non integrabili, e dall´altro la compassione per le
fasce di popolazione nei cui confronti la Repubblica avrebbe mancato ai suoi
doveri. Da parte mia vorrei però scegliere un´altra strada, lontana dai buoni
sentimenti e a distanza abissale dalla bestia immonda del razzismo. Quali sono i
fattori obiettivi che conducono alla segregazione e alla dissociazione? Nel
2003, insieme ad altri due economisti (Eloi Laurent e Joël Maurice) ho
consegnato al primo ministro un rapporto dal titolo "Segregazione urbana e
integrazione sociale". Uno dei tanti documenti su questo tema. L´industria dei
rapporti è tanto più fiorente, quanto più i problemi trattati restano irrisolti.
Da almeno un quarto di secolo, la principale disfunzione delle nostre società è
la disoccupazione di massa. Certo, è una realtà nota a tutti; ma dato che il
problema persiste, chi ne parla rischia di suscitare una forte impressione di
déjà vu, tanto da non produrre più altro che la noia dovuta alla ripetizione. Da
tempo ormai la disoccupazione è divenuta parte del paesaggio, e questo ci fa
pensare che la società possa continuare a conviverci. Di fatto però, come
abbiamo scritto nel rapporto sopra citato, "nel cuore del nostro sistema la
disoccupazione di massa è come un buco nero in espansione, che inghiotte tutte
le logiche di integrazione". Allungare la distanza tra la popolazione e la
possibilità di trovare lavoro vuol dire contribuire a dissociare i luoghi della
vita attiva dalle periferie, e il presente dal futuro. Per comprenderlo dobbiamo
pensare alla disoccupazione come a una serie di file d´attesa ai diversi
sportelli delle imprese e delle amministrazioni, ordinati a seconda delle
qualificazioni e dei diplomi. Le file d´attesa più lunghe corrispondono ai
titoli più modesti. Il perdurare della disoccupazione di massa significa che la
lunghezza delle file d´attesa rimane più o meno costante nel tempo (con qualche
variazione a seconda delle fluttuazioni congiunturali). Ma queste file non
funzionano secondo il principio della precedenza garantita ai primi arrivati,
bensì in base ai criteri di reclutamento delle imprese. Se prendiamo ad esempio
lo sportello dei lavoratori qualificati, il posto che ciascuno occupa nella fila
dipende dal prestigio del suo diploma, dalle precedenti esperienze di lavoro,
dagli indirizzi collezionati nella sua rubrica o in quella dei suoi genitori,
dalla durata dei periodi di disoccupazione pregressi, dal genere, dall´età e
talvolta da criteri ancor meno pronunciabili.
A parità di titoli di studio, una donna di cinquant´anni avrà minori probabilità di raggiungere lo sportello dei suoi coetanei maschi, che però a loro volta si vedranno passare davanti i pari grado trentacinquenni. Nella fila d´attesa più lunga - quella dei lavoratori meno qualificati - continueranno a valere tutti i criteri precedenti, ma un peso molto maggiore sarà attribuito a considerazioni che esulano dalla capacità lavorativa del candidato: si terrà conto dell´indirizzo, del cognome, dell´aspetto fisico ecc. Ora, si dà il caso che gli stranieri, o "ritenuti tali" (terribile espressione, pure correntemente ammessa!) sono rappresentati in percentuali molto superiori alla media nella categoria dei lavoratori meno qualificati, i quali ultimi si concentrano in determinate aree del territorio. Uno squilibrio sociale durevole come quello legato alla disoccupazione non è mai astratto, nel senso che ha inevitabilmente una connotazione spaziale. Di conseguenza i lavoratori meno qualificati, che abitano nelle zone periferiche delle città e per di più hanno nomi stranieri, si ritrovano sistematicamente relegati agli ultimi posti delle file d´attesa, con scarsissime probabilità di arrivare davanti allo sportello. Questo fenomeno di discriminazione non ha molto a che fare con l´immigrazione, ma piuttosto con la perdurante lunghezza delle file d´attesa. Anche se la popolazione fosse perfettamente omogenea dal punto di vista delle origini, si inventerebbero altri criteri di differenziazione. Di fatto, ogni processo di selezione diventa tanto più complesso e arbitrario, quanto più ampia è la possibilità di scelta tra i candidati (ossia la lunghezza della fila d´attesa). In altri tempi la discriminazione sarebbe avvenuta sulla base della regione d´origine, della professione dei genitori, del luogo di residenza, della religione, o magari di altre caratteristiche meno confessabili.
Il problema è che
quando il fenomeno all´origine delle discriminazioni perdura nel tempo, queste
ultime possono trovare una giustificazione ex-post. Gli individui stigmatizzati,
concentrati (per ragioni imperative di costi) in determinate aree, ove i tassi
di disoccupazione sono molto superiori alla media nazionale e i posti di lavoro
meno remunerati, percepiscono di avere possibilità sempre più scarse di
integrarsi negli spazi sociali, che sono quelli del lavoro, della scuola, delle
strutture collettive e della laicità. E alcuni sono tentati da forme di
integrazione sostitutiva - economia sotterranea, bande organizzate,
comunitarismo ecc. - che in qualche modo convalidano la loro segregazione. Anche
perché in quelle aree è più problematico il funzionamento dei servizi pubblici,
primo tra tutti la scuola. L´istruzione, per la sua stessa essenza, è una
promessa di futuro, ma al suo adempimento fanno ostacolo le discriminazioni. E
gli incoraggiamenti allo studio perdono la loro efficacia quando gli adolescenti
si sentono presi in giro, vedendo così svalutate le loro prospettive. La
condizione particolare dell´immigrato può insegnarci qualcosa sul funzionamento
complessivo della nostra società: il patto repubblicano riposa sia
sull´integrazione civica che su quella sociale.
Per il problema della segregazione urbana non esistono risposte chiavi in mano.
Tutte le possibilità di cui si è discusso in seguito ai noti episodi vanno nella
direzione giusta, ma sono sempre risposte parziali. Se non bastano i posti a
sedere al grande banchetto occupazionale, e se troppi devono accontentarsi di
uno strapuntino, bisognerà pure che nelle nostre società civilizzate si trovi
qualche territorio dove mandare le persone "in eccedenza". Ma in questo modo,
per le categorie meno favorite si allungherebbe ancora la distanza, non solo
sociale ma anche fisica, dalla possibilità di un posto di lavoro. E´ un fatto
che in ogni epoca le città sono state caratterizzate da quartieri ricchi e
quartieri poveri; ma la segregazione non subentra se non nel momento in cui la
mobilità tra queste realtà viene ridotta o impedita. Ora, è precisamente questa
la conseguenza dell´allungamento delle distanze dai posti di lavoro. Occorre
dunque agire su tutte le dimensioni della mobilità per restituire dinamismo alla
società. E soprattutto impegnare tutte le energie per combattere la nostra
accettazione implicita della disoccupazione, poiché contribuisce a rendere
effettive le discriminazioni che altrimenti sarebbero rimaste virtuali.
Traduzione di Elisabetta Horvat