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Amartya
Sen mette in questione certi assunti che sono alla base del razionalismo
culturale occidentale, e quindi anche del pensiero economico.
Da quest'ultimo punto di vista, forse l'affermazione più dirompente riguarda i
cosiddetti "giudizi di valore". Normalmente, quando si discute su un
problema e su come risolverlo, si ritiene necessario valutare "i
fatti" e agire sulla loro base, senza lasciarsi influenzare da giudizi di
valore.
Ora, Sen afferma candidamente che questo è sbagliato: e cioè che anche i
giudizi di valore debbono essere messi in questione; e ciò proprio per evitare
che i cosiddetti "fatti" siano basati su informazioni parziali o su
giudizi di valore impliciti.
Egli dimostra come la supposta inconciliabilità dei valori fondamentali propri
di popolazioni diverse sia frutto di preconcetti e cliché. In particolare
contesta l'attribuzione all'occidente di una propensione alla libertà e
all'oriente di una propensione all'autorità, che contribuirebbero a rendere
difficile conciliare i due sistemi di valori. Soprattutto, Sen crede che
l'obiettivo di una libertà personale reale e responsabile, cioè l'obiettivo
fondamentale di far sì "che uomini e donne abbiano la possibilità
di ottenere cose cui danno valore (a ragion veduta)" (pp. 77, 78, 90, 92,
291 ecc.), sia valido per ogni cittadino del mondo.
Parla, naturalmente, di una libertà reale e non formale. E, anche da questo
punto di vista, ci mette in guardia dal giudicare e confrontare le situazioni di
diversi paesi e popolazioni in base "ad informazioni parziali".
Chiaramente egli propende per i regimi democratici, ma non per questo considera
la democrazia formale come una garanzia di democrazia reale. Riconosce,
ovviamente, che il reddito pro capite costituisca "un" indicatore
della ricchezza reale e potenzialmente di una maggiore libertà delle persone,
ma mette in guardia dal considerarlo come l'unico indicatore dello sviluppo.
Mostra come la speranza di vita, un indicatore della libertà reale come egli la
intende, è più bassa in popolazioni come gli afroamericani, rispetto a
popolazioni il cui reddito pro capite è molto più basso, ad esempio in certe
regioni dell'India e in Cina. Lui, indiano, non ha difficoltà a riconoscere che
le "capabilities" su cui si basa la libertà reale delle persone, sono
per certi versi superiori in Cina e in paesi del sud est asiatico rispetto
all'India. Infatti, per quanto in quest'ultimo paese viga un regime democratico,
in Cina e in altri paesi più o meno autoritari i livelli di istruzione e delle
condizioni sanitarie (altri indicatori della "capabilities") sono
superiori.
Insomma: l'eguaglianza sviluppo = aumento del reddito pro-capite che spesso si dà
per implicita è spesso una falsa eguaglianza. Lo sviluppo consiste nel processo
di espansione delle libertà reali godute dagli esseri umani, cioè della
"libertà sostanziale di scegliere tra più stili di vita
alternativi", di avere o fare le cose a cui ciascuno dà valore ("a
ragion veduta").
Per realizzare questo sviluppo non basta l'aumento del reddito pro-capite, anche
se questo è di regola uno strumento potente per la libertà personale.
Occorrono altre "capacitazioni", come le libertà politiche (elezioni,
libertà di stampa, ecc.), l'istruzione di base, la possibilità di curarsi, la
libertà di scambio in senso lato ("di parole, merci,
doni"), eccetera. E sono in errore quelli che pensano che per permettersi
queste capabilities prima si debba aumentare il reddito. Infatti l'aumento di
quest'ultimo, che dovrebbe avere come fine ulteriore proprio
l'allargamento della libertà personale, spesso dipende a sua volta dall'aumento
delle altre capabilities.
Più che la ricchezza materiale in sé quindi, sono importanti "i
funzionamenti", le "capabilities" che consentono a una persona di
fare, di essere ciò che desidera, ciò a cui dà valore.
Tutto il discorso di Sen dimostra comunque che se, sul piano teorico, può
essere utile distinguere tra diverse discipline scientifiche e filosofiche -
come tra economia ed etica - sul piano esperienziale, quindi anche della
politica economica, ciò è impossibile per non dire insensato. E'
noto d'altra parte che l'homo economicus è una astrazione.
A me sembra che dalla impostazione di Sen derivi un forte contributo alla
comprensione di che cosa significa "responsabilità nell'innovazione",
che è il tema costitutivo della Fondazione Bassetti.
Se l'innovazione, evidentemente non meramente tecnica, ma capace di offrire agli
uomini "qualcosa che vale", è ciò che contraddistingue
l'imprenditore, non c'è bisogno di chiedere a quest'ultimo un impegno etico, da
aggiungere a quello economico più o meno stimolato dal profitto. Come è stato
rilevato da qualcuno (R. Normann) in sede di letteratura aziendale, chi fornisce
qualcosa a un suo cliente (sia b2b sia b2c) gli fornisce libertà di fare di più
o meglio. Se il ruolo, e quindi la responsabilità, dell'imprenditore è
produrre innovazione in questo senso (un senso, lo ammetto, non sempre ben
definibile in pratica), l'imprenditore o è responsabile o non è imprenditore.
Se quindi un operatore economico consegue un profitto o una rendita senza
offrire innovazione nel senso di "qualcosa che vale a ragion veduta",
egli sarà un uomo d'affari, un cowboy, un rapinatore, ma non un imprenditore.
Anche un mafioso può fare molti profitti nel quarto settore, quello della
criminalità, ma esiterei a chiamarlo un imprenditore. E' un po' come
parlare di classe dirigente: non basta avere soldi e potere per essere classe
dirigente, perché il concetto di responsabilità è discriminante per decidere
se una persona appartiene alla classe dirigente o no. Questa affermazione, se
vera, potrebbe essere usata come prova del nove: se un imprenditore non fa parte
"a ragion veduta" della classe dirigente, a rigore non è neanche un
imprenditore.
Qualcuno risveglierà Adamo Smith, ricordando la sua affermazione secondo cui il
nostro pranzo non dipende certo dalla benevolenza del macellaio, ma dal fatto
che egli persegua il suo proprio interesse ("La Ricchezza delle
Nazioni", ed. Newton, pg.73). Ma molti dimenticano che, bene o male, il
macellaio ci procura il pranzo, cioè ci offre benessere (e attraverso questo
libertà) in cambio dei soldi che noi gli diamo; si dimentica che il nostro
scambio con il macellaio è a somma maggiore di zero, perché sia lui,
interessato al guadagno, sia noi, mangiatori di carne, ci avvantaggiamo; per non
dire che - ma Sen lo dice - è del tutto legittimo pensare che qualche
macellaio, oltre a pensare al suo profitto, si diverta o sia orgoglioso di
offrire al suo cliente una carne particolarmente buona.
E qui finisce il mio modesto commento ad Amartya Sen. La cui validità può
forse essere confortata da questa sua frase: "Gli economisti fautori del
mercato hanno spostato la loro attenzione dalla libertà all'utilità, ma questo
ha avuto un prezzo: è stato messo da parte il valore centrale della libertà
stessa" (p.33).