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Un commento a "Lo sviluppo è libertà" di Amartya Sen

(G. Correale Santacroce - settembre 2000)

Amartya Sen mette in questione certi assunti che sono alla base del razionalismo culturale occidentale, e quindi anche del pensiero economico.
Da quest'ultimo punto di vista, forse l'affermazione più dirompente riguarda i cosiddetti "giudizi di valore". Normalmente, quando si discute su un problema e su come risolverlo, si ritiene necessario valutare "i fatti" e agire sulla loro base, senza lasciarsi influenzare da giudizi di valore.
Ora, Sen afferma candidamente che questo è sbagliato: e cioè che anche i giudizi di valore debbono essere messi in questione; e ciò proprio per evitare che i cosiddetti "fatti" siano basati su informazioni parziali o su giudizi di valore impliciti.
Egli dimostra come la supposta inconciliabilità dei valori fondamentali propri di popolazioni diverse sia frutto di preconcetti e cliché. In particolare contesta l'attribuzione all'occidente di una propensione alla libertà e all'oriente di una propensione all'autorità, che contribuirebbero a rendere difficile conciliare i due sistemi di valori. Soprattutto, Sen crede che l'obiettivo di una libertà personale reale e responsabile, cioè l'obiettivo fondamentale di far sì  "che uomini e donne abbiano la possibilità di ottenere cose cui danno valore (a ragion veduta)" (pp. 77, 78, 90, 92, 291 ecc.), sia valido per ogni cittadino del mondo.
Parla, naturalmente, di una libertà reale e non formale. E, anche da questo punto di vista, ci mette in guardia dal giudicare e confrontare le situazioni di diversi paesi e popolazioni in base "ad informazioni parziali". Chiaramente egli propende per i regimi democratici, ma non per questo considera la democrazia formale come una garanzia di democrazia reale. Riconosce, ovviamente, che il reddito pro capite costituisca "un" indicatore della ricchezza reale e potenzialmente di una maggiore libertà delle persone, ma mette in guardia dal considerarlo come l'unico indicatore dello sviluppo. Mostra come la speranza di vita, un indicatore della libertà reale come egli la intende, è più bassa in popolazioni come gli afroamericani, rispetto a popolazioni il cui reddito pro capite è molto più basso, ad esempio in certe regioni dell'India e in Cina. Lui, indiano, non ha difficoltà a riconoscere che le "capabilities" su cui si basa la libertà reale delle persone, sono per certi versi superiori in Cina e in paesi del sud est asiatico rispetto all'India. Infatti, per quanto in quest'ultimo paese viga un regime democratico, in Cina e in altri paesi più o meno autoritari i livelli di istruzione e delle condizioni sanitarie (altri indicatori della "capabilities") sono superiori.
Insomma: l'eguaglianza sviluppo = aumento del reddito pro-capite che spesso si dà per implicita è spesso una falsa eguaglianza. Lo sviluppo consiste nel processo di espansione delle libertà reali godute dagli esseri umani, cioè della "libertà sostanziale di scegliere tra più stili di vita alternativi", di avere o fare le cose a cui ciascuno dà valore ("a ragion veduta").
Per realizzare questo sviluppo non basta l'aumento del reddito pro-capite, anche se questo è di regola uno strumento potente per la libertà personale. Occorrono altre "capacitazioni", come le libertà politiche (elezioni, libertà di stampa, ecc.), l'istruzione di base, la possibilità di curarsi, la libertà di scambio in senso lato ("di parole, merci, doni"), eccetera. E sono in errore quelli che pensano che per permettersi queste capabilities prima si debba aumentare il reddito. Infatti l'aumento di quest'ultimo, che  dovrebbe avere  come fine ulteriore proprio l'allargamento della libertà personale, spesso dipende a sua volta dall'aumento delle altre capabilities.
Più che la ricchezza materiale in sé quindi, sono importanti "i funzionamenti", le "capabilities" che consentono a una persona di fare, di essere ciò che desidera, ciò a cui dà valore.
Tutto il discorso di Sen dimostra comunque che se, sul piano teorico, può essere utile distinguere tra diverse discipline scientifiche e filosofiche - come tra economia ed etica - sul piano esperienziale, quindi anche della politica economica,  ciò è impossibile per non dire insensato.  E' noto d'altra parte che l'homo economicus  è una astrazione.
A me sembra che dalla impostazione di Sen derivi un forte contributo alla comprensione di che cosa significa "responsabilità nell'innovazione", che è il tema costitutivo della Fondazione Bassetti.
Se l'innovazione, evidentemente non meramente tecnica, ma capace di offrire agli uomini "qualcosa che vale", è ciò che contraddistingue l'imprenditore, non c'è bisogno di chiedere a quest'ultimo un impegno etico, da aggiungere a quello economico più o meno stimolato dal profitto. Come è stato rilevato da qualcuno (R. Normann) in sede di letteratura aziendale, chi fornisce qualcosa a un suo cliente (sia b2b sia b2c) gli fornisce libertà di fare di più o meglio. Se il ruolo, e quindi la responsabilità, dell'imprenditore è produrre innovazione in questo senso (un senso, lo ammetto, non sempre ben definibile in pratica), l'imprenditore o è responsabile o non è imprenditore. Se quindi un operatore economico consegue un profitto o una rendita senza offrire innovazione nel senso di "qualcosa che vale a ragion veduta", egli sarà un uomo d'affari, un cowboy, un rapinatore, ma non un imprenditore. Anche un mafioso può fare molti profitti nel quarto settore, quello della criminalità, ma esiterei a chiamarlo un imprenditore.  E' un po' come parlare di classe dirigente: non basta avere soldi e potere per essere classe dirigente, perché il concetto di responsabilità è discriminante per decidere se una persona appartiene alla classe dirigente o no. Questa affermazione, se vera, potrebbe essere usata come prova del nove: se un imprenditore non fa parte "a ragion veduta" della classe dirigente, a rigore non è neanche un imprenditore.
Qualcuno risveglierà Adamo Smith, ricordando la sua affermazione secondo cui il nostro pranzo non dipende certo dalla benevolenza del macellaio, ma dal fatto che egli persegua il suo proprio interesse ("La Ricchezza delle Nazioni", ed. Newton, pg.73). Ma molti dimenticano che, bene o male, il macellaio ci procura il pranzo, cioè ci offre benessere (e attraverso questo libertà) in cambio dei soldi che noi gli diamo; si dimentica che il nostro scambio con il macellaio è a somma maggiore di zero, perché sia lui, interessato al guadagno, sia noi, mangiatori di carne, ci avvantaggiamo; per non dire che - ma Sen lo dice - è del tutto legittimo pensare che qualche  macellaio, oltre a pensare al suo profitto, si diverta  o sia orgoglioso di  offrire al suo cliente una carne particolarmente buona.
E qui finisce il mio modesto commento ad Amartya Sen. La cui validità può forse essere confortata da questa sua frase: "Gli economisti fautori del mercato hanno spostato la loro attenzione dalla libertà all'utilità, ma questo ha avuto un prezzo: è stato messo da parte il valore centrale della libertà stessa" (p.33).

 

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