Gli italiani spesso si
lamentano del servizio sanitario senza rendersi conto dei grandissimi
vantaggi che esso comporta, almeno stando a due parametri: quello
dell'Organizzazione mondiale della Sanità, che colloca al secondo posto
il nostro Ssn tra tutti quelli esistenti e la statistica sul prolungamento
della vita media che ci ha portato in qualche decennio, anche in questo
caso, al secondo posto nel mondo. Naturalmente questo non significa
affatto che disfunzioni, pesantezze burocratiche, malasanità non si
facciano sentire anche da noi, ma non è infondato il timore che le cose
siano destinate a peggiorare anziché migliorare. Per più di una ragione
che elencherò schematicamente. La prima discende dal programma del
centrodestra, imperniato su una diminuzione del peso fiscale e su una
privatizzazione dei servizi più larga possibile. Le due istanze sono
collegate: il cittadino paga meno imposte e riceve meno dallo Stato ma col
risparmio effettuato acquista quel tanto di «bene sanità» (in genere
accendendo una assicurazione) che reputa individualmente necessario.
Servizi medici essenziali continuerebbero ad essere erogati gratuitamente
alle fasce meno abbienti da strutture pubbliche, peraltro con
finanziamenti fortemente decurtati..
Peccato che questo schema non funzioni. I progressi terapeutici e
diagnostici e, soprattutto, il prolungarsi dell'età media generano, con
l'avanzar degli anni, un volume di spesa per individuo che neppure chi
appartiene alle fasce medio alte di reddito è in grado di sostenere. La
situazione degli Usa, dove invano Clinton cercò di introdurre il Ssn, è
esemplare. La spesa è la più alta del mondo (13,9 sul Pil, di cui il 6,5
di provenienza pubblica, essenzialmente per i poveri e per gli anziani) ma
circa 40 milioni di cittadini sono privi di qualsiasi copertura perché
non in grado di pagarsi una delle tante assicurazioni private, le quali, a
loro volta, lucrano buoni profitti in quanto rifiutano di assicurare gli
anziani, per non rimborsare le spese statisticamente concentrate negli
ultimi anni di età.
Ma è la situazione inglese che meglio serve a darci uno scenario temibile
anche per l'Italia. L'Inghilterra si fornì per prima di un Servizio
sanitario pubblico, concepito nel 1948, subito dopo la guerra, dal
liberale Beveridge e dal laburista Bevan: per lungo tempo fu l'orgoglio
del Welfare britannico, fino a quando la signora Thatcher non sedusse i
suoi concittadini con la diminuzione delle tasse e i tagli al bilancio.
Blair non è ancora arrivato a sanare lo sfascio che ne è seguito.
L'Inghilterra è, infatti, oggi il fanalino di coda in Europa per spesa
sanitaria, con il 6,8 del pil (in Italia è del 7,6). Anni di mancati
investimenti si riflettono su strutture sempre più inadeguate, le liste
di attesa arrivano persino a sei anni e nel frattempo le statistiche ci
dicono che i cittadini britannici hanno la mortalità più alta fra i
Sette Grandi per malattie respiratorie, tumorali e cardiache.
Noi rischiamo di arrivare a performances altrettanto negative attraverso
il federalismo fiscale che per la Sanità entra in vigore quest'anno. Un
recente convegno della facoltà di Economia di Tor Vergata (vedi
CeisNewsletter, aprile 2001) ha dimostrato a iosa i trabocchetti nei quali
rischia d'incorrere il passaggio dal centro alle Regioni. Ecco qualche
estratto: «L'esperienza internazionale dimostra che ove si è ridotta
l'entità dei trasferimenti dal governo centrale alle regioni è risultato
progressivamente più difficile imporre ai servizi regionali il rispetto
degli standard di servizio» (prof. Paganetto); «Anche se formalmente il
Servizio sanitario continuerà ad essere nazionale... la sanità italiana
sarà più che mai un sistema a macchie di leopardo con effettive
differenze di trattamento e di copertura per i cittadini...il federalismo
fiscale sostituisce i trasferimenti centrali con un sistema di
compartecipazione alle imposte... esso implica che il gettito regionale
rimanga legato al Pil... mentre la spesa regionale sanitaria cresce
storicamente (per le ragioni suesposte, ndr) ad un ritmo superiore al
Pil... è possibile che le regioni (figuriamoci quelle più povere di
gettito a cominciare dal Mezzogiorno!ndr) non siano più in grado di
garantire i livelli attuali di offerta sanitaria... Si renderebbe
necessario ridurre i livelli di copertura sanitaria pubblica o, in
alternativa, un aumento delle aliquote di compartecipazione ovvero un
aumento dell'Irap, abbandonando l'ipotesi di riduzione della pressione
fiscale» (prof. Castellano, Confindustra). Forse dovremmo davvero pensare
alla salute, prima che sia troppo tardi.
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