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Usa,
addio all'ospedale dei poveri
dal nostro inviato VITTORIO ZUCCONI, in La Repubblica del 27 giugno 2001
WASHINGTON - Datemi i vostri miserabili, i vostri oppressi,
le vostre masse accalcate, è scritto ai piedi della Statua della Libertà, ma
da ieri una riga andrebbe aggiunta: tenetevi i vostri malati poveri perché
nell'Ospedale America non ci sono più letti per loro. Ha chiuso anche a
Washington, nella capitale, il General Hospital, l'ultimo Lazzaretto per gli
ultimi lebbrosi della medicina privatizzata, per coloro che non possono
permettersi l'assicurazione medica.
Erano accolti soltanto qui, senza l'elettrocardiogramma alla carta di credito né
la Tac al libretto degli assegni. Costava troppo, era male organizzato, le
stanze erano divenute ospizi ed è tutto vero, tutto dimostrato nei conti della
città. Tutto è dimostrato nei conti della città. Ma non è stato facile
spiegarlo all'ultimo paziente sloggiato ieri mattina, a Ronald Ospey, messo per
strada a 65 anni con il suo bel diabete e una gamba già amputata.
Monumento esemplare al romanzo dickensiano della sanità in America, a quella
medicina che non vediamo mai dietro i telefilm rassicuranti e gli annunci di
scoperte prodigiose, il General Hosptal era realmente l'ultima frontiera per i
"miserabili" della Capitale, non per terapie miracolo, ma per le
piccole battaglie quotidiane della salute, il parto, il trauma, la ferita da
taglio, la visita pediatrica, la manutenzione della vita umana.
Nelle giornate delle grandi immigrazioni di afroamericani da Sud verso la
capitale, nel dopoguerra, duemila pazienti si erano affastellati nelle sue
corsie e generazioni di laureati in medicina e chirurghi destinati alle cattedre
universitarie e agli studi in Park Avenue avevano fatto qui il loro tirocinio di
guerra. Nella War Zone come la chiamavano, dove le battaglie erano combattute
spesso alla maniera di "Mash". «Mancava sempre qualcosa - ricordava
ieri Ronald David, un cattedratico di Harvard venuto qui a finire la sua
carriera - un ago, una siringa, un anestetico, ma non mancava mai lo spirito.
Qui si tornava a fare i medici e i chirurghi, non più i mercanti di medicina».
Ma nel tempo della grande sbornia privatista dopo la sbornia statalista, non
potevano che vincere i mercanti e i contabili, sopra i missionari in camice
bianco come questo professore, che ha deciso, non per caso, di farsi prete
cattolico a 60 anni, ora che l'ospedale ha chiuso. Alla fine dei suoi giorni, il
Lazzaretto alla frontiera della città ospitava appena 120 malati, quasi sempre
abbandonati a se stessi, perché non tutti i medici hanno il dovere di essere
santi e da quando il comune di Washington aveva smesso di pagare i conti, era un
miracolo se nella E.R., l'Emergency Room, cioè il pronto soccorso, a fare i
turni di guardia, c'era un studente di medicina. Costava 180 miliardi di lire
l'anno, quasi un miliardo e mezzo per paziente, la somma che ora il sindaco
Williams verserà a un consorzio di assicuratori privati che hanno giurato di
assistere tutti i malati senza polizza che si presenteranno negli altri ospedali
privati della città.
Ci credono in pochi, che le assicurazioni accetteranno di garantire qualcosa più
di un puntura di morfina, appunto come al fronte. E non ci credono soprattutto
coloro che, al fondo della scala sociale, sapevano che almeno in ogni città, in
ogni contea, ci doveva essere un ospedale obbligato ad accoglierli, per quanto
scalcagnato e male attrezzato come il DC General. «Anche se non ce ne servivamo
- raccontava Shelly Powers, che nelle sue sale parto ha messo al mondo sei figli
- ci addormentavamo sapendo che era lì, giusto in caso di necessità».
Non ci possono credere, perché dalla nascita degli Stati Uniti, loro si sentono
ripetere che presto anche la nazione più ricca del mondo che progetta scudi
spaziali da 80 mila miliardi l'anno e produce film che ormai costano
regolarmente il doppio di questo ospedale, avrà un servizio sanitario per
tutti. Mille volte è sembrato che il traguardo fosse vicino, con i
rooseveltiani negli anni ‘30, con Johnson nell'ora della Grande Società e poi
con i Clinton, Billy e la Hillary, che arrivarono a Washington brandendo il loro
"contratto" con l'elettorato, la mutua per tutti, che la signora portò
trionfalmente, rilegato in pelle blu scura, in Parlamento nel 1993 e là ancora
giace, morto e sepolto.
C'erano 36 milioni di americani, all'inizio del 1992, senza alcuna forma di
copertura sanitaria. Ce ne sono 44 milioni oggi, un milione in più all'anno.
Nel "buon cuore" del nuovo Presidente Bush, l'uomo che aveva promesso
compassione, non ci può essere posto per un sistema sanitario nazionale che
lui, il suo partito, e i suoi elettori considerano l'ultima incarnazione del
bolscevismo, come quello che i vicini del Nord, gli "stalinisti"
canadesi, hanno adottato da anni. Persino un mitissimo progetto di legge per la
"Carta dei Diritti dei Pazienti" che sta faticosamente arrampicandosi
in Senato spinto dal democratico Ted Kennedy e dal repubblicano John McCain, per
dare ai malati qualche ricorso legale contro la tirannide delle assicurazioni
che giocano a Dio concedendo cure in base ai premi versati, fa orrore alla
Destra. Giorgio II Bush ha già promesso di fermarlo con il suo veto
presidenziale, semmai diventasse legge.
Bush preferisce fare appello alla carità delle organizzazioni religiose, che già
fanno moltissimo, e invocare il totem del mercato, che troverà il giusto
equilibrio anche sulla piazza della salute dove si genera una spesa annuale di
un trilione di dollari, oltre due milioni di miliardi di lire, in America, e
dunque dovrebbe attirare i mercanti. Ma quello che decenni di storia hanno
dimostrato, e che la caduta dell'ultimo lazzaretto di Washington simboleggia, è
che il mercato, nell'economia della salute, non funziona affatto. Che non ci
sono profitti legittimi da fare nella cura di quei 44 milioni di lebbrosi senza
polizza. E non c'è neppure alcun profitto politico, perché i poveri non
votano, non fanno base. Fanno soltanto, e neppure sempre, pena.
Da oggi, comincia dunque per i malati del ghetto la corsa dell'ambulanza tra i
pronto soccorso degli Ospedali, che in altre nazioni si attribuisce alla cattiva
sanità statale. Chi vincerà, vivrà. I poveri non votano e neppure votano i
morti, tranne che a Chicago o in Florida dove si fanno spesso eccezioni, e
l'America che vota preferisce che il sistema resti così, nella cultura Far West
del «peggio per te» che gli spot e le lobby delle grandi compagnie di
assicurazione coltivano. Guai ai vinti, e guai a quei venti malati di Aids che
sono stati espulsi dal Washington DC General Hospital, insieme con i bambini e
il diabetico. Mentre a New York l'Onu celebrava compiaciuto e tronfio il giorno
della lotta contro l'Aids in Africa.