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Il Rapporto Annuale 2004
La prima riguarda la decisione di non aprire il Rapporto con l'abituale ricapitolazione degli eventi succedutisi negli ultimi dodici mesi (federalismo e nuovo ordinamento giudiziario, riforma pensionistica e riforma fiscale, appuntamenti elettorali europei e incubi da terrorismo diffuso, rapimenti o assassini iracheni e paure di impoverimento dei ceti medi, retorica sulla Carta costituzionale europea e lutti vissuti collettivamente). Il Censis non ritiene utile aggiungere la propria voce su tali eventi, anche perché ne dà un parere severo: non lasciano traccia reale, non fanno tessuto sociale, non fanno continuum storico.
Da qui la seconda innovazione di lettura: il richiamo forte dei processi "di ieri e dell'altro ieri", i processi cioè che il Censis ha evidenziato negli anni: il sommerso, la forza della piccola impresa, la proliferazione del lavoro individuale, il peso determinante del localismo economico, il crescente carattere di medietà dei comportamenti di consumo, la tendenza a vivere "altrimenti" che nello sviluppo o nel declino, la ricerca di una più alta qualità della vita, la predilezione per l'insediamento nei piccoli comuni. Tutti processi che oggi permettono un periodo di assestamento visto come riaggancio alle nostre lunghe derive di evoluzione, ivi compresa una forte tendenza ad una qualità dei comportamenti orientati ad una sorta di mix fra sobrietà e risicatezza, molto tipico della nostra storia nazionale.
La terza diversità di lettura è quella di mettere al centro della riflessione i tre temi che secondo il Censis terranno banco nei prossimi anni: il ritorno dell'importanza del sacro, ancorché degradato, in ragione specialmente del contrasto di fondo con culture e prassi di tipo fondamentalista; il disagio etico causato dalla sempre più orgogliosa artificialità e autoreferenzialità di tecnica e diritto, come verosimilmente vedremo nei prossimi mesi con le vicende della legge sulla procreazione assistita; la crisi della dimensione temporale della vita collettiva e la crescita di importanza della dimensione spaziale (in ragione della crescita di rilievo della logistica, della delocalizzazione di impresa, della ripresa dell'agricoltura, dell'agriturismo, del paesaggio, ecc.).
La complessità di una lettura intrecciata fra l'assestamento di lunga deriva e questi tre temi nuovi comporta una quarta innovazione di lettura, con la proposta di evitare di fare "pensiero dell'intero", e di fare "pensiero in alto", ma di restare in modo determinato sui processi reali:
a) Evitare anzitutto di usare categorie per capire il nostro livello di reddito (possiamo esser tutti ricchi, stiamo tutti impoverendo), ma distinguere fra componenti in impoverimento (quella dei percettori di reddito fisso) e la componente in arricchimento (i patrimonializzati).
b) Evitare di parlare di crisi della classe dirigente nel suo complesso; mentre è necessario ammettere che ci sono ormai diversi sottoinsiemi di classe dirigente: (nella medio-grande industria, nei grandi gruppi bancari, nel terziario avanzato, nelle amministrazioni pubbliche specie periferiche, nei corpi di sicurezza collettiva) dove stanno crescendo professionalità più complesse.
c) Non farsi prendere dalla tentazione di una eccellenza attuale o futura mentre è più utile lavorare sulla crescita di buone e diffuse "competenze" intermedie.
d) E' distorcente pensare alla potenziale egemonia di una classe sociale (i discorsi oggi correnti sulla neoborghesia) mentre è più utile scovare, sollecitare, accompagnare i segmenti che nelle varie realtà sociali e locali sembrano più vogliosi di movimento.
e) E' ambiguo e fragile privilegiare le coalizioni politico-elettorali; meglio sarebbe capire quali siano le loro capacità di interpretare la nuova composizione sociale ed i blocchi d'opinione in cui essa si condensa.
f) Ed infine, sul piano istituzionale evitiamo di costruire, in Europa come nel federalismo interno, delle macchine pubbliche a paradigma gerarchico e piramidale, mentre è tempo di valorizzare il nostro policentrismo di soggetti, procedure, strutture istituzionali.
Ne risulta un'ultima e in questo caso radicale innovazione di lettura: la domanda se sia maturo il momento che la società sviluppi una propria capacità di autorganizzazione. In questo senso il Censis si stacca dall'idea che il motore della società sia lo spontaneismo e lo individua invece nella sua potenziale "artificialità", cioè della sua continua capacità di riflettersi e di ricalibrarsi. Immaginazione forse ambiziosa ma che potrebbe rivelarsi realistica se la crisi dell'offerta politica spingesse ancor più la società a badare a sé stessa.
Il sistema di welfare
La domanda di salute si caratterizza per una accresciuta responsabilizzazione individuale, è infatti il 54,4% degli italiani ad indicare come le corrette abitudini siano determinanti dello stato di salute. Questa consapevolezza trasversale si caratterizza però in modo vario e talvolta contraddittorio: l'idea di dieta sana si associa solo nel 22,7% alla dieta varia, mentre nel 28,1% dei casi al cibo leggero, al cibo che non fa male nel 27,4%, e al cibo che non ingrassa nel il 19,4%. A questa varietà di interpretazioni sembra riconducibile anche la crescita dei prodotti biologici (consumati da circa il 50% delle famiglie italiane), e quelli tipici regionali (l'82,2% consuma formaggi tipici locali).
Il soggetto pubblico ricopre nel campo dell'assistenza agli anziani non autosufficienti un ruolo complessivamente marginale, seppure con le differenziazioni territoriali che caratterizzano il sistema di offerta sociosanitaria italiano: del 31,5% degli anziani che ricevono una qualche forma di aiuto, solo nel 5,5% dei casi sono gli operatori dei servizi pubblici a fornirlo. Gli andamenti demografici mostrano per altro che le reti dell'assistenza familiare, a tutt'oggi fondamentali, sono destinate a indebolirsi, mentre gli anziani non autosufficienti, per quanto l'incidenza della disabilità non sia una costante, aumenteranno inevitabilmente, ed è previsto che saranno circa 2,7 milioni nel 2010. Altri paesi europei hanno predisposto misure ad hoc per fronteggiare questa emergenza, mentre in Italia il dibattito è ancora aperto, anche se il 90% circa degli italiani ritiene imprescindibile il ruolo del soggetto pubblico nello sviluppo di politiche adeguate per l'assistenza a lungo termine.
La povertà relativa in Italia non aumenta (2.360.000 famiglie, 10,6% dei nuclei in Italia) ma muta, allargandosi a tipologie familiari in grande crescita negli ultimi dieci anni (gli anziani e i nuclei monogenitoriali) che affiancano sezioni di popolazione tradizionalmente più esposte (i nuclei numerosi di cui, il 10,3% sul totale di questa tipologia familiare al Nord, 10% al Centro e ben il 29,8% al Sud). Questo radicamento su segmenti a rischio avviene in un Paese dove nell'approccio al problema della povertà, l'apparato di politiche sociali è caratterizzato da disarticolazione e disarmonia di interventi, e fatica a intercettare lo zoccolo duro della nuova marginalità. Infatti, a differenza di quanto accade nel resto d'Europa, solo in Italia e in Grecia manca una misura universalistica di contrasto alla povertà, e all'indomani della fine della sperimentazione del Reddito minimo d'inserimento ancora nulla si muove all'orizzonte per quanto concerne l'attivazione del Reddito di ultima istanza.
La graduatoria delle regioni per creazione di valore sociale, inteso come sintesi della diffusione delle diverse forme di responsabilità sociale e dei neolocalismi anche produttivi, evidenzia in testa il Lazio seguito dalla Sardegna, dall'Umbria e dalla Toscana. Nelle amministrazioni regionali però è ancora radicato un modello piuttosto tradizionale di rapporto con i territori locali, non sorprende pertanto la brusca caduta della fiducia degli italiani nelle Regioni, visto che dal 2001 al 2004 la percentuale di italiani che vuole dare più potere alle Regioni si è ridotta dal 39% al 27,5%.
Solo l'11% degli italiani considera le pensioni il problema più importante che il Paese deve affrontare, lontano dall'inflazione (45%), dalla disoccupazione (34%) e dalla situazione economica (29%). Il 76% degli italiani è molto o abbastanza d'accordo con l'idea che l'ammontare della pensione erogata debba essere strettamente fondata sull'ammontare di contributi versati ed il 93% ritiene che occorra attivare un meccanismo di integrazione del reddito per disoccupati e percettori di bassi redditi nel caso in cui non siano in grado di pagare i contributi.
L’85
per cento in ansia per il terrorismo. Tv e telefonini, ecco le nuove abitudini
«L’Italia ha paura del futuro»
Rapporto Censis:
più insicurezza, timori sui prezzi. Si punta sull’acquisto di case Il
governatore Fazio: ineludibile la riforma del Welfare, lo dobbiamo ai giovani
dal Corriere - 4 dicembre 2004
Paura del futuro, dei prezzi e del terrorismo, corsa all’acquisto di case: ecco l’Italia del Censis. Il governatore Fazio: ineludibile la riforma del Welfare, lo dobbiamo ai giovani. Alle pagine 2 , 3 e 5
UN PAESE IN 4 SCENE
La quotidianità e il domani Le (poche) certezze degli italiani
Il Rapporto 2004 del Censis descrive un’Italia incerta e titubante, che «gioca in difesa», una società su cui pesano le incertezze economiche e le tensioni internazionali. Che preferirebbe la vita in una piccola città alle comodità delle metropoli. Ma è anche un’Italia che non solo perde ma anche trova. Ha trovato, per esempio, che il sacro e il senso della spiritualità sono ancora valori su cui appoggiarsi. Oppure che il progresso scientifico desta più curiosità che timore. E siamo un popolo che offre anche conferme, come la propensione a patrimonializzare le proprie entrate. Gli stipendi non salgono? Ecco allora che compriamo case (grattando il fondo del barile delle nostre risorse) per trovare certezze e forme di rendita sicure. E poi il rapporto con la tecnologia, quella di tutti i giorni. Come i telefonini. Non ne possiamo fare a meno, ora li vogliamo sempre più sofisticati e multifunzione. Salvo poi limitarci a usarli per le normali telefonate, per gli sms o tutt’al più per scattare qualche foto. Perché non li sappiamo usare e perché c’è il timore che queste funzioni siano troppo costose.
ROMA - Ci sono le bombe delle guerre e gli attacchi ...
ROMA
- Ci sono le bombe delle guerre e gli attacchi terroristici nel mondo che ci
mettono paura, l’85% degli italiani ne ha paura. Ma la verità è che la mancanza
di fiducia nel futuro c’è anche molto per colpa dei problemi del quotidiano. Un
esempio? E’ il 45% delle persone che in Italia guarda con timore a un aumento
irrefrenabile dei prezzi che non permette di arrivare alla fine del mese. In
Europa questa paura ce l’ha, in media, appena il 18%. Per questo il domani ci
angoscia. Per questo il Censis ha scattato la sua trentottesima fotografia del
nostro Paese e ha decretato: l’Italia non guarda avanti, non ce la fa,
preferisce voltarsi a vedere ieri, l’altro ieri. Un modo per difendersi. Del
resto sono molto anni che il Censis pone agli italiani la stessa domanda: avete
fiducia nel futuro? E nel suo rapporto sull’Italia nel 2004, presentato ieri, ha
scoperto che dal 2001 a oggi i pessimisti sono cresciuti di 8 punti percentuali.
Non solo: sono anche diminuiti gli ottimisti (-9%) e oggi è appena il 45% che
dichiara di avere aspettative migliori per i prossimi cinque anni.
RISCOPERTA DEL SACRO - A dirla così, abbiamo riscoperto il sacro, sembrerebbe
anche questo un tentativo per combattere la sfiducia nel futuro. In realtà,
però, Giuseppe De Rita, segretario generale del Censis, ci spiega che abbiamo
riscoperto il sacro per colpa della violenza che ce lo ha riproposto e,
garantisce, questo ritorno sarà un tema importante per il futuro. Dice, infatti:
«Anche se degradato il sacro ritorna, non si può evitare. Abbiamo costruito la
nostra vita sulla soggettività (rafforzata dal mito della tecnica e dalla
potenziale illimitatezza del produrre nuovi beni) che, tipicamente razionale, si
trova di fronte un mondo che riapre il discorso del sacro per i kamikaze che
sacrificano se stessi e per gli sgozzatori che sacrificano vittime innocenti.
Questo per noi rappresenta un esame di coscienza».
LA
CORSA AL MATTONE - O, meglio: l’ansiosa rincorsa dei ceti medi verso
l’immobiliare. Come se mettere i soldi nei mattoni per comprare una casa ci
potesse garantire un po’ di sicurezza. Per capire la dimensione del fenomeno:
ogni giorno (lavorativo) in Italia vengono spes i 550 milioni di euro per
comprare una casa. Il 24% di questi soldi vengono pagati in contanti. Non è una
novità di quest’anno, anzi. L’anno scorso le abitazioni acquistate dagli
italiani sono state oltre 910 mila. Per la fine del 2004 si stima che saranno,
invece, 870 mila. Facile disegnare il profilo dell’acquirente: le famiglie (solo
l’8% dei compratori sono single) che nel 68% dei casi appartengono alla fascia
economica media e per il 16,5 addirittura alla fascia medio-bassa.
TELEFONINI SENZA «RETE» - Il cellulare lo usano praticamente tutti in Italia
(oltre il 77% delle persone nel 2004, il 2,3% in più rispetto al 2003). Ma non
ci voleva certo il Censis per saperlo. Quello che scopriamo con il rapporto di
quest’anno è, invece, come gli italiani usano il cellulare. O, meglio, non usano
visto che quasi nessuno riesce a vincere la tentazione di acquistare il modello
di ultimissima generazione senza, però, avere la più pallida idea di come
usarlo.
Per capire: è soltanto il 15,3% dei possessori di telefonini che conosce
l’esistenza dei videomessaggi e appena il 6,2% che questi videomessaggi poi li
invia veramente. Ma ancora peggio è l’uso della "rete": tutti i cellulari di
ultima generazione sono dotati di collegamento con internet. Inutilmente:
praticamente nessuno, infatti, lo utilizza.
CONSUMI «ACQUATTATI» -
La crisi economica si fa sentire nelle famiglie italiane. La loro voglia di
consumare resta immutata, ma la carenza di risorse la restringe, pronta a
balzare di nuovo appena le circostanze lo consentiranno. Nel frattempo, rileva
il Censis, la domanda «appare acquattata più che depressa» e seleziona i beni da
acquistare . E tra questi registrano un segno negativo l'abbigliamento (-1,8%),
le scarpe (-2,9%), gli alimentari (scesi da un »0,8 a un »0,5 per cento). In
calo anche il ricorso a servizi ospedalieri (-1,7%) e le cene al ristorante
(-0,1%); scendono infine i soggiorni in albergo (-1,7%) e le spese per
assicurazioni (-1,7%). Ma sono i consumi di tabacco a segnare l'arretramento più
forte con il calo del 6,1%. A compensare i ribassi di questo tipo di consumi ci
sono i beni per i quali si è speso come nel passato o in al cuni casi di più: in
testa le bevande non alcoliche (»2,1%) e quelle alcoliche (»3,5%). CRITICI CON
LA TV - Non è vero che guardiamo la televis ione subendo i programmi così, come
vengono. Parola di Censis. Che quest’anno ha scoperto che persino i giovani (uno
su tre) decidono quale telegiornale vedere scegliendo in base alla scaletta. Ma
c’è di più. Oltre 4 italiani su 10 (il 42,2%), infatti, non esita a spegnere
quello che un tempo era l’elettrodomestico più amato se nel fare zapping non
trova un programma che gli piace. E ancora: sono i giovani tra i 18 e i 29 anni
che più snobbano la tv e quelli che hanno studiato (il 93,4% di diplomati e il
91% dei laureati) si limita a guardarla 3 volt e la settimana. Alessandra Arachi
La corsa a vendere e
acquistare case
Il mattone ha preso il posto dei vecchi Bot
di DANIELE MANCA
Il
mattone come il Bot di venti anni fa. I titoli di Stato con rendimenti a due
cifre, sebbene falsi perché falcidiati da tassi di inflazione elevati, facevano
sentire al sicuro. Si potevano vendere nel giro di una mattinata. Rendevano il
conto in banca ricco e pingue. In poche parole massaggiavano l’animo rendendo
psicologicamente gli italiani meno poveri; e questo nonostante un Paese che si
indebitava e impoveriva al ritmo dei prezzi che correvano all’impazzata. Chiusa
definitivamente la stagione dei titoli di Stato, ancora vive le scottature della
Borsa tra scandali, new economy finta e 11 settembre, il richiamo del solido
vecchio mattone è sembrato irresistibile, tanto da usarlo come un grande Bot da
vendere e comprare. La prova è in tre numeri: gli italiani abitano nella casa di
proprietà nel 68,5% dei casi, il 10% la occupa a vario titolo, il 20% è in
affitto. Si tratta di dati sostanzialmente stabili negli ultimi anni. Le 800
mila compravendite medie annue registrate hanno quindi motivazioni diverse dal
semplice acquisto della casa nella quale abitare. Anzi, la componente di
investimento è stata determinante se negli ultimi anni sono rimasti circa sette
su 10 gli italiani che abitano in casa di proprietà. Il ceto medio, in tempi di
incertezza, ha riscoperto il mattone. A maggior ragione se al concetto di
investimento si è aggiunto il fatto di comprare un appartamento con una stanza
in più, coniugando messa al sicuro dei propri risparmi e miglioramento della
qualità della vita. I più audaci si sono lanciati in manovre ardite: già
proprietari hanno comprato un appartamento più bello e più grande, senza vendere
quello posseduto, lo hanno affittato e con il ricavato pagano il mutuo per la
nuova casa.
E così mattone e passione per la finanza degli italiani si sono sposati.
Trovarlo infatti un investimento che ha reso il 15% annuo. Quanti hanno iniziato
a crederci nel gennaio del 2001 e con 200 mila euro hanno comprato un piccolo
appartamento oggi lo potrebbero rivendere a circa 240 mila. Gli stessi soldi in
Borsa sarebbero oggi 140 mila. Niente male rispetto ai rendimenti asfittici dei
titoli di Stato o dei carissimi fondi che spesso non hanno garantito nemmeno il
capitale. E se il boom del mattone non dovesse durare? Beh, quella stanza in più
si potrà sempre affittare a peso d’oro allo studente o al professionista
pendolare. Altro che Bot.
FINITA L´ERA DELLE
ILLUSIONI
LUCIANO GALLINO
VOLENDO riassumere in una battuta la situazione del paese che emerge dal
rapporto del Censis, si potrebbe dire che esso è afflitto da una crescente
insicurezza socio-economica. Discutere se questa sia autentica oppure illusoria
non ha molto senso. Se le persone sono giunte a sentirsi insicure, guardano con
pessimismo al futuro prossimo, non hanno fiducia nella classe politica che in
quel futuro dovrebbe guidarle, si ha un bel sventolare sotto i loro occhi tutte
le statistiche disponibili per dimostrare che stanno meglio come non mai in
passato ? un caso che forse non si attaglia al nostro paese ? ma il loro senso
d´insicurezza non si ridurrà d´una virgola. Gli stati d´animo collettivi hanno
la stessa durezza della materia; se si vuole modificarli, non conviene ignorare
questa loro proprietà.
È finita l´era delle illusioni
BISOGNA provare a
trasformarli, a lavorarli, con utensili politici adeguati. Di certo non nasce
dal nulla, l´insicurezza socio-economica. Vi contribuiscono fattori particolari
e condizioni storiche. I primi sono avvertiti da tutti, e a mano a mano che si
concatenano destano inquietudini crescenti. Ci sono i figli che non trovano
lavoro, o trovano soltanto occupazioni saltuarie e malpagate. La fabbrica che da
mezzo secolo dava lavoro in città e che improvvisamente chiude, licenziando
qualche centinaio di lavoratori, perché qualcuno che sta a Trömso o a Boca Raton
così ha deciso. I piccoli negozi che spariscono, inghiottiti dai supermercati,
che però dopo qualche tempo chiudono anche loro perché il volume d´affari non
regge: lasciando nel paese un deserto. Gli amici Rossi che avevano investito i
loro risparmi in obbligazioni ed hanno perso tutto. L´innovazione tecnologica in
fabbrica o in ufficio che da un giorno all´altro ti mette davanti alla necessità
di cercare un altro lavoro o di passare le notti per aggiornarti. Gli immigrati
che certo sono utili però non si sa mai. La famiglia dove tutti i membri sono
stressati, a cominciare dalla donna che fa tre lavori in uno, col risultato che
a forza di discutere ad un certo punto ciascuno se ne va per conto suo e da una
famiglia di quattro persone vengono fuori altrettante famiglie con un solo
membro. Ciascuno più libero, ma di certo più insicuro. Si moltiplichino per
alcuni milioni simili esperienze, che molti fanno di persona, altri sentono
raccontare da parenti e amici, altri ancora vedono in tv, e l´insicurezza
diffusa degli italiani comincia a trovare qualche spiegazione.
A determinare la quale concorrono peraltro nel profondo anche fattori storici.
Coloro che hanno oggi trent´anni o più sono vissuti in un´epoca, l´hanno
respirata, nella quale coesistevano due grandi sistemi di sicurezza sociale,
anche se non si poteva godere dei benefici di entrambi. Uno era quello inventato
dai conservatori inglesi durante la guerra, quindi perfezionato e sviluppato sul
continente dal capitalismo renano, dai nostri governi a maggioranza
democristiana, dal dirigismo dei francesi che supera indenne ogni cambio di
orientamento politico. L´altro sistema era quello offerto a est dai paesi del
socialismo reale, sperimentato direttamente da pochissimi, mitizzato e
vagheggiato da molti perché lo si credeva più esteso, più protettivo, in una
parola erogatore di maggiori sicurezze alle classi sociali che in precedenza ne
avevano avute ben poche.
Da una dozzina d´anni e più il sistema di sicurezze che prometteva il socialismo
reale è scomparso, insieme con i regimi che lo sostenevano. Il sistema europeo,
il modello europeo di sicurezza socio-economica, è palesemente sotto attacco da
parte di quasi tutti i governi Ue. Con metodo, con rigorosa perseveranza, in
ciascun paese della Ue un giorno se ne smonta un pezzo, l´indomani si riduce il
perimetro delle sue prestazioni, quindi si privatizzano le sue funzioni
adducendo cause ora reali ora pretestuose. A volte per motivi legittimi, altre
volte per motivi che è bene il pubblico ignori. Come poteva mai illudersi, la
politica, che la repentina scomparsa di un sistema di sicurezza sociale pur solo
immaginato, ma concretamente esistente per oltre quarant´anni appena al di là
dei confini dell´Europa disegnati dalla guerra, e il correlativo sgretolamento -
per ora parziale, ma nelle intenzioni totale - del sistema occidentale, non
incidesse in profondità nell´animo delle persone, stratificando in esso ispidi
sedimenti d´insicurezza sociale ed economica?
Naturalmente tutto ciò, i fattori storici e quelli contingenti e quotidiani,
significa che non siamo soli. L´insicurezza socio-economica che il Censis ha
rilevato in Italia attanaglia anche i tedeschi come i francesi, i britannici
come gli olandesi o gli svizzeri. La letteratura sulla globalizzazione
dell´insicurezza socio-economica è amplissima. Peraltro sulla politica questo
tema non pare aver avuto finora alcuna presa, in nessun paese. Non senza
ragione, poiché una politica che ponesse al proprio centro il compito di
produrre più sicurezza socio-economica in tempi che di giorno in giorno sembrano
alla maggior parte delle persone sempre meno sicuri, dovrebbe fare i conti con
il fatto che essendo globale il problema, anche i tentativi di soluzione
dovrebbero essere faticosamente cercati a livello globale. Al minimo a livello
europeo. Magari prima che tale forma di insicurezza ricominci a svolgere il
ruolo cui ha sempre adempiuto da un secolo e passa a questa parte. Quello di
cattiva consigliera.
Il rapporto del
Censis diffuso l'altro ieri documenta
questa condizione di fragilità e di mutevolezza del paese
Il paese dei sogni si
sta svegliando
di EUGENIO SCALFARI
da Repubblica web - 5 dicembre 2004
Le statistiche, si sa,
vanno interpretate e così i numeri che le compongono e che per loro natura
dovrebbero rappresentare realtà oggettive si trasformano invece in soggettive
aspettative. In una società esposta all'influenza dei "media" questa
soggettività dei numeri diventa dominante e accresce l'instabilità e
l'insicurezza dell'insieme.
Il rapporto del Censis diffuso l'altro ieri documenta questa condizione di
fragilità e di mutevolezza del paese: una condizione peraltro analoga a quella
riscontrabile in tutta Europa, società ricche ma stagnanti, immemori del
passato, immerse nel presente, timorose del futuro. E anche profondamente
contraddittorie. Per certi aspetti addirittura schizofreniche.
Ricordate uno degli
slogan che nel Sessantotto ebbe maggiore eco e popolarità? Tutto e subito,
reclamavano i giovani di allora. Ma a chi indirizzavano questa imperativa
richiesta? Non allo Stato che volevano abbattere, non ai partiti che
disprezzavano, non alla famiglia di cui svelavano le antiche ipocrisie, non alla
scuola alla quale avevano tolto fiducia. Neppure alla religione cui avevano
cessato di credere.
In realtà non era neppure una richiesta. Era un sogno che, come la maggior parte
dei sogni, non si avverò per la semplice ragione che non poteva avverarsi. Il
"tutto e subito" è una solenne e infantile sciocchezza che tuttavia si tramanda
di generazione in generazione. La differenza dell'oggi sta nel fatto che quel
sogno non è più soltanto appannaggio della gioventù ma è diventato un sentimento
che pervade la società intera. Nei giovani poteva rappresentare una spinta per
conquistare il futuro, ma diffusa a tutti i livelli di età e di condizione
sociale si trasforma in emotiva e globale fragilità. In predisposizione a essere
manipolati dalla demagogia. In passiva e inerte attesa del miracolo, del santo
protettore, del principe azzurro sul bianco cavallo, del giustiziere che
vendicherà i torti e instaurerà la vera giustizia. Insomma del messia che
anticipi nel mondo di qua l'oltremondo delle beatitudini.
***
Mi venivano questi pensieri, alquanto sconfortanti lo confesso, mentre sfogliavo le tante pagine e scorrevo le molte tabelle del rapporto Censis e il commento-sintesi che ne fa Giuseppe De Rita, interprete autentico dei numeri che gremiscono quelle pagine.
De Rita lamenta che gli
italiani abbiano cessato di sognare. Indica anche la data di questo brusco
risveglio: il 1993. Da allora, secondo il segretario generale del Censis, gli
italiani ormai privi di sogni si sarebbero ripiegati su loro stessi e il declino
sarebbe incominciato.
Ma perché proprio nel 1993? Che cosa accadde di particolare in quell'anno, a
parte la soppressione della Cassa del Mezzogiorno? Credo sia evidente a quali
eventi si riferisca De Rita: il ciclone di Mani pulite, la denuncia della
corruzione diventata sistema, il crollo delle forze politiche più compromesse
nella generale corruttela. Infine la nascita del berlusconismo politico dopo i
fasti del berlusconismo mediatico. Furono queste la cause della fine del sogno?
Secondo me De Rita si
sbaglia di grosso. Ammesso che negli anni precedenti, i "favolosi" anni Ottanta
del craxismo e del forlanismo, ci fosse un qualsiasi sogno degno di questo nome,
nei Novanta prese forma un sogno ancor più illusionistico e ancor più demagogico
e populista. Ancora più denso di contraddizioni, di scorciatoie, di piccole e
grandi furberie, di enormi egoismi, di attese miracolistiche. Dopo i giustizieri
che parlavano con le carte bollate e in nome della legge (che furono tripudiati
per un anno e poi rapidamente ripudiati) arrivava finalmente il giustiziere
vero, quello che avrebbe ridotto lo Stato in mutande, tagliato le tasse con
falce affilata, abolita la burocrazia parassitaria, messi fuori causa i partiti,
reso inutile il Parlamento, arricchito il paese come aveva già arricchito se
stesso. Infine instaurato il regno della felicità o perlomeno dato a tutti lo
strumento per arrivarci: una libertà senza impedimenti, senza regole, senza
steccati da superare o almeno da rispettare.
Non è stato un sogno anche questo, amico De Rita? Gli italiani sono passati da
un sogno all'altro. E del resto il principale protagonista nei sogni degli anni
Ottanta non era il padre putativo e perfino il consocio del protagonista dei
sogni negli anni Novanta? Tutto si tiene a questo mondo.
Dovessi scegliere tra
quei due sogni, francamente rifiuterei entrambi. Per mia fortuna faccio parte di
quel vasto numero di concittadini rimasti svegli e privi di sogni, che cercarono
allora e cercano oggi di testimoniare la verità dei fatti, le menzogne
demagogiche di allora e di oggi, la dilapidazione delle risorse nazionali, la
corruttela di oggi e di ieri.
No. Noi non abbiamo fatto parte di quelle compagnie.
Non abbiamo nulla da rimpiangere e nulla da condividere né con i sogni di ieri
né con quelli di oggi.
Noi, per dirla tutta, alla virtù dei sogni non crediamo anzi ne diffidiamo.
Preferiamo tenerci stretti ai fatti e alla fermezza delle convinzioni.
* * *
Vediamo qualche cifra
tra le tante del rapporto Censis e cerchiamo di capire se abbiano un senso e
indichino una direzione.
Il futuro è sempre più nero? Gli ottimisti erano il 54 per cento nel 2001 e sono
scesi (di 9 punti) al 45 per cento nel 2004. Dunque aumenta il pessimismo. Ma
non di molto, con tutto quello che accade intorno. Infatti i pessimisti sono
appena il 14 per cento. Sono aumentati rispetto al 2001 (di 8 punti) ma non più
di tanto.
È più intrigante la domanda sul "welfare" e le tasse. Il 53,5 per cento preferisce meno tasse anche se peggiorano i servizi pubblici. Quindi hanno fiducia nelle proprie capacità individuali. Meglio soldi oggi che più assistenza e più previdenza domani. Ma contemporaneamente si contraddicono: il 49,4 afferma che i servizi sanitari e previdenziali sono fonte di serenità e lo 0,9 addirittura preferisce più tasse ma migliori servizi. Il totale di questi due numeri fa 50,3. A chi dobbiamo credere?
Ancora: il 60,7 non ha
fiducia nella politica ma il 60,2 ritiene che il voto è determinante per il
futuro del paese. Il voto non è un fatto politico? Ancora qualche numero. Il 90
per cento chiede che le istituzioni pubbliche tutelino i più anziani. L'88 per
cento è soddisfatto degli ospedali pubblici. Un plebiscito. O no?
Fin qui orientarsi è quantomeno arduo perché gli interpellati dicono tutto e il
contrario di tutto. Ma ci sono poi cifre più eloquenti quando si passa dai
sentimenti e dalle aspettative a questioni più concrete.
Evasione e sommerso. Secondo il Censis (e secondo l'Agenzia delle Entrate che ne
sa ancora di più) 200 miliardi di euro sono la cifra sottratta agli occhi del
fisco. Ciò significa che per ogni 100 euro accertati ce ne sono 46 occulti.
Che fine fanno le
ricchezze del paese? Immobili, beni rifugio, rendite finanziarie. In una parola,
patrimonio.
Poiché il reddito ristagna, i rischi delle iniziative sono troppi, meglio
rifugiarsi in beni patrimoniali solidi. Nel 2004 sono state comprate 870 mila
nuove abitazioni per una cifra giornaliera di 550 mila euro. Giornaliera.
Scrissi qualche giorno fa che l'attenzione si sta spostando dal reddito al
patrimonio, dalla dinamica alla staticità. Il Censis lo conferma. Per stanare il
sommerso e farlo contribuire alle risorse comuni la strada di abbassare (di
pochissimo) le aliquote sul reddito non serve a niente. Bisogna tassare la
ricchezza sui grandi patrimoni perché è lì che si nasconde il sommerso, il
riciclato, il mafioso o più semplicemente il professionista, l'artigiano e
l'oste che non rilasciano fattura. Pesci piccoli ma tanti, ma soprattutto pesci
grossi e grossissimi anche se meno numerosi. Pochi alla luce del sole, ma tanti
che si sono resi invisibili.
***
ll centrodestra ha accolto con favore il documento di De Rita; il centrosinistra anche. Hanno ragione tutti e due perché in quel documento ce n'è per tutti. Ma una verità emerge comunque: il miracolo atteso nel 2001 non si è verificato.
I delusi sono molti. Ma
oggi, dicembre 2004, gli stessi che li hanno fin qui delusi gli promettono che
l'appuntamento col miracolo non è stato annullato ma soltanto spostato d'un paio
d'anni in avanti: avverrà senza fallo nel 2005 e soprattutto nel 2006.
Ora si tratta di vedere quanti italiani saranno disposti a chiudere gli occhi e
sognare ancora oppure se resteranno ben svegli senza farsi ipnotizzare.
(5 dicembre 2004)
IL
CENSIS
Noi italiani tra
speranze e polemiche
di
GIUSEPPE DE RITA
dal Corriere - 5 dicembre 2004
Ogni
volta che qualcuno meritoriamente si applica ad approfondire la sostanza reale
della società italiana, scatta la compresenza spesso polemica fra i due
paradigmi interpretativi che ci accompagnano ormai da decenni: da una parte
quello che ci vuole una nazione labile, insicura e piuttosto furbastra;
dall’altra parte il paradigma secondo cui al fondo delle nostre insicurezze e
furbizie resta operante un popolo saggio, che sa badare a se stesso. Questa
contrapposizione è stata negli ultimi anni accresciuta dalla tentazione di una
parte della cultura politica italiana di sfruttare anche da noi quel concetto di
«right nation» che ha molto corso negli Usa e che ha molto giocato nelle ultime
elezioni presidenziali, anche perché reso potente dalla sua molteplicità
semantica, potendo essere interpretato come nazione giusta, di destra, convinta
di avere sempre ragione, determinata a fare destino nazionale collegando memoria
e futuro. Applicarlo all’Italia potrebbe aprire uno spazio di volontarismo
politico teso a corrispondere anche al bisogno delle masse di non restare senza
guida e destino nazionali.
L’operazione riuscì ai nostri padri risorgimentali, perché seppero far vivere il
passato in un sogno di futuro, connettendo le citazioni petrarchesche di
Leopardi all’unificazione del Paese e alle ambizioni coloniali crispine; ma i
loro figli ed i loro nipoti non ci sono riusciti, e da tempo ormai non sappiamo
fare quella coniugazione fra memorie e speranze che è elemento costitutivo di
una nazione. Restiamo un popolo senza nazione.
La
cosa non dovrebbe scandalizzare se si pensa al peso che i «popoli» (dagli irpini
ai liguri) hanno avuto nella lunga storia italiana; e se si pensa che il modello
di sviluppo degli ultimi cinquant’anni è stato poco di nazione compatta e molto
di popolo; legato cioè non alla progettualità di pochi, ma ai comportamenti
vitali di milioni e milioni di italiani, che hanno fatto piccola impresa, lavoro
autonomo, mobilità territoriale, soggettività dei consumi, famiglia come
azienda, diffuso sviluppo locale. Con ciò però abbiamo accentuato la nostra
dimensione di popolo e al tempo stesso quella caratteristica molecolare, a
granelli di sabbia, che ci rende tutti prigionieri delle nostre solitudini,
paure, insicurezze, preoccupazioni, di cui troviamo conferma quando le ricerche
esplorano le nostre individuali opinioni.
Per
fortuna in questa nazione labile vive anche un popolo saggio, che è la corretta
traduzione italiana di quell’ebraico «goy tzadik» che in America era prima stato
tradotto come «rightous», politicamente poi strumentalizzato nel termine
semplificato di «right». Siamo un popolo saggio perché adattivo e quindi
elastico di fronte all’accavallarsi di crisi e sfide; perché capace di
assestarsi sulle sue radici di sempre (il sommerso, la piccola impresa,
l’innovazione di processo e di prodotto, il localismo) avvertite come terreno
solido nei periodi di fibrillazione, come è avvenuto negli ultimi due anni di
annaspamento di fronte all’aumento, percepito come raddoppio, del costo della
vita; perché capace di sfruttare alcune sue ambigue componenti (il peso del
sommerso, dell’evasione fiscale, del cash) per orientare il flusso di ricchezza
verso un aumento di solidità e sicurezza patrimoniali; perché nei consumi ha
recuperato modelli di oculata scelta e di sobrietà rispetto al rampantismo del
recente passato; perché ha sviluppato un ritorno alla socializzazione
comunitaria negli insediamenti minori (la rientranza nel carisma dei borghi di
cui ha scritto Mario Luzi); perché non nasconde la delicatezza delle sfide che
cominciano ad affacciarsi all’orizzonte con il disagio derivante dal ritorno
degradato del sacro o dalla indifferenza etica proclamata
dall’autoreferenzialità della tecnica; perché capisce con sempre maggiore
chiarezza che la classe dirigente nasce dalle competenze e non dalle smanie di
vera o presunta eccellenza; perché sa che un governo policentrico è più coerente
che una verticalizzazione elitaria per guidare un sistema ad arcipelago qual è
il nostro.
Certo,
ognuno di questi elementi di saggezza presenta elementi anche di potenziale
pericolo. Ma meglio gestirla che combatterla questa ambivalenza della saggezza,
visto che nel complesso essa ci rende solidi, ben piantati sulle nostre identità
più vere.
Scegliere allora se dar corpo ad un rilancio di un destino nazionale o se
applicarci all’accompagnamento della dinamica del popolo saggio è sfida cruciale
della nostra classe dirigente nei prossimi anni.
Fosse
per me, mi dedicherei al popolo saggio che sa badare a se stesso; ma alle mie
ambizioni di leadership si oppone ormai il saggio anagramma del mio cognome: «È
tardi».
Giuseppe De Rita