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Quando
mancano gli standard minimi |
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Misure di sostegno al reddito In Italia continua a mancare, a
differenza che in tutti gli altri paesi dell’Unione Europea salvo la
Grecia, una misura di sostegno al reddito che, a parità di bisogno, sia
omogenea per tutti i cittadini italiani. A livello nazionale esistono
misure di garanzia solo per due categorie di persone: gli anziani e i
disabili. A queste si aggiunge poi l’assegno al nucleo familiare,
per le famiglie di lavoratori dipendenti poveri. Negli ultimi anni è
subentrato infine l’assegno per i nuclei poveri con almeno tre figli
minori. Si tratta di una misura che si è dimostrata certamente
fortemente redistributiva, ma che è riuscita a scalfire appena la forte
incidenza della povertà in queste famiglie (riguarda infatti il 25 per
cento), mentre non tocca quella di famiglie con due soli figli minori,
che pure è consistente (16 per cento). Per tutti gli altri casi, la
qualità, consistenza, e persino esistenza di misure di sostegno sono
lasciate alle decisioni locali, con esiti di frammentazione e
disomogeneità. In assenza di una misura nazionale di
sostegno al reddito per chi si trova in povertà, non solo si è in
presenza di una sorta di giungla categoriale, ma anche di una situazione
da cuius regio eius et religio: a parità di bisogno, a seconda
di dove si vive, si ha o meno diritto a qualche misura di sostegno. La
delega al livello locale di gran parte dell’assistenza, senza che
siano stati preliminarmente definiti criteri, standard, diritti e doveri
minimi a livello nazionale ha avuto come esito, accanto a interessanti
fenomeni di innovazione a livello locale, una forte discrezionalità, e
quindi anche l’infragilimento di condizioni di cittadinanza comuni.
E’ da questa discrezionalità ed
eterogeneità dei trattamenti, e non da una peraltro inesistente
generosità dei sostegni, che deriva l’assistenzialismo spesso
imputato al modesto welfare state italiano. La sperimentazione del Reddito
Minimo di Inserimento L’assenza di una pratica, e di una
tradizione di cultura politica e amministrativa, consolidate e omogenee
almeno negli obiettivi e nei metodi di base, non consentono di guardare
con tranquillità alla delega pura e semplice di iniziativa agli enti
territoriali, tanto più dopo l’approvazione del titolo V della
Costituzione, che ha rafforzato l’autonomia regionale in questo
come in altri campi. La stessa sperimentazione del Reddito Minimo di
Inserimento (RMI) ha segnalato in questi anni come in larga parte
del Mezzogiorno non esistano non solo risorse finanziarie per forme
anche minime, ma non occasionali, di sostegno al reddito, ma neppure un
retroterra amministrativo e professionale preparato ad affrontare la
problematica della povertà e della esclusione sociale in modo non
episodico o emergenziale, quando non clientelare. Ma anche nei Comuni
del centro-nord, che pure avevano una più solida tradizione
amministrativo-professionale e interventi consolidati nel sostegno al
reddito, una misura quale il RMI si presenta con caratteri di forte
innovazione, che richiedono una radicale riorganizzazione sia culturale
che dei servizi. Le politiche governative Proprio per ovviare alla disomogeneità
di criteri e standard, ma anche di bisogni e risorse, la creazione di
una misura di base omogenea nei criteri di accesso, nei diritti e nei
doveri, è prevista all’art. 23 dalla Legge 328/2000, sul
sistema integrato dei servizi e interventi sociali. In esso si parla
infatti di messa a regime del RMI, sulla base degli esiti della
sperimentazione, "come misura generale di contrasto della povertà
alla quale ricondurre anche gli altri interventi di sostegno al
reddito". L’attuale Governo ha invece deciso
di confermare la differenziazione ed esclusiva responsabilità
finanziaria e applicativa, degli enti locali in questo campo. Nel Patto per l’Italia
l’attuazione di un qualche Reddito di ultima istanza viene affidato
alla iniziativa, e alle risorse finanziarie, amministrative e
gestionali, delle Regioni, con prevedibili conseguenze sul piano non
solo di una ulteriore frammentazione, ma anche di uno squilibrio tra
bisogni e risorse (si veda BOERI-PEROTTI).
Non vi sono risorse dedicate nel Fondo Nazionale per le Politiche
Sociali, che per altro nella Finanziaria 2003 non è stato neppure
aumentato a questo scopo. Anzi, alla diminuzione del 6 per cento si
aggiunge quella derivante dalla decisione di non proseguire la
sperimentazione in atto ormai da quattro anni, dato il giudizio negativo
espresso dal Governo sulla opportunità, appunto, di mettere la misura a
regime. Ciò comporta di fatto, per la prima volta in quattro anni, una
riduzione dei finanziamenti dedicati al contrasto della povertà. Le
detrazioni fiscali per i familiari a carico, infatti, non toccano chi è
più povero, per il ben noto fenomeno dell’incapienza(1). La questione della povertà Certamente il RMI da solo non
costituisce una soluzione alla questione della povertà. E’ solo un
tassello, importante e a mio parere essenziale, di un pacchetto di
azioni e iniziative che riguardano diversi settori: accanto a politiche
del lavoro e di sviluppo locali, e alla riforma degli ammortizzatori
sociali, occorre da un lato riconoscere in modo più adeguato e più
universalistico il costo dei figli, dall’altro favorire il lavoro
remunerato delle madri, aumentando il numero di percettori di
reddito in famiglia. Infine, occorre pensare a qualche forma di sostegno
a redditi da lavoro bassi, del tipo working family tax credit
inglese o al prime pour l’emploi francese. Tuttavia, proprio
perché è per definizione una misura di ultima istanza, è forse più
urgente di altre: perché riguarda coloro che poveri sono già, e spesso
da tempo e, se minori, con un’elevata probabilità di rimanerlo a
lungo. (1) Baldini e Bosi (30.9.02 e
17.12.02) hanno segnalato che anche la riforma delle aliquote fiscali è
per lo meno dubbia nella sua efficacia redistributiva nei confronti dei
redditi più bassi. |