torna a politiche/saggi ed articoli
Chiara Saraceno,
Guai ai poveri
Durante la campagna elettorale Berlusconi ha sollevato più volte
la questione della presenza nel nostro paese di sette milioni di poveri,
utilizzando i rapporti dell'Istat e della Commissione di Indagine sulla
esclusione sociale come fonte autorevole per criticare l'operato del
governo di centro-sinistra. Ma immediatamente dopo la vittoria
elettorale un possibile Ministro del superministero del welfare, Alberto
Brambilla, lo smentisce.
In una intervista al settimanale Vita ha dichiarato testualmente: «Non
sono certo che siano sette milioni. Il problema è che non si sa bene
quanti sono i poveri in Italia». Poi, da bravo tecnico, ha aggiunto che
il problema è quello degli indicatori. Non vi è dubbio: le biblioteche
sono piene di controversie su come si fa a misurare la povertà; ed
anche nel Gruppo di Protezione Sociale dell'Unione Europea ci stanno
provando (per altro, secondo le stime europee noi avremmo circa il
doppio di poveri rispetto alle stime Istat/Commissione). Nessuno
pretende di trovare l'indicatore perfetto. Ma tutti i paesi, incluso il
nostro, hanno definito un qualche criterio per stimare la diffusione
della povertà e avviare politiche conseguenti. Il fatto è che
Brambilla sembra ignorare come viene stimata la povertà in Italia,
dall'Istat e dalla Commissione di indagine sulla esclusione sociale. È
infatti convinto che sia misurata sulla base delle erogazioni dello
stato, ovvero sulla base del numero di coloro che ricevono assistenza.
Se ciò fosse vero, avremmo cifre bassissime. A differenza della maggior
parte dei paesi europei, infatti, non abbiamo ancora una misura
generalizzata di sostegno al reddito per i poveri, del tipo del reddito
minimo di inserimento : ancora in fase sperimentale, ma che Brambilla ha
già dichiarato di non voler realizzare senza neppure aspettare a
leggere il rapporto di valutazione. In realtà la povertà è stimata,
dall'Istat e dalla Commissione, sulla base dei consumi delle famiglie:
viene considerato povero non chi riceve assistenza, ma chi ha un consumo
inferiore alla metà del consumo medio procapite. Esperto di pensioni
integrative, ma forse un po' meno di altre politiche sociali, Brambilla
si richiama anche alle iniziative di Blair e Schroeder in tema di
incentivi alla partecipazione al lavoro in contrapposizione
all'assistenza. Dimentica, o forse non sa, che in entrambi i paesi
continua ad esistere un meccanismo di sostegno al reddito per i poveri.
Le iniziative per far sì che lavorare paghi più che rimanere in
assistenza richiedono innanzitutto che ci sia assistenza, e poi che ci
siano politiche, economiche, del mercato del lavoro, ma anche di
consulenza, di creazione di servizi, della casa, ecc. che rendano
praticabile passare dalla assistenza al lavoro. Senza ignorare che vi è
chi, temporaneamente o forse stabilmente, non è in grado di lavorare.
Affidare costoro puramente e semplicemente al Terzo settore e al
volontariato, come suggerisce Brambilla e con lui molti esponenti della
Casa delle Libertà, mi sembra poco rispettoso dei diritti e della
dignità delle persone. E forse non molto gradito dallo stesso terzo
settore. In Italia, vorrei sommessamente informare Brambilla e tutti gli
aspiranti futuri ministri del welfare, la durezza e persistenza della
povertà non dipendono dall'eccesso di assistenzialismo. Piuttosto, a
fronte di uno sviluppo diseguale e di rischi diffusi, poche, disuguali e
inefficaci sono le politiche. Il nostro paese, come tutti gli altri
europei, deve presentare entro la fine del mese un piano biennale contro
l'esclusione sociale. Certo il nuovo governo dovrà verificarlo ed
eventualmente adeguarlo alla propria linea politica. Ma non potrà
esimersi dal presentare un piano in questo campo, della cui attuazione
sarà responsabile. Il gioco sui numeri dei poveri a seconda delle
convenienze del momento non mi sembra un buon inizio.