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chi servono i buoni scuola? |
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Il referendum tenutosi il 6 ottobre
scorso in Veneto sulla possibile abrogazione della legge regionale n. 1
del 19/1/2001 "Interventi a favore delle famiglie degli alunni
delle scuole statali e paritarie" ha riportato al centro del
dibattito la questione dei buoni scuola. Per dare un’idea
approssimativa dell’entità del problema, basti citare il fatto che a
seguito della promulgazione di questa legge sono state presentate 15.928
domande di erogazione di contributo per le spese relative a rette,
iscrizione e funzionamento per l’anno scolastico 2001-2 (sono escluse
spese relative a mense, acquisto libri e trasporti); per 15.391 di esse
è stato deliberato un contributo medio di 567 euro per famiglia, pari
ad un totale complessivo di poco più di 9 milioni di euro. Ma di questi
solo 247 sono destinati a studenti che frequentano la scuola pubblica. Una stessa filosofia Il buono scuola della Regione
Veneto è disegnato con una soglia minima di spesa rimborsabile
(154.94 euro) che tende ad escludere le famiglie che iscrivono i propri
figli alle scuole pubbliche, ed è graduato secondo reddito familiare e
ordine di scuola di iscrizione, come dimostra la tabella seguente.
Cifre analoghe anche nel caso nel caso
della legge regionale lombarda (comma 121 dell’art. 4 della legge
regionale n. 1 del 5/1/2000): 55.040 domande presentate, 46.935 domande
ammesse, di cui solo 600 provenienti da famiglie con figli che
frequentano le scuole statali. Anche in questo caso vi è una soglia
minima di spesa rimborsabile ( 206 euro) e una soglia massima di
erogazione ( 2065 euro). In questo caso il rimborso è in percentuale
sulla spesa sostenuta (in misura pari al 25%) e vi è un tetto massimo
di reddito familiare procapite (pari a 60 milioni). Questo dispositivo
di legge nel primo anno di applicazione (anno scolastico 2000-2001) ha
comportato un contributo medio pari a 649 euro per studente, con un
esborso complessivo di 30 milioni di euro. Due modelli di erogazione,
più ricco quello lombardo, più attento alla scolarità al di là
dell’obbligo quello veneto, ma entrambi ispirati alla stessa
filosofia: quella di sostenere nella loro scelta le famiglie che mandano
i figli alle scuole private. Inoltre, alcune dichiarazioni
dell’attuale Ministro della Pubblica Istruzione lasciano ritenere che
l’attuale Governo si orienterà verso un ampliamento del ricorso a
questa misura di politica scolastica. Scuola privata: prodotto d’élite
o prodotto scadente? Vale allora la pena di domandarsi se
siamo di fronte ad una misura efficace di riforma della scuola italiana.
Partiamo da un dato di fatto: se si esclude il caso della scuola
materna, la scuola privata è scarsamente utilizzata a tutti i livelli,
non raggiungendo il 10% in nessuna regione e in nessun ordine di scuola.
Si tratta quindi o di un prodotto d’élite (tanto che nemmeno il 10%
degli italiani riesce ad accedervi) o di un prodotto scadente (al punto
che nemmeno un italiano su dieci desidera accedervi). Nessuna delle due
letture sembra tuttavia entusiasmante. Se la scuola privata è
desiderata in quanto scuola d’élite, allora allargare l’accesso con
una politica di sussidi tenderebbe a deteriorarne la natura
intrinsecamente elitaria e a trasformarla in un prodotto di massa. Se
viceversa la scuola privata è desiderata come scuola di recupero a
pagamento (2 anni di scuola in un anno di frequenza), allargarne
l’accesso permetterebbe di recuperare alla carriera scolastica anche
gli elementi che ne erano precedentemente stati espulsi e che avevano
abbandonato. Come politica egualitaria non fa una grinza, ma da un
governo che dichiara di ispirarsi al valore della meritocrazia e alla
qualità della scuola sinceramente non ce lo aspetteremmo. Una terza ipotesi: i risparmi
all’erario e gli interessi del governo Resta però un’ulteriore chiave di
lettura, che fa leva su vili ragioni di cassa. Per ogni studente
che passi dalla scuola pubblica alla scuola privata l’amministrazione
pubblica risparmia la differenza tra il costo medio dello studente
all’erario pubblico e la sovvenzione del buono scuola. Usando i dati
più recenti prodotti dall’OECD (OECD, Education at a glance.
OECD: Paris 2002 - http://www1.oecd.org/publications/e-book/9601051E.PDF),
questo equivale ad un risparmio di circa 5653 euro per ogni studente
della scuola elementare, 6627 euro per ogni studente della scuola media
e 6340 euro per ogni studente delle superiori, con un costo medio
indicativo per studente di circa 6000 euro all’anno. Se l’uno per
cento degli studenti passasse dalla scuola pubblica alla privata,
transiterebbero 66600 studenti (dati al 2001/2 - totale di scuola
elementare, secondaria di primo e di secondo grado). Il risparmio
all’erario sarebbe stimabile nell’ordine di 400 milioni di euro,
a cui andrebbero dedotti i maggiori oneri dei buoni scuola necessari a
suscitare questa transizione. Prendendo anche la versione più generosa
di erogazione (quella lombarda), questo comporterebbe un esborso di 650
euro per famiglia, con un onere complessivo di 43.3 milioni di euro, ed
un risparmio netto pari a 356.7 milioni di euro. Una cifra non
trascurabile, tenuto anche conto l’indiretto vantaggio per il governo
centrale, visto che i sussidi sarebbero a carico dei governi periferici,
mentre la minor spesa beneficerebbe il governo centrale. Ecco allora che la domanda iniziale, a
chi servono i buoni scuola, trova forse una risposta possibile. Forse
non solo alle famiglie del ceto medio che hanno ottenuto un rimborso di
spesa per scelte già compiute. Forse non solo ai governi regionali che
li hanno approvati, sperando in un ritorno in termini di sostegno
elettorale. Ma forse anche al deficit pubblico, che tenderebbe a
ridursi scaricandosi una parte dell’onere di spesa sui bilanci
familiari, attratti dal miraggio di una maggior esclusività per i
propri figli. |
Commento di Andrea Boitani |
Ho letto con interesse l’articolo di
Daniele Checchi "A chi servono i buoni scuola?". Temo,
purtroppo, che la conclusione di Checchi sia troppo ottimista. La tesi
di Checchi che i buoni scuola servano a ridurre il deficit pubblico si
basa su una possibilità di razionalizzare la spesa per l’istruzione
pubblica che è inesistente. Non è in realtà possibile
risparmiare la differenza tra il costo di uno studente della scuola
pubblica e la sovvenzione data al buono scuola, per il semplice motivo
che gran parte dei costi della scuola pubblica sono fissi, in un
orizzonte temporale abbastanza lungo. Il personale (che rappresenta gran
parte dei costi) non è licenziabile; le classi non possono essere
chiuse se uno o due studenti (cioè il 10% della classe) optano per la
scuola privata e lo stesso si può dire per le scuole. Il problema è lo
stesso che si evidenzia nel caso della sanità in quelle regioni che
tendono a favorire le prestazioni esterne alle ASL e agli ospedali
pubblici. I costi delle ASL e degli ospedali (anche in questo caso in
gran parte fissi) non diminuiscono se aumentano le prestazioni in regime
di convenzione, mentre aumentano gli esborsi delle regioni per
prestazioni convenzionate Mentre i risparmi aggregati stimati da
Checchi appaiono implausibili, si può agevolmente sostenere che
l’introduzione del buono scuola per chi va alla scuola privata genera
un aumento della spesa pubblica. Andrea Boitani |
Risposta di Daniele Checchi |
Il commento di Boitani è pienamente
condivisibile. La mia tesi principale non è tuttavia che i buoni scuola
vengano introdotti per ragioni di cassa, quanto piuttosto intendo
richiamare il fatto che non è chiaro perchè convenga introdurli. E'
indubbio che la quota dei costi fissi nella scuola è sicuramente
preponderante, e i conti offerti avevano lo scopo di illustrare l'entità
potenziale del guadagno con una transizione dell'1% degli studenti alla
scuola privata. Tuttavia non si richiederebbe un periodo lunghissimo
perchè si materializzassero. Pur non disponendo di dati sulla
distribuzione per età degli insegnanti in servizio, se immaginassimo
una distribuzione uniforme degli stessi su 40 anni di servizio, avremmo
che ogni anno 1/40 degli insegnanti (pari al 2.5%) va in pensione. A
fronte del calo di 1% degli iscritti, basterebbe il blocco del turnover
per un anno per addirittura ridurre le spese degli insegnati per
studente. Tenuto conto che gli stipendi rappresentano circa l'80% della
spesa, non siamo lontani dal ritenere che nel giro di qualche anno i
conti proposti potrebbero diventare realtà. Certo vi è il problema
dell'accorpamento delle classi, su cui il Ministro Moratti ha già dato
prova di esercizio direttivo alzando i tetti massimi di studenti per le
classi. |
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