Ma dopo è mancata l' assistenza prevista dal disegno. Con conseguenze
gravi La chiusura dei manicomi doveva essere solo il primo passaggio Una
legge di Forza Italia per l' apertura di nuove strutture Ma la difesa
dei più deboli non è un ideale della cultura d' oggi L' idea era che la
società dovesse fare i conti con le figure del disagio
UMBERTO GALIMBERTI
A 25 anni dalla morte di Franco Basaglia, lo psichiatra che si è tanto
battuto per ottenere la legge 180 che nel 1978 sancì la chiusura dei
manicomi, è forse possibile trarre un bilancio di quella che l'
Organizzazione Mondiale della Sanità, nel 2003, ha indicato come «uno
dei pochi eventi innovativi nel campo della psichiatria su scala
mondiale». Per questo bilancio ci facciamo aiutare da una serie di saggi
che Franco Basaglia scrisse tra il 1963 e il 1979 e che Einaudi ha
pubblicato col titolo L' utopia della realtà (pagg. 328, euro 22). A
differenza della rivoluzione, che ha un carattere esplosivo perché segna
un' accelerazione del tempo in vista di un altro futuro, l' utopia, che
guarda al futuro con un' etica terapeutica, dove i mali si eliminano
tramite il controllo razionale degli effetti, ha bisogno di tanto
futuro. L' operazione di Basaglia è un' operazione utopica, non
rivoluzionaria. La chiusura dei manicomi non era, infatti, lo scopo
finale dell' operazione basagliana, ma il mezzo attraverso cui la
società poteva fare i conti con le figure del disagio che la
attraversano quali la miseria, l' indigenza, la tossicodipendenza, l'
emarginazione e persino la delinquenza a cui la follia non di rado si
imparenta. E come un tempo la clinica aveva messo il suo sapere al
servizio di una società che non voleva occuparsi dei suoi disagi,
Basaglia tenta l' operazione opposta, l' accettazione da parte della
società di quella figura, da sempre inquietante, che è la follia, da lui
così definita: «La follia è una condizione umana. In noi la follia
esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società,
per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia,
invece incarica una scienza, la psichiatria, per tradurre la follia in
malattia allo scopo di eliminarla. Il manicomio ha qui la sua ragion d'
essere che è poi quella di far diventare razionale l' irrazionale.
Infatti quando qualcuno entra in manicomio smette di essere folle per
trasformarsi in malato, e così diventa razionale in quanto malato». Non
era questo, scrive Basaglia, l' intento di Philippe Pinel che nel 1793
inaugurò a Parigi il primo manicomio, liberando i folli dalle prigioni,
in base al principio che il folle non può essere equiparato al
delinquente. Con questo atto di nascita la psichiatria si presenta come
scienza della liberazione dell' uomo. Ma fu un attimo, perché il folle,
liberato dalle prigioni, fu subito rinchiuso in un' altra prigione che
si chiamava manicomio. Da quel giorno incomincerà il calvario del folle
e la fortuna della psichiatria. Se infatti passiamo in rassegna la
storia della psichiatria vediamo emergere i nomi di grandi psichiatri,
mentre dei folli esistono solo etichette: isteria, astenia, mania,
depressione, schizofrenia. Ma la depressione, la mania, la schizofrenia
sono davvero «malattie» come l' ulcera, l' epatite virale, il cancro? O
il modo di essere schizofrenico è così diverso da individuo a individuo
e così dipendente dalla storia personale di ciascuno da non consentire
di rubricare storie e sintomi così diversi sotto un' unica
denominazione? L' ansia di accreditarsi come scienza sul modello della
medicina ha fatto sì che la psichiatria organicista passasse sopra come
un carro armato alla «soggettività» dei folli, che furono tutti
«oggettivati» di fronte a quell' unica soggettività salvaguardata che è
quella del medico. Ma è davvero credibile che, negando istituzionalmente
la soggettività del folle, sia possibile guarirlo, cioè restaurarlo
nella sua soggettività? Evidentemente no. E infatti i medici del
manicomio non ci credevano e i malati cronicizzavano. Basaglia, prima a
Gorizia e poi a Trieste, accetta questa condizione di parità tra medico
e paziente e scopre che, restituendo al folle la sua soggettività,
questi diventava un uomo con cui si poteva entrare in relazione. Scopre
che il folle ha bisogno non solo delle cure per la malattia, ma anche di
un rapporto umano con chi lo cura, di risposte reali per il suo essere,
di denaro, di una famiglia e di tutto ciò di cui anche i medici che lo
curano hanno bisogno. Insomma il folle non è solamente un malato, ma un
uomo con tutte le sue necessità. Trattato come uomo, il folle non
presenta più una «malattia», ma una «crisi», una crisi vitale,
esistenziale, sociale, familiare, che diventa permanente e definitiva se
il folle, che si è perso nel mondo, viene al mondo sottratto per essere
più o meno definitivamente rinchiuso in quel non-mondo che si chiama
manicomio. In quel non-mondo mi sono recato per tre anni consecutivi dal
'76 al '79, in quel di Novara, dove uno psichiatra, oggi a tutti noto,
Eugenio Borgna, tentava la stessa sperimentazione dell' apertura dei
manicomi. I «pazzi», opportunamente accompagnati, potevano uscire dalle
mura, muoversi con qualche incertezza e un po' di sconcerto nella città,
bere un caffè al bar, entrare in una chiesa, comprare qualcosa al
mercato, scambiare parole, il più delle volte non corrisposte, con la
gente, acquisire insomma le coordinate del mondo comune da cui la follia
li aveva esclusi temporaneamente e il manicomio definitivamente. Se il
sogno di Basaglia era che la clinica potesse diventare un laboratorio
per nuove forme di relazioni sociali, venticinque anni dopo non poteva
esserci risveglio più brusco se verrà approvato il progetto di legge
Burani Procaccini (Forza Italia) che vuole reintrodurre i manicomi,
eufemisticamente chiamati SRA (Struttura Residenziale ad Assistenza
prolungata e continuata) dove a operare saranno la psichiatria
organicistica, quando non la genetica psichiatrica. Nulla da dire contro
le scoperte della scienza e i suoi rimedi, purché si eviti di
considerare l' uomo e gli oscuri meandri della sua mente, come un
semplice laboratorio in cui la scienza verifica le sue ipotesi.
Venticinque anni fa abbiamo chiuso i manicomi e con la legge 180 ci
siamo lavati la coscienza di una vergogna sociale, ma non abbiamo fatto
un solo passo innanzi nella direzione indicata da Basaglia che prevedeva
Servizi di Salute Mentale diffusi sul territorio, con residenze
comunitarie, gruppi di convivenza, con la partecipazione di maestri,
educatori, accompagnatori, attori motivati che hanno dato vita a
cooperative sociali come a Trieste, ad Arezzo e in altri pochi punti del
territorio italiano. Altrove niente. E questo non per colpa della legge
180, ma per il disimpegno, la sciatteria, la scarsa motivazione degli
operatori, la mancanza di fondi, visto che il nostro Ministero della
Sanità destina alle cure psichiatriche solo il 5 per cento delle risorse
quando l' Organizzazione Mondiale della Sanità ci informa che un giovane
su cinque in Occidente soffre di disturbi mentali, che nel 2020 i
disturbi neuropsichiatrici cresceranno in una misura superiore al 50 per
cento divenendo una delle cinque principali cause di malattia, di
disabilità e di morte. Che facciamo? Mettiamo tutta questa gente in
manicomio o gli facciamo recuperare quel rapporto col mondo che il
manicomio preclude definitivamente e i Servizi di Salute Mentale, così
come sono oggi, non garantiscono per incuria, trascuratezza,
indifferenza, e non perché l' idea è sbagliata come le esperienze di
Trieste e di Arezzo sono lì a dimostrare? Un anno prima di morire, nelle
sue Conferenze brasiliane (Cortina, pagg. 288, euro 13,50) Basaglia
diceva: «Potrà accadere che i manicomi torneranno a essere chiusi e più
chiusi di prima, io non lo so». Noi che siamo sopravvissuti alla sua
morte sappiamo che non basta chiudere l' istituzione manicomiale e porre
fine alle vite bruciate tra le sue mura, silenzioso olocausto consumato
nel nome della scienza. Oggi la scienza si è fatta esigente, più
asettica, persino più pulita, ma decisamente più invasiva di quanto non
fosse nell' istituzione manicomiale. A questo proposito Franco Rotelli,
che ha raccolto l' eredità di Franco Basaglia, scrive in un suo saggio
che la biologia molecolare e la neurofisiologia potranno fare ancora
molti progressi e di conseguenza avere poteri ancora maggiori, le
neuroscienze potranno dirci ancora molto sul nostro cervello, e molto
ancora ci dirà la genetica. C' è però una cosa su cui mai potremo avere
risposte da queste scienze: sull' etica, ossia sulla modalità con cui
gli uomini decidono di stabilire un contratto sociale, sui valori e sui
punti in base ai quali gli uomini decidono di stabilire le modalità del
proprio relazionarsi. Questo era il progetto di Basaglia. La chiusura
dei manicomi era solo un primo passo, in un campo limitato, quello del
disagi mentale, per chiedere alla società di non avere più paura della
diversità che ospita, e che, in questa o in altre forme, sempre più
dovrà ospitare. Ma forse la difesa dei diversi, dei folli, dei soggetti
più deboli, che era un' atmosfera diffusa negli anni Settanta e che ha
portato alla chiusura dei manicomi, non è più un ideale della nostra
cultura che si sta rivelando sempre più sensibile a rapporti di forza
che ai rapporti di sostegno. Che sia questa la premessa per cui la
follia, e la disperazione che sempre l' accompagna, trovano un terreno
favorevole per dilagare? Il cuore si è fatto duro e si è persa fiducia
nel carattere terapeutico che la comunicazione e la relazione sociale
possiedono come loro tratto specifico e come ognuno di noi può
verificare quando sta male.