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Gabriele Giuseppina, Basaglia un filosofo per il dolore in l’Unità 29 ottobre 2001

Alla sua figura leghiamo solo la legge 180 sui manicomi. Un libro illumina la sua statura di grande scienziato del '900

A Roma oggi si presenta questo saggio che esplora il suo itinerario teorico. Da Sartre a Laing, da Merleau-Ponty a Foucault

Temeva quella riforma degli ospedali, come una cesura grave per l'anima anti-istituzionale di Psichiatria Democratica

Oggi sarà presentato a Roma nella sala della Piccola Protomoteca del Campidoglio Franco Basaglia, il libro di Mario Colucci e Pierangelo Di Vittorio (Bruno Mondadori).  L'occasione è ghiotta, per il concorrervi, accanto agli auto­ri, di più voci e presenze, Rosy Bindi, Franca Ongaro Basaglia, Maria Gra­zia Giannicchedda, Tommaso Losa­vio, Walter Veltroni e Alberto Ga­ston, in quella «rara e speciale libertà di incontro» tra varie umanità, nor­malmente tenute distanti dai loro de­stini sociali ma riunite da forte slan­cio al cambiamento.

Franco Basaglia è una monografia, ne­cessaria, per e su uno straordinario intellettuale che ha rivoluzionato per sempre la risposta alla malattia men­tale.  Un libro che risponde all'esigen­za di chiarire gli aspetti filosofici, scientifici, teorici ed operativi della messa in crisi della «scienza» psichia­trica, costruitasi sulla oppressione e sulla presa di distanza dalla sofferen­za.

Nel libro si rende giustizia all'estrema attualità del pensiero di Basaglia, e vi emerge l'opportunità che esso sia stu­diato e praticato per superare le diffi­coltà della psichiatria odierna.  Consa­pevoli che, nell'immaginario colletti­vo, Basaglia è solo colui che ha deco­struito e superato gli ospedali psichia­trici, preferiamo dedicare un po' di attenzione al Basaglia degli inizi, che spesso è rimosso e negato e al Basa­glia, scienziato del Novecento, che scardina l'assolutezza della nozione di oggettività e di scientificità della cultura occidentale moderna.  Tutto ciò ha punti di contatto con il Witt­genstein di Della certezza: «"Io so"... sembra descrivere uno stato di cose che garantisce che quello che si sa è un dato di fatto.  Si dimentica sempre l'espressione "io credevo di saper­lo "... ».

Nell'esordio scientifico (1953), A gio­vane Basaglia, psichiatra già «disobbe­diente», lascia intravedere in filigrana i futuri sviluppi del suo pensiero.  Stu­dia l'antropologia fenomenologica di Binswanger e la «daseinsanalyse», da cui raccoglie il dato essenziale della necessità di un'abolizione della distin­zione normativa sano/malato della psichiatria positivista, in quanto a ciascuna esperienza esistenziale va con­cessa l'opportunità di esprimersi, e rovescia la nozione di «norma» tanto cara alla psichiatria ufficiale. «La ma­lattia e la normalità hanno senso, cioè significano, soltanto se colte nel contesto del mondo-della-vita al qua­le appartengono e non a partire da categorie predefinite di salute e malat­tia».

L'analisi fenomenologica dell'incon­tro e l'analisi del linguaggio rappre­sentano in questo approccio un acces­so privilegiato alla Weltanschaung della persona, ma dopo il contatto affettivo è necessario «trovare gli ele­menti atti ad aiutarci a riportare alla vita sociale un individuo che da essa è stato rifiutato».  Sembra una banalità, ma molti, ancora oggi, tralasciano questo approfondimento limitandosi ad una relazione con il paziente total­mente astratto dal suo contesto di vita, lavorativo, familiare, sociale.  E altri, non tutti comunque, non evita­no un trattamento sanitario obbliga­torio in quanto non sanno costruire un'alleanza che sostituisca la norma­le soggezione che il paziente e la sua famiglia hanno nei confronti del pote­re medico.

Il pensiero e le pratiche basagliane, dai quali il mondo accademico si è tenuto ben lontano, potrebbero con­durre a un maggior buon esito chi si occupa di donne e di uomini sofferen­ti: a occuparsene, cioè, senza reificarli e «decontestualizzarli», come pur­troppo ancora avviene se si legge la sofferenza con il solo ausilio di ma­nuali diagnostici che ripropongono di fatto la logica kraepeliniana e le sue «unità naturali di malattia». «La posizione "antiterapeutica" di Basa­glia in realtà è un'estrema riaffermazione del rapporto terapeutico (inte­so nella sua complessa articolazione: rapporto tra medico e paziente; tra il paziente e la società; tra i diversi elementi dialettici della società stessa; fra ragione e follia o tra salute e malat­tia).  Per essere davvero terapeutico, il rapporto deve aprirsi all'interno di uno spazio in cui ogni risposta prefor­mata, ogni pregiudizio terapeutico dovrà essere messo tra parentesi, per­ché solo in questo modo il malato sarà libero e sarà possibile incontrar­lo su un piano di libertà».  Basaglia, palesemente influenzato da Husserl invitava a una radicale libertà dai pre­giudizi, a essere incuranti di tutte le teorie correnti e precedentemente apprese in modo da raggiungere la pos­sibilità di far partecipi gli altri di ciò che si è intuito.

Siamo, dunque, davanti a un intellet­tuale raffinato, molto lontano da quella volgarità messa in campo da chi, «ignorando», affermava che egli negasse l'esistenza della malattia men­tale.  Nel testo si restituisce a Basaglia il merito di aver cercato di superare quell'atteggiamento che giustifica l'in­successo dell'incontro con l'altro con l'incomprensibilità di quest'ultimo, così come succede a chi, non com­prendendo il significato di un'opera d'arte, ne nega il valore.

Ascoltare, saper ascoltare, senza pre­concetti che inficiano la comunicazio­ne, è una capacità non molto diffusa nel nostro mondo e la cui carenza è particolarmente grave per chi pensa di stare in una relazione di aiuto.

Farsi carico concretamente del mala­to, non fermandosi alla malattia, con­siderando la cura un tentativo di ricondurre la persona alle sue piene possibilità esistenziali.

Nessun provincialismo: dalla Germa­nia la sua ricerca si sposta attraverso il pensiero di Ronald Laing, quello di Merleau-Ponty e, soprattutto, Jean-Paul Sartre.  Ciò per ricomporre l'artificiosa separatezza tra psiche e soma e restituire importanza al «cor­po non oggettivato».  In Sartre si ritrova per parlare di libertà, inautentici­tà, scelta, malafede.  Foucault e Goff­man gli fanno da punto di riferimento per la critica all'istituzione psichia­trica.  Con Foucault si interroga sulla follia e sulla sua convivenza con la cosiddetta ragione; follia, non solo og­getto ma anche mezzo di conoscenza, che ha a che fare con la verità e viceversa, prima di essere riassorbita nel manicomio come malattia menta­le. Nei suoi ultimi anni arriva ad az­zardare il sospetto, come scrive Franca Ongaro Basaglia, che lo «specifi­co» possa non esistere quando la mi­seria, materiale, psicologica e sociale sarà debellata. «Si è detto di un Basa­glia creativo», ricorda Pirella «pieno di immaginazione, ed è vero.  Ma l'im­maginazione e la creatività erano lo strumento mentale per un percorso di incessante verifica dei rapporti umani concreti, soprattutto quando essi si realizzano in situazioni cristallizzate, in cui il dislivello di potere e di sapere è dato come naturale, come indiscutibile». Su questo punto è fondamentale l'analisi dei rapporti di potere, cosi come dell'ideologia nel senso di falsa coscienza, che Basaglia ave­va ripreso da Marx. «Artista è chiunque esce dal proprio cerchio e rein­venta il suo ruolo nel rapporto con gli altri» aveva scritto in significativa risonanza con un altro grande, Gio­vanni Michelucci, per cui «il vero va­lore dell'architetto e della sua opera è nel ricordo rimasto negli operai della sua fabbrica; se ha voluto essere solo con la sua bravura, la sua cultura, il suo mestiere o, se invece, ha voluto essere con gli altri, con la gente, con chi non sa e vorrebbe sapere, se ha considerato il suo lavoro un segreto da non comunicare o se ha voluto far capire il perché del suo operare.  In ultima analisi, se egli ha rinunciato a sedersi su una cattedra e si è seduto invece, su una sedia qualunque par­lando con chi desiderava sapere».

Ritornando alla concretezza del suo intervento, Colucci e Di Vittorio ri­cordano che verificata la risposta di esclusione e segregazione che la socie­tà dava a chi «arrivava all'attenzione della psichiatria», Basaglia rinuncia al­l'Università e va a Gorizia dove mette le mani sull'istituzione che fino al quel momento era l'assoluto della ri­sposta psichiatrica: il manicomio.

Iniziano lì ad annodarsi i momenti della teoria e dei saperi, quelli della pratica e i fini etici aspiratori ideali delle politiche necessarie per una trasformazione utile e duratura.

Il compito è, dunque, quello di ac­compagnare ciascuno oltre la propria malafede verso la conquista di una libertà che è consapevolezza della propria ed altrui storia e diritto ad essere soggetto.  Libertà nel senso sartriano non è successo o consenso, ma «determinarsi a volere mediante sé stessi».  Analizza la psichiatria di settore in Francia, ne coglie i limiti.  Va da Maxwell Jones, dove studia la comunità terapeutica, la importa a Gorizia, ne avverte il valore ma anche la limitatezza, apre all'esterno e così chiuderà definitivamente il manicomio a Trie­ste.  Tutto ciò lo fece apparire ai con­servatori della psichiatria rivoluziona­rio o «ammalato» di utopia.  Ma, dice Claudio Magris, «l'Utopia significa non arrendersi alle cose così come sono e lottare per come dovrebbero essere; sapere che il mondo ha bisognò di essere cambiato e riscattato.  L'utopia dà senso alla vita, perché esige oltre ogni verosimiglianza, che la vita abbia un senso».

Uno dei paradossi, a cui è stata sottoposta la sua figura, è proprio attribuir­gli la paternità della legge 180 che invece lui interpreta come l'irrepara­bile «cesura» dell'esperienza anti-istituzionale temendo la perdita di iden­tità del movimento di Psichiatra De­mocratica, da lui fondato, e la succes­siva normalizzazione istituzionale.  Un destino riservato a tutti i veri anti­cipatori e «rivoluzionari» che negli anni non sono stati compresi da colo­ro che non hanno mai trovato la motivazione ad «intelligere» lo spessore culturale delle cose fatte e dette vera­mente