È sconcertante, ai limiti quasi della denegata giustizia, la
decisione con la quale il Tribunale di Roma ha respinto la richiesta
di Piergiorgio Welby di poter morire con dignità. La palla è stata
rilanciata nel campo della politica. Ma i tempi della politica non
sono quelli della vita. Dichiarando inammissibile quella richiesta,
il giudice non ha voluto seguire la via pianamente indicata dal
parere della Procura romana ed ha usato un argomento, appunto quello
della inammissibilità, che comincia a ricorrere in maniera
preoccupante nelle decisioni che riguardano i diritti delle persone
nelle materie in cui il loro modo di vivere si intreccia con le
tecnologie. Lo aveva già fatto recentemente la Corte costituzionale,
chiamata a pronunciarsi sulla legge in materia di procreazione
medicalmente assistita. E questo modo di argomentare segna un
abbandono da parte della magistratura non di un ruolo di supplenza
quando la politica è silenziosa o distratta, ma del suo proprio
compito di essere il luogo istituzionale dove le nuove domande di
diritti trovano immediate risposte sulla base dei principi già
esistenti nel sistema giuridico. Molte ricerche hanno mostrato come,
nel tempo presente, siano appunto i giudici ad intervenire là dove
l’innovazione scientifica e tecnologica offre nuove possibilità e fa
nascere nuovi problemi. Si è così sostenuto che il diritto
giurisprudenziale sia preferibile alla minuta regolamentazione
legislativa. Quest’ultima è rigida, destinata quindi ad essere
superata e ad entrare in conflitto con i nuovi dati di realtà,
mentre l’intervento del giudice segue la vita in tutte le sue
pieghe, è capace di adattare alle situazioni concrete i principi di
base rinvenibili nelle costituzioni e nelle grandi leggi di
principio. Nella materia della bioetica questa impostazione si
rivela particolarmente importante e grazie ad essa, nei più diversi
paesi, sono state affrontate e risolte questioni difficili. Il caso
di Piergiorgio Welby, quale che sia il punto di vista dal quale lo
si consideri, doveva essere risolto accogliendo la sua richiesta,
perché così vogliono principi e regole ormai solidamente fondati nel
nostro sistema giuridico.
Al centro del nostro sistema giuridico è la persona con la sua
volontà, non più paziente sottoposto al volere del medico, ma
"soggetto morale" nel senso più alto, al quale competono soprattutto
le decisioni che riguardano i drammi dell’esistere. Lo riconosce
anche l’ordinanza romana, quando ripercorre la storia non breve che
ha portato a fondare esclusivamente sul consenso della persona
interessata qualsiasi trattamento riguardante la salute,
legittimando in primo luogo il rifiuto di cure. "Un diritto
soggettivo perfetto", come si legge nella stessa ordinanza. Che,
però, subito dopo ritiene che quel diritto davvero perfetto non è,
mancando le condizioni per la sua concreta tutela. Lasciamo da parte
le molte considerazioni che potrebbero esser fatte su questo modo di
argomentare, e vediamo quali sarebbero queste condizioni.
Sostanzialmente due: la mancata specificazione di che cosa debba
intendersi per accanimento terapeutico e la "indisponibilità del
bene vita". Ma questa conclusione è il risultato di un
fraintendimento grave dei dati normativi e dell’effettivo
significato del rifiuto di cure.
Nell’ordinanza, infatti, si stabilisce una relazione tra il "diritto
del paziente ad ‘esigere’ e ‘pretendere’ che sia cessata l’attività
medica di mantenimento in vita" ed una situazione di "mero
accanimento terapeutico". E qui la confusione concettuale è massima,
poiché rifiuto di cure e accanimento terapeutico sono cose diverse,
descrivono situazioni indipendenti l’una dall’altra. Non è vero che
il rifiuto di cure sia ammissibile solo in presenza di un
accanimento terapeutico. Tra i moltissimi casi, mi limito a
ricordarne uno solo, di particolare evidenza: quello di una donna
che, non ritenendo accettabile il vivere con una menomazione, ha
rifiutato l’amputazione di una gamba in cancrena, ed è morta. Siamo
di fronte all’opposto dell’accanimento terapeutico, poiché la cura
le avrebbe salvato la vita. Questo dimostra che il rifiuto di cure
deve essere rispettato in ogni caso, quando vi sia una esplicita
manifestazione di volontà dell’interessato, esattamente quel che ha
fatto Welby. Si risolve così anche un altro problema, impropriamente
sollevato dall’ordinanza, relativo al fatto che la vita di una
persona dipenderebbe dalla valutazione soggettiva del medico,
chiamato a decidere se vi sia o no accanimento terapeutico, mentre
il medico non deve compiere alcuna valutazione discrezionale, ma
limitarsi ad accertare quale sia la volontà della persona.
Comunque sia, è infondata anche la tesi, sostenuta nell’ordinanza,
secondo la quale non sarebbe possibile fondare una decisione
giudiziaria sull’accanimento terapeutico, poiché questa nozione,
come altri principi, sarebbe "incerta ed evanescente". Ma il diritto
è sempre più ricco di queste clausole generali, di questi concetti
non specificamente determinati, che sono finestre aperte su un mondo
sempre più mutevole e che hanno la funzione di consentire
l’adattamento della norma alla realtà senza bisogno di continui
aggiustamenti legislativi. È storia lunga, che i tecnici del diritto
dovrebbero ben conoscere, che riguarda ad esempio nozioni come
"comune senso del pudore" o "buona fede", non specificate nel
dettaglio dal legislatore e che vivono proprio grazie al lavoro dei
giudici, che ne precisano un contenuto che varia nel tempo e nei
contesti. E l’approssimazione culturale finisce con il travolgere
persino il principio della dignità della persona di cui, secondo
l’ordinanza, il giudice non potrebbe servirsi proprio per la sua
indeterminatezza, mentre a questo principio fanno costante
riferimento sentenze della Corte costituzionale e delle altre
magistrature, coerentemente con il fatto che esso è ormai uno dei
fondamenti delle nostre organizzazioni sociali, tanto da aprire la
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
L’approssimazione continua quando si afferma apoditticamente che il
bene della vita è indisponibile, mentre proprio il diritto al
rifiuto di cure, ormai largamente e ripetutamente esercitato,
dimostra che così non è.
Se l’ordinanza avesse ripercorso correttamente l’itinerario
costituzionale, sarebbero stati evitati errori e sgrammaticature.
L’articolo 32 fornisce una linea nitida: la salute è diritto
fondamentale dell’individuo, non possono essere imposti trattamenti
sanitari se non per legge, e mai la legge può violare "i limiti
imposti dal rispetto della persona umana". Poiché per salute deve
intendersi "il benessere fisico, psichico e sociale" della persona
(questa è la definizione dell’Organizzazione mondiale della sanità,
accolta nel nostro sistema), questo vuol dire che il governo
dell’intera vita è fondato sulle libere decisioni degli interessati.
Poiché nessuno può essere obbligato ad un trattamento sanitario,
l’argomentazione dell’ordinanza deve essere rovesciata: la mancanza
di una legge rende illegittimo il trattamento, non la richiesta di
interromperlo. Poiché nulla può esser fatto che violi la dignità,
"il rispetto della persona umana", questo vuol dire, soprattutto in
situazioni estreme e drammatiche, che nessuno può imporre la
prigionia della sofferenza.
L’ordinanza è una occasione mancata, e mi auguro che le sue molte
storture possano essere corrette se i legali di Welby decideranno di
impugnarla, anche per mettere un freno ad una regressione culturale.
Ma fraintendimenti e rischi non si fermano qui. Che cosa avverrà
quando verrà reso noto il parere del Consiglio superiore di sanità,
chiesto con una certa approssimazione, visto che a questo organismo
non spetta la decisione su casi singoli? Se dirà che Welby non è
oggetto di un accanimento terapeutico, e mi sembra difficile, non
per questo escluderà la legittimità della richiesta di rifiuto di
cure, dato che le questioni stanno su piani diversi, come ho già
ricordato. Ma se riconoscerà l’accanimento terapeutico, scatterà
l’articolo 14 del codice di deontologia e il medico sarà obbligato
ad interrompere il trattamento, con tutte le ovvie cautele
necessarie per evitare ulteriori e inutili sofferenze.
Guardando ai compiti del legislatore, si insiste nel dire che
problemi come questi saranno risolti dalla legge sul testamento
biologico. Continuo ad essere sbalordito da questa ulteriore
confusione, poiché quel tipo di documento riguarda la situazione del
morente incapace di manifestare la propria volontà, mentre
Piergiorgio Welby è lucidissimo e determinato nella scelta intorno
al modo di porre fine alla sua vita. Anche questa operazione di
pulizia concettuale è indispensabile, per impedire che la già
difficile discussione sul testamento biologico venga complicata dal
caricare su di essa altre e improprie finalità.
Mi è tornato alla memoria, in questi giorni, quel che nel 1970 Paolo
VI scriveva al cardinale Villot, responsabile dei medici cattolici:
«Pur escludendosi l’eutanasia, ciò non significa obbligare il medico
ad utilizzare tutte le tecniche della sopravvivenza che gli offre
una scienza infaticabilmente creatrice (…). Il dovere del medico
consiste piuttosto nell’adoperarsi a calmare le sofferenze, invece
di prolungare il più a lungo possibile, con qualunque mezzo e a
qualunque condizione, una vita che non è più pienamente umana».
L’ordinanza romana avrebbe potuto mettere il buon diritto in
sintonia con la vita, restituendole l’umanità. Non lo ha fatto. Ma
non può interrompere un difficile cammino di incivilimento che
porterà, anche in Italia, a poter pubblicare un sereno annuncio
della morte di una persona come quello apparso il 6 dicembre sui
giornali del Canton Ticino, dove il fratello dello scomparso
ringraziava i medici che l’avevano "portato a una morte dolce e
indolore come lui desiderava, senza nessun accanimento terapeutico". |