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LA NUOVA RIFORMA
COSTITUZIONALE APPROVATA DAL PARLAMENTO
MA LA DEVOLUTION PRODUCE
CITTADINI DI SERIE
"B"
Famiglia cristiana n. 48 2005
Se andrà in porto la nuova
legge e soprattutto il progetto di federalismo fiscale, chi è nato in Lombardia,
dove si producono più entrate, sarà curato meglio di chi è nato in Calabria.
Il fatto più notevole della politica italiana in queste settimane, cioè l’approvazione definitiva della riforma costituzionale da parte del Senato in seconda lettura, non può e non deve essere oscurato dalle contemporanee polemiche sulla laicità dello Stato e sulle pretese "ingerenze della Chiesa": polemiche così legate all’inizio della campagna elettorale da non poter essere giudicate degne di seria considerazione, di là dai possibili effetti immaginari a pro di una parte o dell’altra.
Qualche settimana fa segnalavamo la necessità di non fermarsi, a proposito della riforma della Costituzione, ai rilievi critici puramente formali, e citavamo a esempio il tabù che tali riforme debbano per forza nascere con il consenso generale delle forze parlamentari: la più celebrata delle Costituzioni democratiche moderne, quella degli Stati Uniti d’America, fu approvata nel 1788 dopo la ratifica dei tredici Stati allora facenti parte della Confederazione, ottenuta con maggioranze molto stentate soprattutto nei due Stati più importanti, Virginia e New York.
Quello che conta è la sostanza. Per giudicarla occorre ovviamente leggere parola per parola i 52 articoli riscritti (su 134) della Costituzione riveduta nel 2001 dal Centrosinistra. Questa lettura è a volte faticosa, al limite dell’incomprensibile: l’articolo 70 della Costituzione del 1948 era brevissimo (nove parole in tutto) e chiarissimo: «La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle Camere». Nella nuova versione appena approvata dal Centrodestra, la cosiddetta riforma della "devolution", il medesimo articolo sanziona la decisione di distinguere le funzioni della Camera da quelle del Senato, che d’ora in poi si chiamerà "federale", e per farlo impiega 717 parole, necessarie fra l’altro a spiegare come si comporranno gli eventuali (e possibili, anzi probabili) conflitti fra Governo e Parlamento su ogni singola legge.
L’articolo più modificato è il 117, che elenca espressamente le materie sulle quali la potestà legislativa "esclusiva" spetterà alle Regioni: «assistenza e organizzazione sanitaria; organizzazione scolastica, gestione degli istituti scolastici; definizione della parte dei programmi scolastici e formativi di interesse specifico della Regione; polizia amministrativa regionale e locale».
Il che vuol dire almeno due cose. Uno: aumenteranno le spese per la burocrazia, visto che risulterà impossibile trasferire dallo Stato alle Regioni tutto il personale pubblico operante nella sanità, nelle scuole, nella polizia amministrativa. Due: questa riforma non potrà essere attuata senza il cosiddetto federalismo fiscale, che in parole semplici vuol dire: se hai avuto la fortuna di nascere in Lombardia, dove si producono molte entrate fiscali che verrebbero utilizzate in loco, saresti curato meglio che se fossi nato in Calabria, dove se ne producono di meno.
An si dà il merito di aver
introdotto nell’articolo 127 la nozione di "interesse nazionale", che verrebbe
tutelato dal Governo centrale nel caso di leggi regionali che lo contrastino: ma
non sarà compito facile, tenendo conto che quattro dei 15 membri della rinnovata
Corte costituzionale, chiamata infine a dirimere quei conflitti, saranno eletti
dal Senato regionale. Insomma, ci saranno italiani di serie A e di serie B. Ecco
che ne pensa il costituzionalista Renato Balduzzi, presidente del Meic (gli ex
Laureati cattolici): «È una soluzione confusa e ideologica che porterebbe a una
doppia esclusività (statale e regionale) su queste materie, creando conflitti
insolubili e svantaggi per i settori più deboli del Paese».