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Repubblica.it 17-11-2005
 
Riforma costituzionale - quell'ingenua illusione

di Giuseppe D'Avanzo

ANCORA oggi c'è chi pensa che della riforma della Costituzione, alla fine, non se ne farà nulla. Il referendum la cancellerà, si dice con avventatezza. Nel mondo politico, della cultura e dell'informazione, per non parlare dell'opinione pubblica, c'è chi è - ancora oggi - fiducioso che "il limite" non sarà oltrepassato. L'ingenua illusione può provocare disastri imponenti se non si affronta con realismo quel che è accaduto al Senato con l'approvazione della "Riforma dell'ordinamento della Repubblica" (primo firmatario Silvio Berlusconi). Ha vinto una cultura politica che crede sia la forza il reale fondamento della convivenza umana. L'idea è antica.

Fu di Machiavelli, è stata aggiornata nel ventesimo secolo da Max Weber e Carl Schmitt. Nella sua naiveté Berlusconi ne è, nel mondo occidentale, l'interprete più nitido. Egli si riconosce un'eccezionale autorità personale che può illuminare soltanto chi ha, per la politica, una vocazione. Vive per essa e non di essa (come, al contrario, quei "funzionari di partito" che gli sono avversari). Egli vuole esercitare il potere per realizzare, a vantaggio della comunità, la propria capacità di dare valori, significato e indirizzo alla vita secondo una "concezione del mondo" maturata con successo "in azienda" e in ogni altra "impresa" affrontata.

È naturale, è coerente - a pensarci - che questa volontà e questo potere carismatico abbiano voluto consolidarsi in una Costituzione. Nell'humus istituzionale di un sistema democratico pluralista e pluripartitico, Berlusconi è a disagio. Incontra ostacoli, lungaggini, barriere, balances che gli fanno venire (ammette) "l'orticaria". Burocrazie, partiti, governo, Parlamento, organi di garanzia, magistrature, calcoli elettorali, lo condizionano, lo appesantiscono. Avviliscono i suoi poteri a "mediazione dei conflitti". Li riducono soltanto alla snervante direzione dell'agenda di governo.

Se questo è vero, pare un errore pensare che la nuova Costituzione sia il frutto di una congiuntura politica che ha voluto (dovuto) concedere a ognuno dei partiti di governo una bandierina da sventolare in questa, e nella prossima, campagna elettorale. Berlusconi ha bisogno di questa Costituzione per "cambiare passo", dopo la prima stagione legislativa. Si prepara ad esercitare più concretamente la forza che rimane, nella sua cultura politica naif ma quanto consapevole, lo strumento essenziale per l'organizzazione della società e l'esercizio del potere politico.

È quel che annuncia la "Riforma dell'ordinamento della Repubblica" che frantuma il sistema costituzionale come sistema di equilibri e di reciproche garanzie. Semplificato e irrigidito, il sistema "riformato" concentra e personalizza il potere politico. Nasce un vertice monocratico del potere, eletto plebiscitariamente. È dotato di strumenti che gli consentono di governare senza mediazione e di controllare la maggioranza condizionando con voti bloccati la volontà parlamentare perché dispone liberamente della "vita" della legislatura.

Come ha avuto modo di dire già due anni fa il presidente (ora emerito) della Corte Costituzionale Valerio Onida, questo scenario "non significa democrazia più immediata, ma meno democrazia". Il passo successivo non è difficile immaginarlo perché in controluce già affiora di tanto in tanto. Le categorie del "politico" che quel vertice monocratico e cesarista maneggerà saranno "il bene" e "il male", "l'amico" e "il nemico", "l'uguale" e "il diverso"...

Conviene, come sollecita Mario Pirani, "svegliarsi", rimboccarsi le maniche, riflettere, cercare di capire, al di là dello sconcerto e dell'indignazione. Nessuno deve pensare che sia facile, capire. Ancora ieri, era complicato venire a capo di quanti articoli della Carta siano stati riscritti dal Polo. Per Michele Ainis ne sono stati "modificati 52 e aggiunti altri 3 di sana pianta". Per Andrea Manzella ne sono stati "cambiati 53". Per Sergio Bartole, presidente dell'Associazione costituzionalisti italiani, "la Costituzione cambia in ben 48 articoli". Altre riviste (come Questione Giustizia 1/2005) sostengono che il testo "sostituisce o modifica 49 degli 80 articoli della seconda parte della Costituzione".

52, 55, 53, 48 o 49? Si tratta della Carta costituzionale. Non è irrilevante che neppure addetti eccellenti sappiano concordemente dirci quanti sono gli articoli riscritti o aggiunti. Questa incertezza non è muta. Sono contraddizioni che ci svelano quanto debole e affrettato sia stato il dibattito culturale e politico intorno a una faccenda decisiva per il futuro della democrazia italiana. Forse è utile chiedersi perché questo è accaduto e azzardare anche una risposta.

Il falso mito delle riforme costituzionali, come una malattia, ha contagiato l'intero quadro politico. Tutti. Laici e cattolici. Destra, centro e sinistra. Il contagio, si può dire, dura da vent'anni e ha un suo primo epilogo con il referendum sul sistema proporzionale. Quel giorno, la nostra democrazia cambia pelle. Da "democrazia organizzata", come spiega Mario Dogliani, (organizzata perché fondata sulla mediazione dei partiti) si trasforma in "democrazia individualistica" (perché fondata sul rapporto immediato tra singolo e rappresentanti).

In questo slittamento la Costituzione, approvata il 22 dicembre del 1947, entrata in vigore il primo gennaio del 1948, sembra deprezzarsi, svalutarsi. Appare "invecchiata". Ma le Costituzioni, se vitali, non invecchiano. La più antica delle Costituzioni scritte, quella degli Stati Uniti d'America, nacque il 17 settembre del 1787; fu integrata con i dieci emendamenti del Bill of rights (carta dei diritti) l'anno dopo (1788) e da allora, in 217 anni, dei 10.000 emendamenti proposti ne sono stati approvati soltanto 17 (l'ultimo nel 1992).

La nostra Costituzione, messa sotto pressione, ha dovuto mostrare in questi anni tutta la vitalità dei suoi verdissimi 57 anni. Se non ci si lascia acceccare dal falso mito, lo si può constatare a occhio nudo. E' stata accusata di indebolire il sistema decisionale del governo troppo esposto agli umori del Parlamento. Al contrario è il Parlamento a vivere un'infelice crisi di ruolo mentre le pratiche in uso - i tempi garantiti della discussione in aula; l'ampio uso della questione di fiducia; i maxiemendamenti governativi... - offrono all'esecutivo un vigoroso potere decisionale.

È stato detto che la Carta impedirebbe la stabilità e la continuità dei governi. In realtà, da quando il Parlamento è stato eletto, prevalentemente con il maggioritario (dal 1994), sono stati in carica sei governi, ma si sono succedute al governo quattro maggioranze di cui tre scaturite dal voto. È stato detto che la Costituzione offre al "potere partitocratico" il modo di allungare le mani sulle istituzioni.

È sempre più evidente che il ruolo di mediazione dei partiti tra istanze sociali e istituzioni è quasi del tutto venuto meno. Si dice che è colpa della Costituzione se abbiamo un sistema politico così frammentato. Un sistema politico, però, non è il frutto delle regole del sistema costituzionale, ma delle regole del sistema elettorale (che nulla hanno a che fare con la Carta).

Si può dire allora che - da quando il "mito" delle riforme costituzionali è diventato invasivo e vincente - il sistema politico in tutti i suoi segmenti ha preteso di ottenere, come sostiene Onida, "attraverso le regole costituzionali, la coesione interna delle coalizioni politiche" che è appunto il lavoro, la quotidiana "fatica" dell'azione politica. Quel che la politica non è riuscita a conservare o proteggere o innovare, lo ha chiesto alla rigidità della Costituzione. È il passo laterale che ha sfigurato l'idea della Costituzione. Da motore della politica è diventata cornice. Da tabernacolo di valori e di programmi per realizzarli si è trasformata in strumento tecnico per dare robustezza al potere politico.

Non si può negare che in questa interpretazione svalutativa della Carta è rimasta intrappolata anche l'opposizione di oggi (il governo di ieri). Le preoccupazioni che il centrosinistra propone in queste ore possono esserne una conferma. L'allarme maggiore sembra riguardare "i diritti", come se la Costituzione si rinchiudesse soltanto nel rapporto tra i singoli e i diritti costituzionali.

Sembra quasi che la Carta debba essere affare di Corti Costituzionali, di giudici, di garanzie e non anche l'impegno comune che custodisce un modello di società condiviso, la rappresentazione di un fine e di un futuro collettivo. È proprio vero che bisogna "svegliarsi". Quel che attende il Paese con il referendum è un confronto tra culture politiche. Della cultura "cesaristica" di Berlusconi si sa e si è detto, ma quella che ha ispirato la Costituzione del 1947 dov'è? È ancora viva? Se è viva, perché tace, perché non si mostra?