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TRE
FERITE ALLE ISTITUZIONI
ANDREA MANZELLA
ORA, manca solo lo
«scivolo» al Senato: e la devolution sarà pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale.
Non però come una legge effettiva di revisione costituzionale. Ma come un
progetto approvato sotto condizione. La condizione della conferma da parte di un
referendum popolare. Che certamente ci sarà: e certamente l´affonderà.
E tuttavia questo progetto, benché abbia il destino segnato, suscita un
malessere che va oltre il normale dissenso giuridico e politico. Non tanto
perché sarà usato come bandiera elettorale, sia pure di carta, da un partito di
ristretti confini territoriali e di ancor più angusta cultura storica. Ma perché
è stato approvato con la copertura politica e la connivenza parlamentare di
partiti che nella loro ditta recano scritte come «Italia» e «nazionale».
Dalla devolution al
proporzionale
tutte le ferite alle istituzioni
Questo uso adulterato di
posizioni che si richiamano al profondo senso unitario del Paese impone non solo
una grave questione costituzionale ma una ancor più grave, se possibile,
questione di coscienza. Una questione che rischia di dividere, con durature
conseguenze, al di là dei cicli elettorali, coloro che a questo stravolgimento
costituzionale si oppongono e coloro che concorrono ad attuarlo. Nessuno può
dunque illudersi che si tratti di frattura marginale da ridurre prima con
un´approvazione provvisoria «per finta», fatta per far contento qualcuno, e poi
con un referendum liquidatorio. L´attentato alla Costituzione vale (e pesa)
quanto la sua violazione.
C´era una volta l´idea di «arco costituzionale» Non se ne parla più, ma non è
tramontata. Essa rinasce infatti tutte le volte che vi è negazione delle ragioni
fondative della nostra Costituzione, come espressione dell´unità politica della
comunità nazionale. In questi momenti o si è dentro o si è fuori. Certe scelte
di verità non consentono vie di mezzo.
I nostri costituzionalisti, di ogni tendenza, hanno scritto contro questo
progetto. Alcuni denunciando le rotture di equilibri e di garanzie tra governo e
parlamento, tra Stato e regioni, tra la parte valoriale della Costituzione (i
diritti e i principi) e la sua parte strumentale (i meccanismi istituzionali).
Altri puntando sugli aspetti funzionali: gli effetti paralizzanti di certi
congegni improvvisati (come per la relazione tra Camera e Senato). Questo
complessivo giudizio negativo risulta però ora aggravato, per il sopravvenire di
un progetto elettorale, radicalmente diverso da quello attuale. Il ritorno,
addirittura, dal sistema maggioritario al sistema proporzionale. La legge
elettorale, anche se adottata nella flessibile forma della legislazione
ordinaria, non può considerarsi infatti separatamente dagli istituti
costituzionali e dal loro funzionamento. Essa ne è, semplicemente, il telaio
portante.
A questo punto, un ordinario buon senso, al sopraggiungere di una proposta
elettorale – che ha imboccato, per prepotere di maggioranza, una rapida corsia
di scorrimento – avrebbe consigliato di fermarsi. Per «incrociare» il già maturo
progetto costituzionale con il progetto elettorale: per farne una lettura
comparata, per verificarne le coerenze, per eliminarne le contraddizioni.
Niente. Si prosegue su piani separati come se una intima logica di
rappresentanza e di governo non obbligasse a legare i due progetti.
Si dice che a nulla varrebbe questa pausa di controllo. Perché i regolamenti
della Camera e del Senato non consentono varianti e neppure la votazione dei
singoli articoli. è una fase, appunto, di «scivolo». In questo modo si svela
però la sostanziale irragionevolezza e la illegittimità costituzionale di quelle
norme regolamentari. Irragionevolezza, perché nel trascorrere dovuto del tempo
tra una deliberazione e l´altra possono sorgere, come in questo caso esemplare,
ragioni di modifiche o, addirittura, di radicale novazione del progetto. Ragioni
appunto che oggi vengono ignorate. Illegittimità costituzionale perché,
vietando, nella seconda deliberazione legislativa, la approvazione articolo per
articolo, quelle norme si scontrano frontalmente con l´art. 72 della
Costituzione che quella votazione invece impone. Quando nel lontano 1958 queste
norme impedienti furono approvate, parlamentari di lunga esperienza (Alfonso
Tesauro, Tozzi Condivi) capirono la loro pericolosità. Ma esse «passarono»
ugualmente. Era il tempo in cui risultava impossibile approvare una legge
costituzionale a maggioranza semplice (il referendum confermativo fu regolato
solo a partire dal 1970). E ancora non era venuta la sentenza della Corte
costituzionale del 1959 a dire che i regolamenti parlamentari non possono
violare le (poche) norme sul procedimento legislativo fissato in Costituzione.
Giuristi famosi come Mortati e Barile ebbero infatti a criticarle poi,
sostenendo la necessità costituzionale di un «ciclo legislativo completo» anche
nella seconda deliberazione.
In conclusione, però, oggi le Camere non sono poste in grado - per un
autovincolo ormai privo di senso giuridico e che, per obbedienza alla
Costituzione, dovrebbe essere disapplicato dai presidenti d´Assemblea - di
valutare il progetto costituzionale alla luce della rivoluzione elettorale in
arrivo.
In realtà, lungo e articolato, e non privo di capovolgimenti di fronte, sarebbe
il giudizio sui 53 articoli di modifica: nell´ottica di in un nuovo regime
elettorale. Ma qui, per ora, dobbiamo limitarci a quel che cambia per la
devolution: riconosciuta ormai nel comune linguaggio, e con quel nomignolo, come
la proposta-simbolo dell´intero progetto. E anche quella che più peserà
nell´opinione pubblica: a cominciare dalle elezioni del 9 aprile 2006 (il giorno
in cui gli italiani si giocheranno praticamente, in una sola puntata, un
favoloso tris: la Costituzione, la presidenza del consiglio e la presidenza
della Repubblica).
E allora, già sappiamo che in nome della devolution, si vogliono arrecare tre
profonde ferite al nostro assetto repubblicano. La ferita dell´esclusività: per
cui, con concezione sconosciuta perfino negli Stati federali più avanzati, le
regioni avrebbero legislazione «esclusiva» non solo in materie essenzialmente
«nazionali» come scuola e sanità, ma anche «in ogni altra materia non
espressamente riservata alla legislazione dello Stato» (art.117). La ferita
della nazionalità: quella per cui si è introdotta la distinzione tra «Nazione» e
«Repubblica» per la rappresentanza parlamentare (art. 67). In nome di essa, la
Lega ha potuto dire che l´Italia è uno «Stato eterogeneo dal punto di vista
etnonazionale»; e che per i «padani», gruppo nazionale, la «lealtà» verso la
Nazione e quella verso lo Stato «sono distinte e possono entrare in competizione
tra loro». La ferita della frammentazione territoriale: quella per cui al
referendum per «formare nuove regioni» possono partecipare soltanto i «cittadini
residenti nei comuni e nelle province di cui si propone il distacco dalla
regione» esistente. È la norma (art. 53, commi 13, 14 del progetto) che farebbe
saltare per cinque anni le precise garanzie costituzionali richieste
dall´attuale art. 132.
Ebbene, ognuna di queste tre ferite verrebbe ora esasperata dal progetto
elettorale di introdurre un «premio di coalizione regionale». Per eleggere il
Senato, ramo del Parlamento nazionale, ogni regione farebbe infatti «Stato a sé»
e avrebbe un «suo» moltiplicatore di voti per la propria maggioranza politica.
Non, come già avviene, per autogovernarsi: ma per concorrere a governare la
Repubblica. Non ci vuole molto per capire che le pulsioni separatistiche
racchiuse nelle idee di «esclusività» legislativa, di «nazione regionale», di
scissioni e di proliferazione, trovano nel «premio di coalizione regionale» il
più potente dei motori e degli avalli politici.
Questa è la trama contro l´Italia e la sua storia che si sta dipanando sino in
fondo in questo finale di legislatura. Chi fa analisi costituzionale deve
noiosamente citare commi e articoli. E non può permettersi un aggettivo come
quello usato da Claudio Magris sul Corriere della Sera del 18 ottobre. Ma certo
definire «ributtante» una riforma costituzionale come questa ha una
straordinaria forza evocativa, propria di una ribellione di coscienza, che
nessuna critica tecnico-giuridica potrebbe mai sognarsi di raggiungere.