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L’intervento
Un dovere patriottico
Oscar Luigi Scalfaro
Ho sperato che non si arrivasse a questo voto, ma la volontà di approvare una
riforma purchessia ha prevalso. Di fronte al voto della sola maggioranza di
Governo ripenso ai 556 eletti il 2 giugno 1946 e all’approvazione della
Costituzione del dicembre 1947 con soli 62 «no». I dati parlano da soli.
Osservo: l’articolo 138, concernente la procedura per la revisione della
Costituzione, non ritengo possa contenere questo stravolgimento dei connotati
della nostra Carta costituzionale.
Oggi il Parlamento è la colonna portante dell’intero edificio costituzionale, ma
qui si vota un Parlamento mortificato.
Così si mortifica il Parlamento
Sia nei rapporti con il Governo, sia per la spada di Damocle sul capo dei
parlamentari dato che il potere di scioglimento passa dal Presidente della
Repubblica al Primo ministro, che ne è l'esclusivo responsabile. Quindi, un
Capo dello Stato inutile e fantasma, chiamato garante della Costituzione: ma
come e con che poteri può essere garante?
Ancora, lo strapotere delle Regioni, specie in materia di sanità e scuola, che
calpesta l'articolo 5 della Carta: «Repubblica, una e indivisibile».
Constatiamo: questa cosiddetta riforma è del tutto inemendabile.
Il «no», quindi, è dovere civile e patriottico. Con il «no» l'appello ai
cittadini, perché dipende da ciascuno di noi che la Costituzione, costata
tanto sacrificio e tanto sangue, non sia travolta nei suoi princìpi e nei suoi
valori, ancora oggi così vivi e così attuali.
Oscar Luigi Scalfaro
La legge
Uccidono
l’Italia unita
Agazio Loiero
Si approva la devolution ed è il trionfo dell’egoismo,
il colpo di spugna all’Italia del primo e del secondo Risorgimento, la
ratifica di quell’oscuro e segreto patto tra Berlusconi e Bossi che cena
dopo cena - consumata ad Arcore rigorosamente di lunedì - ha retto bene in
questi anni.
Anche Fini, che, insieme a Follini, soffriva quelle “feste de noantri”, dopo
una lunghissima meditazione, ha deciso qualche giorno fa di convertirsi alla
corte di Gemonio. «Un atto dovuto», ha commentato in forma criptica. Non si
capisce se all’unità nazionale o alle sue ambizioni di diventare premier.
Si approva un testo costituzionale che stravolge i principi fondanti
dell’unità del Paese.
Quei principi - solidarietà e uguaglianza - contenuti nella prima parte
della Costituzione che erano apparsi fino ad oggi intangibili.
Un giorno amaro, dunque, dovuto più agli algidi numeri della democrazia che
al sentimento vero della maggioranza dell’Aula, giocati peraltro in coda
alla legislatura quando la mente dei parlamentari è volta alle insidie della
ricandidatura. Sono certo che, attraverso lo strumento del referendum,
saranno gli italiani a cancellare questa parentesi buia della nostra vita
associata. Perché, come ha ricordato un paio di anni fa Leopoldo Elia a
Milano, costretto a diventare, su questo tema, all'improvviso
rivoluzionario, «il Parlamento è solo la penultima istanza. L'ultima è
rappresentata dal voto dei cittadini». C'è poi da rilevare un fatto curioso.
La maggioranza, nel tentativo di scongiurare un esito elettorale disastroso,
sta tentando di incastonare il referendum tra un tour de force elettorale e
la stagione delle vacanze. L'obiettivo è la diserzione delle urne. Penso
invece che sia del tutto inutile arzigogolare. Il centrodestra potrà
costruire tutte le strategie del mondo ma voglio ricordare che il referendum
confermativo è privo di quorum. Gli italiani, pertanto nel migliore dei
casi, si divideranno tra quelli risoluti ad abbattere il testo
costituzionale e quelli divorati da mille dubbi che sono in prevalenza nel
centrodestra. Le paure, gli umori degli italiani sono quello che sono.
Difficile immaginare che i meridionali, anche quelli che votano Berlusconi,
comprerebbero una macchina usata da Bossi o da Calderoli. D'altra parte, un
giornale autorevole come Il Corriere della Sera, che esce a Milano, nel
cuore dell'immaginaria Padania leghista, ha bene interpretato il sentimento
di unità nazionale se è arrivato, all'epoca della seconda lettura, a
titolare in prima pagina: «La Patria perduta». Una frase breve, malinconica
che evoca memorie risorgimentali e che comunque non compariva su quel
giornale probabilmente dai tempi della disfatta di Caporetto. La verità è
che con la devolution - venga o non venga approvata dagli elettori - muore
un modo d'essere degli italiani e muore l'idea stessa di unità nazionale per
la quale si sono battute lungo l'arco dei secoli generazioni di italiani. La
conseguenza più grave è infatti di ordine psicologico. Essa inciderà
profondamente nel modello di convivenza civile del nostro paese. Alcuni
capisaldi della nostra cultura costituzionale, con cui siamo convissuti,
saranno comunque spazzati via dalla nostra vita, persino dal nostro
linguaggio. E sarà sancita ufficialmente l'esistenza di tanti territori a
diverse velocità. Di quell'Italia unita sognata nel tempo da Dante a
Manzoni, molto prima del 1861, non resterà più nulla. Neanche il ricordo.
Quella lettera che campeggia nello studio di Ciampi al Quirinale, in cui si
proclama l'Italia unita, libera e indipendente, spedita da Cavour a
D'Azeglio, circa 150 anni fa, dovrà essere strappata in fretta perché ormai
priva di senso.