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torna a Anni abbastanza crudeli
Così
comincia
il XXI secolo
Prigionieri
nel cuore
di New York
Lo scrittore racconta
di PAUL AUSTER
NOSTRA figlia ha quattordici anni e oggi ha iniziato la
scuola superiore. Per la prima volta in vita sua, ha preso la metropolitana da
Brooklyn a Manhattan, da sola.
Questa sera nostra figlia non tornerà a casa. Le metropolitane non funzionano
più a New York.
Mia moglie ed io le abbiamo trovato un posto sulla Upper West Side, da amici,
per passare la notte.
Meno di un'ora dopo che in metropolitana era passata sotto al World Trade
Center, le Torri gemelle si sono schiantate al suolo. Dal piano superiore della
nostra casa, possiamo vedere il fumo che si leva nel cielo sopra alla città. Il
vento oggi soffia verso Brooklyn, e l'odore degli incendi è penetrato in ogni
stanza. E' un odore terribile, un odore acre, di plastica bruciata, di cavi
elettrici, di materiali da costruzione.
La sorella di mia moglie, che vive a TriBeCa, a dieci o dodici isolati da quello
che una volta era il World Trade Center, ci ha chiamato per raccontarci le urla
che ha sentito dopo che la prima Torre è crollata. Alcuni suoi amici, che
vivono in John Street, molto più vicina al luogo della catastrofe, sono stati
evacuati dalla polizia dopo che il portone dell'edificio era crollato per
l'impatto della torre. Hanno dovuto camminare, dirigendosi verso Nord, in mezzo
a detriti e rovine che contenevano molte parti di corpi umani.
Dopo aver guardato tutta mattina la televisione, sono uscito con mia moglie e ho
camminato nel mio quartiere. Molte persone si coprivano il viso con i
fazzoletti, alcuni indossavano mascherine. Mi sono fermato e ho scambiato due
parole con il mio barbiere che con una espressione triste stava sulla soglia del
suo negozio vuoto. Mi ha raccontato che poche ore prima una donna che è
proprietaria di un negozio di antichità accanto al suo aveva parlato a telefono
con il genero, intrappolato nel suo ufficio al 107 piano del World Trade Center.
Poco dopo, la torre è crollata.
Oggi quel luogo è un luogo di morte. Mi spaventa pensare quante persone vi sono
state uccise. Tutti sapevamo che questo poteva accadere. Per anni abbiamo
parlato di una simile possibilità, ma ora che la tragedia ci ha colpiti, è
molto, molto peggio di quello che chiunque fra noi avrebbe potuto immaginare.
L'ultimo attacco in terra americana perpetrato da stranieri è stato nel 1812.
Non esistono altri precedenti, e le conseguenze di questo assalto saranno senza
dubbio terribili. Ancora più violenza, più morti, più dolore per tutti. Così,
ora, è infine iniziato il Ventunesimo secolo.
(Traduzione di Anna Bissanti)
Questa testimonianza è stata scritta nelle ore successive all'attentato da Paul
Auster, uno tra i più affermati scrittori americani delle ultime generazioni.
Tra i suoi libri "Trilogia di New York", "Smoke",
"Sbarcare il lunario", "Timbuctu".
La
morte
per immagini
Quando
nell'obiettivo
si vede la morte
Com'è difficile raccontare l'orrore
di SEBASTIAO SALGADO
ABBIAMO visto delle immagini terribili, terrificanti, e
terribilmente spettacolari. Le abbiamo già conosciute in situazioni diverse,
nell'immaginario di Hollywood, nella fabbrica del cinema delle catastrofi, e la
familiarità di queste immagini le rende ancora più insopportabili.
L'intero attentato è stato concepito pensando alle immagini, come lo storyboard
di ciò che è avvenuto, la cronologia di un film riempito di esseri umani vivi,
veri, nell'atto di morire. La preparazione e la progettazione degli attentati
hanno tenuto conto in modo maniacale dell'effetto comunicativo della
televisione, la precisione degli eventi e la loro successione sono qualcosa che
non ha mai avuto un effetto così dirompente e lascia senza parole.
Inoltre il linguaggio comunicativo delle immagini è comprensibile
universalmente e ha reso, se possibile, ancor più deflagranti gli eventi. Ieri
ho capito una cosa incredibile: non ci sono limiti, non esistono più quei
confini che pensavamo rendessero più tranquilla la nostra vita; distruggere
talmente tante vite in un solo colpo, è un atto da criminali assassini compiuto
da persone che hanno scelto di diventare tali, che hanno la pretesa di parlare a
nome di un mondo che è perduto, di lanciare un appello da parte di chi rischia
di scomparire. Le facce smarrite e disperate delle vittime dell'attentato non
sono diverse dalle facce dei milioni di disperati che ho visto in tutti questi
anni, consapevoli di una vita che non gli offre più niente, di un mondo che li
ha lasciati indietro, che ha deciso la loro perdizione.
La foto della donna coperta di polvere, avvolta in una nuvola gialla, alla
ricerca di un rifugio dopo l'attentato mi richiama le immagini dei lavoratori
dello zolfo in Indonesia, schiavi per pochi soldi di una situazione economica
che li ha messi da parte.
Non ho commenti per l'immagine delle persone che si gettano dal World Trade,
sono talmente scioccato da quello che ho visto. Microscopici disperati esseri
umani che cadono da una costruzione gigantesca, massiccia, apparentemente
incrollabile, caduta in pochi minuti. Guardando le immagini ho naturalmente
pensato ai miei «confratelli» fotografi impegnati a documentare questa
tragedia. Realizzare delle fotografie in simili situazioni è estremamente
difficile e i fotografi rischiano anch'essi, molto più di quanto si pensi, nel
loro lavoro. C'è bisogno di lavorare velocemente, sintetizzare un evento di
queste proporzioni in poche immagini, scegliere le inquadrature: tutto ciò
richiede una prontezza e una presenza di spirito eccezionali. I fotografi sono
spesso accusati di cercare il protagonismo, di volersi mettere in mostra, ma
sono dei testimoni; spesso gli unici testimoni sul posto. Questi drammi, lo si
voglia o no, sono lo specchio della società e i fotografi portano questo
specchio per tutti.
Nel mondo di oggi non c'è ormai più protezione, come quella che abbiamo
immaginato nei decenni trascorsi; ma per milioni di esseri umani appartenenti a
quel mondo che si è deciso di lasciare indietro, cui si è rubata la dignità,
questa protezione non c'è più da molto tempo. E' tutto livellato. Lo sguardo
attonito nelle fotografie di ieri di Colin Powell, di Chirac, di Bush, di Arafat,
lascia capire quanto tutti fossero impreparati a questo evento. Bush sbaglia a
parlare di vendetta; è piuttosto il momento della riflessione, una riflessione
obbligata.
Il potere esercitato quotidianamente all'interno di un sistema di certezze è
stato distrutto, quel che si credeva fosse per sempre non è più. Le cause di
tutto ciò vengono da lontano. E' cominciata una nuova era, e dobbiamo viverla
facendo uno sforzo di elaborazione, di pensiero, rimettendo in discussione ciò
che accompagna abitualmente le nostre vite. L'equilibrio preesistente
evidentemente non era tale, e dobbiamo sforzarci di costruirne uno nuovo, a
partire da altri valori, attraverso un profondo ripensamento.
Gli attentatori hanno agito con alle spalle una grande organizzazione, ma quel
che è più drammatico è che milioni di persone si sentono rappresentati da
tutto ciò. Per quelli la cui vita non ha più un valore, questi eventi non sono
diversi da quanto successo in Ruanda, o in decine di altri posti del mondo. La
condivisione del rischio fa sì che diminuiscano le disuguaglianze: la
destabilizzazione sembra possibile, in ogni momento.
La vita che una moltitudine di persone del Terzo Mondo è costretta a vivere, la
loro abitudine all'assurdo rende più comprensibile e più accettabile ai loro
occhi un evento basato sulla logica dell'assurdo.
E
la vecchia sinistra si tormenta sulla solita "questione yankee" |
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dal Repubblica - 14
settembre 2001 |
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LA NUOVA ALLEANZA DEI VALORI |
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dal Repubblica - 14
settembre 2001 |
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Il nemico dentro di noi
Ieri mattina presto a Gerusalemme, mentre ero ancora sdraiato dopo una notte insonne, la televisione sintonizzata su Cnn e l'alba che si alzava sui luoghi santi, le mie orecchie hanno in qualche modo afferrato una frase del segretario americano per i trasporti, Norman Mineta, riguardanti le nuove precauzioni che saranno messe in atto negli aeroporti statunitensi sulla scia degli indescrivibili attacchi terroristici di martedì: "Non ci saranno più check in esterni agli aeroporti" ha detto. Mi sono immediatamente immaginato un gruppo di terroristi, qui, da qualche parte in Medio Oriente, mentre sorseggiano il caffè guardando Cnn e scoppiano a ridere in maniera isterica: "Ehi, capo, hai sentito che cosa hanno detto? Abbiamo appena fatto saltare in aria Wall Street e il Pentagono, e la loro risposta è: mai più check in esterni?"
Non vorrei criticare il Signor Mineta. Sta facendo quello che può. Non nutro alcun dubbio sul fatto che il team di Bush, quando avrà identificato chi ha commesso simili azioni, gliela farà pagare cara. Eppure c'è stato qualcosa di talmente assurdo, inutile e tipicamente Americano nel divieto del check in esterno agli aeroporti, che non ho potuto fare altro che chiedermi: ma il mio paese ha veramente compreso che questa è la Terza Guerra Mondiale? Che se questo attacco è stato la Pearl Harbor della Terza Guerra Mondiale, significa che avremo di fronte una lunga, lunga guerra?
Questa Terza Guerra Mondiale non ci contrappone ad un'altra superpotenza. Contrappone noi, l'unica superpotenza del mondo, il simbolo, la quintessenza dei valori liberali dell'Occidente e del libero mercato, a tutti gli uomini e le donne che, ovunque, nutrono una superpotente rabbia. Molta di questa gente superpotentemente adirata proviene da stati sull'orlo della decadenza nel terzo mondo e nel mondo arabo. Non condividono i nostri valori, sono arrabbiati per l'influenza che l'America ha nelle loro vite, nelle loro politiche, sui loro figli, per non parlare del nostro supporto ad Israele, e spesso incolpano l'America per l'incapacità delle loro civiltà a padroneggiare la modernità. Quello che li rende superpotenti, però, è la loro genialità nel sapere adoperare il mondo informatico, Internet e le sofisticatissime tecnologie che essi disprezzano per attaccarci. Pensateci: essi hanno trasformato i nostri più avanzati aerei per il trasporto civile in missili cruise, manovrati dall'uomo, guidati dalla precisione - una diabolica via di mezzo fra il loro fanatismo e la nostra tecnologia. La Jihad Online. E pensate a quello che hanno colpito: il World Trade Center - il faro del capitalismo americano che li attira e li respinge al tempo stesso, e il Pentagono, l'incarnazione stessa della superiorità militare americana.
Pensate ai luoghi che le bombe-umane Palestinesi hanno colpito maggiormente in Israele. "Non hanno mai colpito sinagoghe o insediamenti o zeloti religiosi israeliani," ha sottolineato Ari Shavit, giornalista dell'Haaretz. "Hanno colpito il negozio della pizza Sbarro, il centro commerciale Netanya, la discoteca Delphinarium. Hanno colpito l'Israele yuppie, non l'Israele yeshiva." E allora, che cosa occorre per combattere una guerra contro simile gente, in un simile mondo? Prima di tutto, noi in quanto Americani non saremo mai in grado di identificare gruppi così minuscoli, spesso stretti da vincoli famigliari, che vivono in posti come l'Afganistan, il Pakistan, o la selvaggia Valle della Bekaa in Libano. Gli unici che possono identificare questi gruppi che vivono nell'ombra e che si trasformano costantemente, gli unici che possono dissuaderli, sono le loro stesse società. Gli ufficiali israeliani potranno dirvi che l'unica volta che non hanno avuto alcuna difficoltà, che hanno avuto il pieno controllo della situazione sulle bombe-umane e sui gruppi radicali palestinesi, come Hamas e la Jihad Islamica, è stato quando Yasser Arafat e l'Autorità Palestinese li hanno ricercati, imprigionati o fermati.
Ecco allora la domanda: che cosa dobbiamo fare noi affinché le società che ospitano i gruppi terroristici agiscano efficacemente e veramente contro di loro? Prima di tutto dobbiamo dimostrare di essere seri e che abbiamo ben compreso che molti di questi terroristi odiano la nostra esistenza, non soltanto la nostra politica.
Le persone che hanno pianificato i bombardamenti di martedì hanno unito il male a livello internazionale con il genio a livello mondiale e hanno ottenuto un devastante risultato. A meno che non siamo pronti a mettere i nostri migliori cervelli al lavoro per combattere contro di loro - il progetto Manhattan Terza Guerra Mondiale - siamo nei guai. Perché mentre questa è stata probabilmente la prima e più importante battaglia della Terza Guerra Mondiale, potrebbe anche essere l'ultima nella quale siano state utilizzate soltanto armi convenzionali non nucleari.
Secondo punto: per troppi anni abbiamo continuato a permettere che andasse avanti il doppio gioco dei nostri alleati in Medio Oriente. Ora deve finire. Un paese come la Siria ora deve decidersi: a Damasco preferisce un'ambasciata degli Hezbollah o una degli Stati Uniti? Se preferisce l'ambasciata degli Stati Uniti, allora non può continuare ad ospitare una galleria di farabutti appartenenti a gruppi terroristici. Questo significa forse che gli Stati Uniti debbano ignorare i problemi dei Palestinesi e i problemi dell'economia musulmana? No. Molti, in quest'area della terra, desiderano ardentemente il meglio dell'America, e non possiamo dimenticare che noi siamo il loro unico raggio di speranza. Ma a proposito dei Palestinesi, gli Stati Uniti illustrarono al tavolo delle trattative di Camp David un progetto che avrebbe concesso a Yasser Arafat molto di quello per cui egli ora afferma di lottare. Forse il progetto americano non era appropriato per i Palestinesi, ma affermare che il terrorismo con i kamikaze sia una risposta giustificata ad esso è assolutamente rivoltante.
Terzo punto: abbiamo bisogno di instaurare un serio e rispettoso dialogo con il mondo arabo e con i suoi leader politici sul motivo per il quale molti dei loro popoli stanno facendo passi indietro. L'Egitto, dopo la guerra del 1967, ha vissuto un periodo di autocritica che ha dato vita ad una paese più forte. Perché nessun leader arabo tollera oggi un simile processo di autocritica? Dove sono i leader musulmani che insegnano ai loro figli ad opporsi agli Israeliani, ma non a uccidersi o a uccidere innocenti civili? La vita è sacra, per quanto brutta possa essere. L'Islam, una grande religione che non ha mai perpetrato nei confronti degli Ebrei l'Olocausto di cui invece si è macchiata l'Europa, è sicuramente travisato quando è trattato alla stregua di un libro di istruzioni per addestrare i suicidi-bomba. Come mai nemmeno un solo leader Musulmano lo ha detto?
Queste sono alcune delle domande che dovremo porre mentre combatteremo la Terza Guerra Mondiale. Sarà una guerra lunga, contro un nemico intelligente e motivato. Quando ho fatto notare ad un ufficiale dell'esercito israeliano quale straordinaria impresa tecnologica debba essere stata per i terroristi dirottare gli aeroplani e poi dirigerli contro i punti maggiormente vulnerabili di ogni edificio, egli mi ha deriso. "Non è poi così difficile imparare a guidare un aereo quando si è già in volo," mi ha detto. "E ricordati che non hanno mai dovuto imparare come si fa ad atterrare."
Già, non hanno dovuto. Dovevano soltanto portare distruzione. Ma noi, al contrario, dobbiamo combattere con modalità che siano efficaci ma non distruggano la stessa libera società che stiamo cercando di proteggere. Dobbiamo combattere duro e atterrare senza danni. Dobbiamo combattere i terroristi come se non esistessero regole, e proteggere le nostre libere società come se non ci fossero terroristi. Non sarà facile.