NUOVI MASSIMALISMI. UN’IDENTITÀ POLITICA PERICOLOSA. DI UMBERTO RANIERI
Anticapitalista,
ideologico, invidioso Ecco il vero antiamericano di sinistra
Il vero antiamericano di sinistra lo abbiamo conosciuto solo negli
anni Novanta. Soltanto allora ha potuto esprimersi finalmente libero
– senza più il vincolo di definire una posizione nei confronti
dell'altro contendente del conflitto bipolare – quel sentimento di
biasimo passionale per tutto ciò che di immaginario gli Stati Uniti
portavano con sé. Soltanto allora, di fronte ad una potenza
definitivamente egemone, quel biasimo ha potuto manifestarsi senza
troppe mediazioni, come prodotto di una stratificazione culturale
complessa, formatasi nel corso dei decenni e che vorrei analizzare.
Con un'avvertenza. L'antiamericanismo è un tratto fondamentale –
genetico, vorrei dire – di una parte della sinistra europea:
quella più fortemente aliena alla responsabilità politica della
guida del mutamento e più attenta alle ragioni dell'identità.
Quella che si definisce essa stessa come non riformista – senza
definirsi massimalista, ma questa è un'altra storia – e che verso
la sinistra riformista ha maturato una contrapposizione almeno pari
a quella usata contro la destra. Ed anche per questo l'antiamericanismo
è uno dei crinali più aspri lungo i quali riformismo e
massimalismo si confrontano ogni giorno.
Il primo strato dell'antiamericanismo di sinistra è certamente
l'anticapitalismo. L'idea che gli Stati Uniti siano la patria del
capitalismo non temperato costituisce l'architrave di questo
pensiero, un'idea sostanzialmente immune dalle trasformazioni
storiche del capitalismo così come dell'anticapitalismo. L'immagine
di un "paradiso dei ricchi" dove tutto è permesso in nome
del denaro accomuna le vignette sugli obesi signori vestiti di
cilindro degli anni Venti alle ultime riflessioni dei nostri critici
contemporanei (solo qualche giorno fa Cofferati e Realacci hanno
scritto di un «mondo dei ricchi che non ammette dissociazioni e
distinzioni»). E giustifica da ultimo l'immagine sorprendentemente
riduzionistica di un unico potere economico planetario ("la
lobby delle multinazionali") dal quale si dipanerebbero le fila
della "globalizzazione neoliberistica". E', appunto, lo
strato più elementare, che ogni giorno ci troviamo di fronte agli
occhi. Vi è poi un secondo strato, meno visibile eppure più
penetrante. Ed è il rifiuto del pragmatismo che informerebbe la
società e la cultura statunitensi. L'idea di un mondo radicalmente
secolarizzato si associa ad una immagine di semplificazione morale,
nella quale scompare qualsiasi motivazione ideale diversa dal
perseguimento del proprio utile o del proprio potere. In questo
secondo caso siamo forse di fronte ad un retaggio propriamente
ideologico della sinistra non riformista europea. Ideologico nel
senso di profondamente legato al bisogno di un orizzonte di
motivazioni trascendenti, quale quello che ha animato larghe parti
della sinistra per tutto il ventesimo secolo. Un orizzonte
organicistico, che in fondo non ha mai pienamente assimilato la
lezione dell'illuminismo. E che ancora oggi reclama un "andare
oltre l'esistente" come tratto qualificante di una sinistra che
sia veramente tale. Un terzo strato, che difficilmente sarebbe
riconosciuto come tale dagli antiamericani di sinistra, è la vera e
propria acredine che una parte degli europei ha sviluppato verso
coloro che considera come i vincitori nella competizione del
ventesimo secolo. Competizione non militare, ma per lo sviluppo e il
benessere. E l'idea che l'Europa sia rimasta indietro su questo
piano, pur avendo partecipato su basi largamente autonome allo
straordinario balzo in avanti della seconda metà del secolo, è ben
presente nella testa dei nostri antiamericani. Salvo essere –
invece che pungolo per l'adozione di politiche in grado di innalzare
la competitività europea – una motivazione di disprezzo.
Sono solo alcuni tratti del profilo del tipico antiamericano di
sinistra. Altri ne vedranno di diversi, con ogni probabilità. Ma
quasi certamente condividerebbero una osservazione finale: l'America
dell'antiamericanismo di sinistra, così come quella di ogni altro
antiamericanismo, è un'America largamente immaginaria. Un altro da
noi che serve a definire un'identità politica, piuttosto che a
comprendere ciò che abbiamo di fronte.
Un'ultima considerazione. Gli sviluppi intervenuti nella complessa
dialettica che ha investito la comunità internazionale circa i modi
con cui affrontare la crisi irachena e che hanno condotto al
riconoscimento della necessità di una nuova risoluzione del
Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, dovrebbero far
riflettere sul carattere semplicistico della tesi che riduce la
nuova strategia di sicurezza degli Usa a null'altro che una
manifestazione di bellicoso unilateralismo. In realtà, come scrive
lo studioso Federico Romero, siamo di fronte ad una strategia di
lungo periodo ed enorme ambizione, la più vasta e radicale
trasformazione della strategia internazionale americana dai tempi
dell'elaborazione del "contenimento" nel 1947. Una
strategia di cui sarebbe imperdonabile nascondersi i rischi e gli
elementi di azzardo. Rischi che tuttavia non cancellano la solida
concretezza di una sfida, le minacce del terrorismo globale, che ben
lungi dall'essere rivolta solo contro Washington, riguarda
direttamente noi e le società nelle quali ci troviamo a vivere.
Sarebbe deprimente se il dibattito europeo si concentrasse solo su
ciò che gli Stati Uniti dovrebbero o non dovrebbero fare.
Rimuovendo così il nodo per noi più urgente: cosa deve fare
l'Europa per affrontare le sfide cui la nuova strategia americana di
sicurezza fornisce risposte. Risposte gravide di rischi ma risposte.
E sarebbe ben misera cosa se a prevalere nella sinistra europea, in
presenza di tali dilemmi, fosse una ondata di antiamericanismo.
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