Roberto Castelli, che molto si dà da fare per diventare il peggior
ministro di Giustizia della storia della Repubblica, appare in tv alle
sette di sera con un sorriso sghembo. Quasi non alza gli occhi dalla punta
delle sue scarpe. C'è da pensare che si vergogni (avrebbe delle buone
ragioni). Il Guardasigilli farfuglia qualcosa per giustificare il nuovo e
lucido tentativo d'annichilire il processo Sme (imputati Silvio Berlusconi
e Cesare Previti).
Castelli, il processo Sme e la verità rovesciata
Dietro a tutto c'è l'interesse privatissimo del premier e la
convinzione che i politici devono essere protetti dalla giustizia comune
Il ministro è consapevole che le sue ragioni sono deboli. Si aggrappa a
una circolare di diciassette anni fa, come un naufrago a un legno. Ignora
deliberatamente leggi e consuetudini
Da
qualche ora ha decretato che il giudice a latere del dibattimento, Guido
Brambilla, deve «immediatamente» lasciare il tribunale e «prendere
possesso» del nuovo incarico di giudice di sorveglianza. Se il giudice
Brambilla fosse costretto a farlo «subito, ora», quel processo sarebbe
morto. Andrebbe rianimato con un nuovo inizio: inutile, perché sarebbe
questa volta definitivamente schiacciato non dalle mosse di Castelli e del
governo, ma dalla prescrizione (il tempo è scaduto: il reato, anche se
commesso, è prescritto).
«Lo imponeva la legge», balbetta l'imbarazzato Castelli. Mentre lo dice,
i suoi occhi vagolano verso il basso. Il ministro sa che non sta
proponendo agli italiani la verità. È consapevole che le sue ragioni
sono deboli e discutibili. Si aggrappa a "una circolare" di 17
anni fa, come un naufrago a un legno. Ignora deliberatamente leggi,
prassi, consuetudini, altre più recenti circolari (e anche il buon
senso). Non gli pesa che quella decisione segnerà la fine di centinaia di
altri processi e la scarcerazione di decine di mafiosi né si cura che con
quella mossa ha annullato (potendo al contrario sanarli con la sola firma)
centinaia di delibere di spesa, licenziamenti, nomine, trasferimenti di
dirigenti, proroghe: atti che, invalidati, incaglieranno i già ansimanti
ingranaggi della macchina giudiziaria.
Non è nemmeno il peggio quel che è accade. Il peggio accadrà. Il
ministro sa che, per la legge, per le circolari del Consiglio superiore
della magistratura esistono strumenti tecnici per permettere al giudice
Brambilla di restare dov'è fino alla conclusione del processo.
Ottenuto il consenso del presidente del Tribunale di sorveglianza (è qui
il nuovo scranno di Brambilla), il presidente del Tribunale (è avvenuto,
avviene, e in decine di casi) può chiedere alla presidenza della Corte
d'Appello di Milano di «applicare» per almeno due anni, nei giorni di
udienza, il giudice al vecchio scranno. E' questo che il dovere d'ufficio
impone al presidente del Tribunale di Milano Vittorio Cardaci (non deve
mandare a vuoto anni di lavoro, non lo fa per i Mario Rossi perché
dovrebbe farlo per Silvio Berlusconi e Cesare Previti?).
Ecco allora quel che Vittorio Cardaci farà oggi. Chiederà
l'"applicazione" del giudice, "rimosso" d'imperio dal
ministro, al processo Sme. Il Consiglio superiore della magistratura
approverà, ratificandola, la decisione. A questo punto, Roberto Castelli
muoverà di nuovo le sue prerogative politiche e amministrative contro
quel processo. Ricorrerà contro la decisione del Csm dinanzi al Tribunale
amministrativo.
Le tecnicalità che seguiranno ora importano nulla perché quel che accade
è fin troppo chiaro anche a chi non vede o sente: il governo non vuole
che si celebrino i processi che vedono imputato il "cittadino Silvio
Berlusconi" e il suo amico Cesare Previti e il ministro di Giustizia
ritiene sorprendentemente di avere la disponibilità di quel processo, di
poterne decidere l'estinzione o la nullità per via amministrativa.
Al fondo di questa aggressione al diritto fondamentale dell'uguaglianza
dei cittadini di fronte alla legge, non c'è solo l'interesse privatissimo
del presidente del Consiglio (anche se spesso assolto o salvato dalla
prescrizione, non vuole correre il rischio di essere condannato per un
reato comune come la corruzione in atti giudiziari). Quel che preoccupa (o
dovrebbe preoccupare) è che accanto a quel privatissimo interesse del
"cittadino Berlusconi", e nel solco di una cultura
antigiuridicista e giacobina, c'è una pericolosa convinzione del
presidente del Consiglio: gli uomini politici, legittimati dal voto
popolare, devono essere protetti dalla giustizia comune, non possono
essere soggetti a nessun altro potere dello Stato. Non
all'"ordine" giudiziario, non a "funzionari dello
Stato" privi di alcuna legittimazione. E' una convinzione che non
riconosce alla magistratura la legittimità sancita dalla legge e dalla
Costituzione.
«Noi vogliamo seguire le regole», dice il malaccorto Castelli. Nel
labirinto di verità rovesciate, in cui Berlusconi e i suoi ventriloqui
precipitano l'opinione pubblica, il ministro sembra smarrirsi perché ogni
atto del processo che vede imputato Silvio Berlusconi, e il suo amico
Cesare Previti, è stato, continua a essere una violazione delle regole.
C'è stata la stagione della "slealtà". Sono seguite impudenti
mosse legislative. Siamo oggi alla vigilia di un'aggressione dei
fondamenti costituzionali della giurisdizione.
Quest'affare comincia così, con gli imputati che negano il processo.
Contrariamente a chi, uomo comune, ha la disavventura di entrare da
imputato in un'aula di tribunale, si difendono dal processo e non nel
processo. Nel catalogo della verità rovesciate d'uso comune nelle
dichiarazioni dei ventriloqui della Casa delle Libertà, questo lo si
definisce "diritto della difesa". Ma è davvero un diritto o
un'arrogante pretesa? Nel rito accusatorio, il processo è pura operazione
tecnica. Mentre nell'affare inquisitorio conta l'esito, comunque ottenuto,
qui un esito vale l'altro, purché correttamente ottenuto. Questo modello
ideologicamente neutro, scrive Franco Cordero, riconosce un solo valore:
fair play. E infatti "giusto processo" corrisponde all'inglese
fair trail, letteralmente "processo leale".
Un regola del gioco è leale perché vale per entrambi gli attori (accusa
e difesa). Il gioco è leale, il processo è giusto, se entrambi gli
agonisti rispettano quella regola. Il formalismo della giustizia non è un
difetto, è un valore, è un punto di forza irrinunciabile di uno Stato di
diritto (anche qui quante schiocchezze nel caleidoscopio delle verità
rovesciate). Sono stati Berlusconi e Previti leali? Basta mettersi
d'accordo sugli interessi protetti dalle garanzie formali.
Il buon senso e la legge ne individuano due. La necessità
dell'accertamento dei fatti (chi ha fatto che cosa) e la verifica
dell'ipotesi di colpevolezza avanzata dall'accusa (è vera o è falsa?).
Secondo interesse protetto: il diritto di difesa dell'imputato. In un
processo leale (giusto), «la difesa è una forza che resiste all'accusa e
non che sfugge all'accusa». Tutte le garanzie del processo (imparzialità
del giudice, il contradditorio, la pubblicità, l'habeas corpus, la non
presunzione di colpevolezza, la motivazione dei provvedimenti, la durata
ragionevole, il diritto all'appello in caso di condanna) devono proteggere
il merito del processo (Berlusconi e Previti hanno corrotto i giudici di
Roma?) e non gli imputati dall'accertamento dei fatti. Il lungo, tortuoso
ostruzionismo organizzato dalla pattuglia degli avvocatiparlamentari di
Silvio Berlusconi e Previti (rinvii per legittimo impedimento, nullità,
inutilizzabilità, ricusazioni, legittima suspicione) non sono serviti a
bloccare il processo. Era la prima "slealtà", grave per chi
difende un processo leale, il "giusto processo", e gravissima
per chi ha alti incarichi. Alla slealtà dei comportamenti processuali è
seguita la malafede politica.
La maggioranza approva leggi (rogatorie, falso in bilancio) che hanno il
trasparente obiettivo di mutare il segno della partita di Milano,
cambiando le regole del gioco. Ma legislatori hanno troppo fretta o sanno
poco di sintassi legislativa, offrono così spazi a interpretazioni
fondate e legittime in diritto. Il processo continua e va avanti. Ecco
allora l'ultima (per il momento) mossa di Castelli. Anche se il ministro
farfuglia di regole, non siamo più in presenza né di una slealtà
processuale, né dell'intricatissimo nodo del conflitto di interessi che
stringe Berlusconi, ma dinanzi all'aggressione politica al primato della
Costituzione, al ruolo dei giudici quali garanti della legalità contro i
poteri forti.
È proprio di regole allora che bisogna da oggi discutere, della torsione
di diritti fondamentali (la legge è uguale per tutti), della deformazione
di un formalismo legalitario che può annunciare, se non si arresterà per
tempo, una deriva autoritaria gonfia di un confuso sostanzialismo: se il
popolo ci ha eletto e quindi giudicato, perché dobbiamo sottoporci al
giudizio di una consorteria di burocrati, di una casta di funzionari che
nessun popolo e nessun voto hanno mai benedetto?
|