LA contesa sull´articolo 18 compie un salto di qualità. Sergio Cofferati
aggiunge un´altra freccia al suo arco. Nell´immediato, per contrastare
la riforma dei licenziamenti del governo, ha usato uno strumento di
dissuasione: lo sciopero generale, garantito dall´ordinamento. In
prospettiva ha già predisposto uno strumento di abrogazione: il
referendum contro la legge, quando il Parlamento l´avrà varata. Adesso
annuncia uno strumento di invalidazione: i ricorsi alla Corte
costituzionale contro le deroghe allo Statuto dei lavoratori. Dei tre,
proprio questo sembra il più convincente. Lo sciopero può non dissuadere
una maggioranza compatta. Il referendum può inciampare in un´opposizione
divisa.
Quando un ministro demonizza l´avversario
Il ministro del
Welfare può ironizzare finchè vuole, dicendo che spetta ai giudici e non
ai sindacati sollevare eccezioni di incostituzionalità davanti alla
Consulta. Non sarà difficile per la Cgil attivare ricorsi in via diretta
o incidentale, per investire la Corte di una questione sulla quale persino
Pietro Ichino, giuslavorista da sempre favorevole a modificare la
disciplina dei licenziamenti, solleva palesi dubbi di costituzionalità.
Sarà evidente la disparità di trattamento tra due imprenditori, con lo
stesso numero di dipendenti superiore a 15, quando si troveranno
assoggettati a due normative diverse sulla giusta causa, solo perché uno
avrà appena varcato quella soglia dimensionale (e potrà licenziare chi
vuole), l´altro no (e sarà tenuto al reintegro).
La giornata di ieri registra un´ulteriore, drammatica cesura del dialogo
sociale. Maroni, come già aveva fatto dopo l´assassinio di Marco Biagi,
continua ad agitare irresponsabilmente un accostamento improprio tra le
dinamiche di un conflitto sindacale e i rischi di una nuova fiammata del
terrorismo. Dice il ministro: «Ho ricevuto minacce», e persino «un paio
di pallottole per posta», che avrebbero «impressionato molto» le
autorità e i suoi collaboratori. Tutto questo, aggiunge, sarebbe accaduto
subito dopo gli attacchi che Cofferati ha lanciato al governo da Siviglia:
«Hanno fatto un patto scellerato, bisogna fermarli». Questo attribuisce
Maroni al leader della Cgil. Il ministro commette due errori. Il primo è
di forma. Rileggendo le parole pronunciate da Cofferati giovedì scorso a
Siviglia non c´è traccia di quel «bisogna fermarli». «Il patto tra il
governo e Cisl e Uil è scellerato, e la Cgil farà tutto il possibile per
renderlo non operativo» (Ansa 20 giugno, ore 20,30). Parole forti. Ma
proprie di una dialettica sindacale. Il ministro le mistifica, a uso e
consumo della sua polemica personale, attribuendo alla Cgil un linguaggio
estremo e belligerante che non trova riscontro nella realtà.
Il secondo errore è di sostanza. Per l´ennesima volta, questo governo
mescola le piazze con le pallottole. Compie un atto grave, dimostra
irresponsabilità politica e genera una lesione alle regole del confronto
democratico. Cofferati risponde evocando la «barbarie». Può aver torto
su tante cose, ma in questa occasione non è lontano dalla verità. Dal
1994 la demonizzazione dell´avversario è parte fondativa della
comunicazione politica del centrodestra. Dai «comunisti» alle «toghe
rosse», il Cavaliere e i suoi alleati hanno costruito molte fortune sulla
minaccia permanente di un nemico da battere. Nel 2001 il centrosinistra ha
compiuto l´errore uguale e contrario. Ma oggi i toni di criminalizzazione
che il governo usa nei confronti del leader della Cgil superano la soglia
del buon senso e del buon gusto.
Quello che vuole il centrodestra è abbastanza evidente. Sul piano
politico, al di là della contesa specifica sull´articolo 18, tra le
altre deleghe sul lavoro e le norme sugli enti bilaterali emerge un
disegno chiaro. Berlusconi punta non a distruggere, ma a destrutturare gli
organismi della rappresentanza sociale, chiudendo una lunghissima stagione
che ha visto il modello del sindacato confederale italiano non più solo
ai margini della contrattazione normativa e salariale, ma al centro dei
processi di riforma generale e di redistribuzione delle risorse. L´ha
spiegato in modo esplicito Gianfranco Fini all´assemblea della Compagnia
delle Opere, due giorni fa: «La strada giusta è quella neo-corporativa»,
per il Welfare e per tutto il resto.
Più nebulosa è invece la strategia del centrosinistra. Ha ragione
Pierluigi Bersani, quando afferma che su questo fronte Ds e Margherita «si
giocheranno la testa». Qualche fattivo contributo per rovinarsela,
finora, non è mancato. Nasce da un´intenzione comprensibile, e in
qualche misura condivisibile: nello scontro tra governo e sindacati, e
nella rottura drammatica del fronte confederale, l´opposizione si sforza
di non appiattirsi sulla sola Cgil, e di non spingere la Cisl e la Uil all´abbraccio
fatale con Berlusconi. Ma il sentiero è stretto, pieno di insidie e di
zone grigie di ambiguità. Nel partito di Francesco Rutelli la legittima
«strategia dell´attenzione» a Savino Pezzotta ha prodotto qualche
palese sbandamento. Due settimane fa al Senato, mentre il resto dell´Ulivo
votava contro, la Margherita si è astenuta sulla proposta del governo di
scorporare dalla delega le norme sulla modifica dell´articolo 18 e sull´arbitrato,
convinta che il sindacato debba sedersi al tavolo e trattare senza
pregiudizi su queste materie. Oggi rilancia lo «Statuto dei lavori»
preparato da Tiziano Treu con Giuliano Amato, che esclude categoricamente
modifiche alla disciplina dei licenziamenti. E vota contro la delega
rimasta in discussione a Palazzo Madama, scoprendo solo adesso che è
infarcita di norme sulla cessione dei rami d´azienda estremamente
insidiose per le tutele dei lavoratori.
Nel partito di Piero Fassino la linea vincente al congresso di Pesaro è
stretta tra l´obbligo di fiancheggiare la «resistenza» di Cofferati e
il dovere di non farsene fagocitare. La legittimazione politica deve
guardare ad orizzonti più estesi rispetto alla rappresentanza sindacale.
Ma questa ragionevole esigenza soffre di continue contraddizioni e di
instabili compromessi. Il correntone tenta di stanare la maggioranza
riformista. Ieri la direzione della Quercia, pur confermando il no secco
ad ogni modifica dello Statuto dei lavoratori, ha respinto un ordine del
giorno della minoranza nel quale si chiedeva «pieno sostegno» alla
battaglia della Cgil sulla difesa dell´articolo 18. In un momento così
delicato Cofferati interpreta questa scelta di opportunismo tattico come
un sonoro schiaffo alla sua organizzazione. E già oggi non perderà l´occasione
di rinfacciarlo ai vertici del suo partito. A confusione, si aggiungerà
altra confusione.
Sullo sfondo, si agita il partito di Fausto Bertinotti. Il risultato delle
amministrative conferma l´alta utilità marginale di Rifondazione, quando
si presenta alleata con l´Ulivo. Ma conferma anche l´irriducibile
inattitudine del suo leader rispetto a qualunque logica di coalizione. Ma
contare sul suo appoggio, in un´eventuale battaglia referendaria d´autunno,
è un doppio salto mortale. In questo momento, paradossalmente, nell´intero
bacino del centrosinistra Bertinotti è la sponda più vicina alla Cgil.
Ma, altrettanto paradossalmente, a settembre quella sponda rischia di
rivelarsi inservibile per entrambi.
Ancora per qualche giorno, l´ambiguità sarà consentita. Dal 2 luglio in
poi l´opposizione dovrà scegliere. Se il principio condiviso è «l´articolo
18 non si tocca», l´alleanza dovrà assumere posizioni coerenti. Dovrà
combattere in aula la nuova legge. Dovrà sostenere le eccezioni di
illegittimità davanti alla Consulta. Dovrà dire no al nuovo e sedicente
«patto sociale», se questo sarà parte costitutiva del Dpef. Dovrà
impegnarsi nella campagna per il referendum abrogativo, se la nuova legge
sarà licenziata dalle Camere entro la scadenza utile di settembre. Nello
stesso tempo, dovrà definire con chiarezza il suo pacchetto alternativo
di riforme, per poi sostenerlo e riproporlo all´opinione pubblica. Non ci
sono altre strade, per un´opposizione che voglia tornare ad essere
maggioranza. Non più solo in piazza, ma anche nelle urne.
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