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FRANCO CORDERO, Il Signore della propaganda e un paese senza passioni

da Repubblica - 15 maggio 2002


NEL Trecento svaniscono le libertà comunali, libertà facinorose, costellate da soprusi, in una faida permanente. Bartolo, cervello onnivoro (1313 o 1214-1357), dedica un trattatello alla tirannia, distinguendo due specie: «ex defectu tituli», l´usurpatore; «ex parte exercitii», chi abusa del potere acquisito legittimamente. Nonché due forme: una «manifesta»; l´altra «velata et tacita», sotto maschera costituzionale (sono grato al colto lettore napoletano che mi segnala i testi, molto attuali). En passant, due aneddoti su Bartolo: «subtilis sed non memoriosus», chiede le citazioni all´amico Francesco Tigrini; e mangia poco, pesando le quantità, perché non vuol offuscarsi la mente (Savigny, Storia del diritto romano nel Medio Evo, trad. Bollati, Gianini e Fiore, Torino 1857, II, 638).
Veniamo all´establishment berlusconiano: gl´italiani l´hanno votato e, sinora almeno, rispetta le libertà fondamentali; ciò lo distingue dal governo manifestamente tirannico, ma l´anomalìa resta. Chiamiamolo regime personale: negli ultimi due secoli esiste un solo esempio; e il Mussolini 1936-40 naviga più cautamente, persino quando s´equipara al re nel maresciallato dell´Impero. Cosa vi sia d´abnorme, è presto detto: B. agisce da padrone; adopera Parlamento e governo quasi fossero botteghe Mediaset; alleati, satelliti, clienti, gli servono messa; asseverano qualunque cosa dica, e gliene sfuggono d´enormi. Ringraziamo il Cielo che non siano automi come Achille Starace, Joachim von Ribbentrop o Wilhelm Keitel. Nel loro piccolo ricordano piuttosto l´ex-vescovo Talleyrand o l´ex-oratoriano Joseph Fouché alle prese con Napoleone. Fosse meno assorbito dal culto a se stesso, coglierebbe punte fredde negli sguardi: è una corvée d´ossequio; gliela prestano, coatti, aspettando le occasioni.
Cominciamo ab ovo: come mai abbia tanto potere; e il fenomeno berlusconiano appare nuovo. Mussolini dispone d´una milizia al soldo statale. Hitler ne schiera due: le SA, vedove d´Ernst Roehm trucidato su ordine suo; e le SS, sotto Himmler, «Enrico il fedele». B. non possiede arnesi simili, né l´Italia 2002 ha istituzioni autocratiche (tribunali speciali o del Popolo, poteri eminenti nel capo del governo, cancelliere-Führer, Gran Consiglio, organi legislativi castrati, ecc.). Mussolini gode d´un carisma naturale soverchiante, finché sciagure esterne non glielo spengano; Federzoni, Grandi, Ciano, Bottai, ruotano sommessi intorno all´astro; anche Farinacci ammutolisce; solo Balbo arrischia una cauta fronda in falsetto.
L´uomo d´Arcore non irradia fluido magnetico. L´unico rango che gli competa, antropologicamente, è quello da principe dei «bagalun dl´lüster», gl´imbonitori che incantavano i contadini nelle fiere: loquela fluviale, sorrisi da caimano, gesto sovrabbondante, effetti ilari; niente lo predestinava al dominio politico. Costretto a partite dialettiche leali (sugli schermi gliele addomesticano), annegherebbe in mezzo bicchiere d´acqua. Nemmeno i soldi spiegano perché sia così forte: ne ha da scoppiare, l´uomo più ricco d´Italia, ma non può comprarsela; quando paghi gli elettori uno a uno, rimani al verde. Se tutto stesse lì, sarebbe un plutocrate qualunque, solo più grosso.
Il suo potere è d´un genere etereo. Attraverso oscure intese s´era acquisito l´ordigno grazie al quale regna sulle anime: a colpi d´immagini e suoni, evoca mondi virtuali; monopolista dei canali, entra nelle teste, inocula affetti e fobie, insuffla finte idee, instilla decisioni; s´era allevata una massa contemplante, pronta al voto. Signorìa tanto meno resistibile, quanto più declinano le arti discorsive: siamo comunità tribali rispetto all´Atene dove disquisivano i sofisti, 24 secoli fa; e spiace dirlo, il tempo lavora dalla sua parte. Lo scenario suggerisce due rilievi. Primo: avendo sotto mano un arsenale, naturale che l´adoperi; è ridicolo aspettarsi del pudico self-restraint. Secondo: se non vuol perderlo, deve difendere quel potere, e così l´accresce; ipnosi contro raziocinio, una partita diseguale.
Libro e dialogo gli ripugnano. Nell´attesa, ne fabbrica d´innocui. Il pubblico ha 11 anni, ripete agli spacciatori. La politica berlusconiana sta in una frase: quanto meno la gente pensa, tanto meglio; è un vizio da estirpare. Che sia a buon punto, consta dalle mercuriali: se l´uditorio fosse sveglio, nessun berlusconiano oserebbe dirsi liberale; invece battono bandiera. Ha una nemica, l´agorà o piazza nel senso ateniese, luogo della disputa, dove nessun illusionista sfida impunemente cose e fatti. Ora, essendo infettivo il pensiero, la profilassi comincia dal vocabolario (Orwell, Appendice a 'Nineteen eighty-four´). I controllori lo riducono a parole elementari, così vaghe che, secondo le direttive, significhino una cosa o l´opposta: «amico», «nemico», «pace», «guerra», «ordine», «crimine», «liberale», «comunista», ecc.; mancando i vocaboli, le differenze svaniscono, fino all´atrofia dell´organo. I flussi verbali seguitano, anzi non s´era mai parlato tanto: lo stile laconico insospettisce, sintomo d´introversione; idem la sintassi, malfamata perché allarga proditoriamente gli spazi mentali, ma va deperendo a vista d´occhio e morrà da sola. Esistono sul mercato discorsi precostituiti, pronti all´uso, tanto comodi, recitabili come filastrocche. Gli anticorpi difendono dal contagio. L´integrato s´infuria quando sente frasi sature, ordinate, trasparenti: gli suonano ermetiche, stravaganti, oscure; e così vomita i veleni. Oltre alle sequele prêt-à-dire, dove non c´è niente da pensare, il regime promuove logorree farfalline, nonché gli usi viscerali della parola, quali invettive, bisbiglio estatico, ringhi, scherno.
Veniamo alle opinioni soi-disantes liberali. Ne sono sempre circolate ma l´attuale costellazione riesce nuova. Il precedente, molto diverso, risale agli anni 1919-24, quando persone serie applaudono il fascismo-terapia anticomunista, illuse che poi restituisca i poteri alla decrepita classe dirigente (mummie come Salandra). Nella risposta al discorso della Corona (Palazzo Madama, 18 giugno 1921), Luigi Albertini, artefice e comproprietario del «Corriere», dà atto all´«opinione pubblica» d´avere «reagito», salvando l´Italia dai «gorghi del comunismo», ed è chiaro chi siano i salvatori, non opinanti ma squadristi. Mercoledì 9 agosto 1922 non ha ancora capito dove vada l´onda: rivendica il merito d´avere combattuto l´ipotesi d´un socialismo governativo; vitupera l´abortito «miserabile sciopero»; irride i riformisti Turati, Treves, Modigliani, ora questuanti un posto ministeriale mentre voltano «le spalle all´odiata Destra e ai fascisti» suoi alleati (9 agosto 1922). Anche Croce riteneva terapeuticamente utili i fascisti: lo dicono tre interviste, 1922-4 (Pagine sparse, II, 371-89); romperà i ponti nella veemente protesta 1 maggio 1925 contro il manifesto degl´intellettuali neri.
Era paura quel consenso strumentale: paura della peste bolscevica; sindrome da cittadella assediata, sebbene l´occupazione delle fabbriche fosse innocua messinscena. Giolitti, infatti, al suo quinto ministero, non muove dito, lasciando che sbolla, salvo poi giocare la carta nera contro popolari e rossi, affinché rinsaviscano. I liberal-conservatori professano bigottismo classista. L´ottuagenario cuneese commette un errore culturale: gli avventurieri interventisti l´avevano estromesso; è riapparso alla ribalta in piena tempesta; ragiona sul fenomeno fascista secondo vecchi modelli d´alchimia parlamentare.
Mussolini contro Lenin, ma l´Italia 2002 non ha bisogno d´essere salvata; e siccome gli àuguri schivano l´autentico quesito, formuliamo chiaro: cosa bolle sotto la signoria berlusconiana. Col loro permesso, comincerei l´analisi dal vuoto culturale. Nell´autopanegirico B. è anche bibliofilo; impavido come al solito, indica due autori prediletti: niente meno che Tommaso Moro (1479-1535) e Guicciardini (1483-1540). Dio sa così abbia da spartire con l´utopista inglese amico d´Erasmo, cancelliere della Corona, inflessibile avversario d´Enrico VIII sino alla morte sul patibolo, o con l´algido storico-politologo fiorentino. Deve averglieli nominati qualche consulente umanista, svagato o forse burlone, perché Utopia celebra l´anticapitalismo: beni in comune, sei ore d´onesto lavoro giornaliero al sevizio pubblico, vita quieta, divertimento intellettuale, crescita interiore. I referti d´autobiografia vanno presi con le molle, specie quando li firma un tycoon delle televisioni, nel tempo libero impresario calcistico: non incrudeliamo, quindi; certo, sarebbero archetipi più verosimili «Beautiful» o qualche storia su Tortuga, base della pirateria trionfante, nel cui Gotha, se i ricordi puerili non mi tradiscono, figura anche un Olonese. Pragmatismo, cantano i panegiristi. Converrà intendersi sulla parola: se «pragmatico» significa «attento ai fatti», «alieno dalle fantasmagorie» «abile nel calcolare serie causali e probabilità», Cavour lo era par excellence, avendo una dottrina molto chiara; l´aveva Depretis, computista del lavoro politico minuto; Giolitti, altrettanto poco intellettuale, ne applicava una così aperta al futuro da spaventare gli uomini d´ordine. L´ha anche B., terribilmente povera e cruda: filosofia del successo, ossia Ego ipertrofico, sordità morale, dinamismi estroversi; il tutto aggravato dall´analfabetismo politico. Avviso ai caudatari, caso mai fossero tentati dall´idea d´indignarsi: non sono contumelie; ogni parola descrive fatti notori, dalle leggi pro domo sua all´assurda pretesa d´essere l´Unico, fuori d´ogni spazio legale, perché gl´italiani l´hanno votato. I suoi exploits non stupiscono più: vuole i tribunali genuflessi (immerso nei due autori, non aveva letto Montesquieu); e impone il silenzio sul groviglio d´interessi incompatibili. Eloquenti anche i gesti minuti: ad esempio, diserta il 25 aprile; nell´occasione eleva agli altari Edgardo Sogno, partigiano monarchico, poi golpista, suo confratello in P2. Tale possibile futuro dominus d´una repubblica presidenziale.
Torniamo all´Italia post 1919. Spaventati dai rossi, i conservatori puntavano sul castigamatti nero, così ottimisti da credere che, domata la bestia, sarebbe rientrato nei ranghi: presupponevano un loro diritto naturale al governo; cabale da cervelli ammuffiti ma avevano una storpia razionalità. Ottant´anni dopo, avviene l´inverso. I moderni «liberal» saltano bravamente nel buio, sottomessi allo scorridore, senza l´alibi dei barbari alle porte: nessuno ha occupato le fabbriche, né bussano i soviet; barbaro semmai è l´unto dal popolo, con quel passato, mentre gli avversari avevano condotto al concerto europeo un´Italia decotta dalle consorterie dalle quali lui discende. L´alternativa attuale pende tra caute formule liberalsocialiste e un cesarismo amorfo, dove niente appare chiaro (meno che mai l´asserito liberismo, tollerabile solo fin dove gli venga comodo). I saltatori scelgono l´azzardo.
Niente d´abominevole: a qualcuno piace l´avventura; né costituisce delitto inseguire l´en plein alla roulette berlusconiana, ma rispettino le parole. Non sta bene mistificare l´insegna, piantandola su un composto d´autocrazia, nichilismo affaristico, volgarità televisiva.