NEL Trecento svaniscono le libertà comunali, libertà facinorose,
costellate da soprusi, in una faida permanente. Bartolo, cervello onnivoro
(1313 o 1214-1357), dedica un trattatello alla tirannia, distinguendo due
specie: «ex defectu tituli», l´usurpatore; «ex parte exercitii», chi
abusa del potere acquisito legittimamente. Nonché due forme: una «manifesta»;
l´altra «velata et tacita», sotto maschera costituzionale (sono grato
al colto lettore napoletano che mi segnala i testi, molto attuali). En
passant, due aneddoti su Bartolo: «subtilis sed non memoriosus», chiede
le citazioni all´amico Francesco Tigrini; e mangia poco, pesando le
quantità, perché non vuol offuscarsi la mente (Savigny, Storia del
diritto romano nel Medio Evo, trad. Bollati, Gianini e Fiore, Torino 1857,
II, 638).
Veniamo all´establishment berlusconiano: gl´italiani l´hanno votato e,
sinora almeno, rispetta le libertà fondamentali; ciò lo distingue dal
governo manifestamente tirannico, ma l´anomalìa resta. Chiamiamolo
regime personale: negli ultimi due secoli esiste un solo esempio; e il
Mussolini 1936-40 naviga più cautamente, persino quando s´equipara al re
nel maresciallato dell´Impero. Cosa vi sia d´abnorme, è presto detto:
B. agisce da padrone; adopera Parlamento e governo quasi fossero botteghe
Mediaset; alleati, satelliti, clienti, gli servono messa; asseverano
qualunque cosa dica, e gliene sfuggono d´enormi. Ringraziamo il Cielo che
non siano automi come Achille Starace, Joachim von Ribbentrop o Wilhelm
Keitel. Nel loro piccolo ricordano piuttosto l´ex-vescovo Talleyrand o l´ex-oratoriano
Joseph Fouché alle prese con Napoleone. Fosse meno assorbito dal culto a
se stesso, coglierebbe punte fredde negli sguardi: è una corvée d´ossequio;
gliela prestano, coatti, aspettando le occasioni.
Cominciamo ab ovo: come mai abbia tanto potere; e il fenomeno
berlusconiano appare nuovo. Mussolini dispone d´una milizia al soldo
statale. Hitler ne schiera due: le SA, vedove d´Ernst Roehm trucidato su
ordine suo; e le SS, sotto Himmler, «Enrico il fedele». B. non possiede
arnesi simili, né l´Italia 2002 ha istituzioni autocratiche (tribunali
speciali o del Popolo, poteri eminenti nel capo del governo, cancelliere-Führer,
Gran Consiglio, organi legislativi castrati, ecc.). Mussolini gode d´un
carisma naturale soverchiante, finché sciagure esterne non glielo
spengano; Federzoni, Grandi, Ciano, Bottai, ruotano sommessi intorno all´astro;
anche Farinacci ammutolisce; solo Balbo arrischia una cauta fronda in
falsetto.
L´uomo d´Arcore non irradia fluido magnetico. L´unico rango che gli
competa, antropologicamente, è quello da principe dei «bagalun dl´lüster»,
gl´imbonitori che incantavano i contadini nelle fiere: loquela fluviale,
sorrisi da caimano, gesto sovrabbondante, effetti ilari; niente lo
predestinava al dominio politico. Costretto a partite dialettiche leali
(sugli schermi gliele addomesticano), annegherebbe in mezzo bicchiere d´acqua.
Nemmeno i soldi spiegano perché sia così forte: ne ha da scoppiare, l´uomo
più ricco d´Italia, ma non può comprarsela; quando paghi gli elettori
uno a uno, rimani al verde. Se tutto stesse lì, sarebbe un plutocrate
qualunque, solo più grosso.
Il suo potere è d´un genere etereo. Attraverso oscure intese s´era
acquisito l´ordigno grazie al quale regna sulle anime: a colpi d´immagini
e suoni, evoca mondi virtuali; monopolista dei canali, entra nelle teste,
inocula affetti e fobie, insuffla finte idee, instilla decisioni; s´era
allevata una massa contemplante, pronta al voto. Signorìa tanto meno
resistibile, quanto più declinano le arti discorsive: siamo comunità
tribali rispetto all´Atene dove disquisivano i sofisti, 24 secoli fa; e
spiace dirlo, il tempo lavora dalla sua parte. Lo scenario suggerisce due
rilievi. Primo: avendo sotto mano un arsenale, naturale che l´adoperi; è
ridicolo aspettarsi del pudico self-restraint. Secondo: se non vuol
perderlo, deve difendere quel potere, e così l´accresce; ipnosi contro
raziocinio, una partita diseguale.
Libro e dialogo gli ripugnano. Nell´attesa, ne fabbrica d´innocui. Il
pubblico ha 11 anni, ripete agli spacciatori. La politica berlusconiana
sta in una frase: quanto meno la gente pensa, tanto meglio; è un vizio da
estirpare. Che sia a buon punto, consta dalle mercuriali: se l´uditorio
fosse sveglio, nessun berlusconiano oserebbe dirsi liberale; invece
battono bandiera. Ha una nemica, l´agorà o piazza nel senso ateniese,
luogo della disputa, dove nessun illusionista sfida impunemente cose e
fatti. Ora, essendo infettivo il pensiero, la profilassi comincia dal
vocabolario (Orwell, Appendice a 'Nineteen eighty-four´). I controllori
lo riducono a parole elementari, così vaghe che, secondo le direttive,
significhino una cosa o l´opposta: «amico», «nemico», «pace», «guerra»,
«ordine», «crimine», «liberale», «comunista», ecc.; mancando i
vocaboli, le differenze svaniscono, fino all´atrofia dell´organo. I
flussi verbali seguitano, anzi non s´era mai parlato tanto: lo stile
laconico insospettisce, sintomo d´introversione; idem la sintassi,
malfamata perché allarga proditoriamente gli spazi mentali, ma va
deperendo a vista d´occhio e morrà da sola. Esistono sul mercato
discorsi precostituiti, pronti all´uso, tanto comodi, recitabili come
filastrocche. Gli anticorpi difendono dal contagio. L´integrato s´infuria
quando sente frasi sature, ordinate, trasparenti: gli suonano ermetiche,
stravaganti, oscure; e così vomita i veleni. Oltre alle sequele prêt-à-dire,
dove non c´è niente da pensare, il regime promuove logorree farfalline,
nonché gli usi viscerali della parola, quali invettive, bisbiglio
estatico, ringhi, scherno.
Veniamo alle opinioni soi-disantes liberali. Ne sono sempre circolate ma l´attuale
costellazione riesce nuova. Il precedente, molto diverso, risale agli anni
1919-24, quando persone serie applaudono il fascismo-terapia
anticomunista, illuse che poi restituisca i poteri alla decrepita classe
dirigente (mummie come Salandra). Nella risposta al discorso della Corona
(Palazzo Madama, 18 giugno 1921), Luigi Albertini, artefice e
comproprietario del «Corriere», dà atto all´«opinione pubblica» d´avere
«reagito», salvando l´Italia dai «gorghi del comunismo», ed è chiaro
chi siano i salvatori, non opinanti ma squadristi. Mercoledì 9 agosto
1922 non ha ancora capito dove vada l´onda: rivendica il merito d´avere
combattuto l´ipotesi d´un socialismo governativo; vitupera l´abortito
«miserabile sciopero»; irride i riformisti Turati, Treves, Modigliani,
ora questuanti un posto ministeriale mentre voltano «le spalle all´odiata
Destra e ai fascisti» suoi alleati (9 agosto 1922). Anche Croce riteneva
terapeuticamente utili i fascisti: lo dicono tre interviste, 1922-4
(Pagine sparse, II, 371-89); romperà i ponti nella veemente protesta 1
maggio 1925 contro il manifesto degl´intellettuali neri.
Era paura quel consenso strumentale: paura della peste bolscevica;
sindrome da cittadella assediata, sebbene l´occupazione delle fabbriche
fosse innocua messinscena. Giolitti, infatti, al suo quinto ministero, non
muove dito, lasciando che sbolla, salvo poi giocare la carta nera contro
popolari e rossi, affinché rinsaviscano. I liberal-conservatori
professano bigottismo classista. L´ottuagenario cuneese commette un
errore culturale: gli avventurieri interventisti l´avevano estromesso; è
riapparso alla ribalta in piena tempesta; ragiona sul fenomeno fascista
secondo vecchi modelli d´alchimia parlamentare.
Mussolini contro Lenin, ma l´Italia 2002 non ha bisogno d´essere
salvata; e siccome gli àuguri schivano l´autentico quesito, formuliamo
chiaro: cosa bolle sotto la signoria berlusconiana. Col loro permesso,
comincerei l´analisi dal vuoto culturale. Nell´autopanegirico B. è
anche bibliofilo; impavido come al solito, indica due autori prediletti:
niente meno che Tommaso Moro (1479-1535) e Guicciardini (1483-1540). Dio
sa così abbia da spartire con l´utopista inglese amico d´Erasmo,
cancelliere della Corona, inflessibile avversario d´Enrico VIII sino alla
morte sul patibolo, o con l´algido storico-politologo fiorentino. Deve
averglieli nominati qualche consulente umanista, svagato o forse burlone,
perché Utopia celebra l´anticapitalismo: beni in comune, sei ore d´onesto
lavoro giornaliero al sevizio pubblico, vita quieta, divertimento
intellettuale, crescita interiore. I referti d´autobiografia vanno presi
con le molle, specie quando li firma un tycoon delle televisioni, nel
tempo libero impresario calcistico: non incrudeliamo, quindi; certo,
sarebbero archetipi più verosimili «Beautiful» o qualche storia su
Tortuga, base della pirateria trionfante, nel cui Gotha, se i ricordi
puerili non mi tradiscono, figura anche un Olonese. Pragmatismo, cantano i
panegiristi. Converrà intendersi sulla parola: se «pragmatico»
significa «attento ai fatti», «alieno dalle fantasmagorie» «abile nel
calcolare serie causali e probabilità», Cavour lo era par excellence,
avendo una dottrina molto chiara; l´aveva Depretis, computista del lavoro
politico minuto; Giolitti, altrettanto poco intellettuale, ne applicava
una così aperta al futuro da spaventare gli uomini d´ordine. L´ha anche
B., terribilmente povera e cruda: filosofia del successo, ossia Ego
ipertrofico, sordità morale, dinamismi estroversi; il tutto aggravato
dall´analfabetismo politico. Avviso ai caudatari, caso mai fossero
tentati dall´idea d´indignarsi: non sono contumelie; ogni parola
descrive fatti notori, dalle leggi pro domo sua all´assurda pretesa d´essere
l´Unico, fuori d´ogni spazio legale, perché gl´italiani l´hanno
votato. I suoi exploits non stupiscono più: vuole i tribunali genuflessi
(immerso nei due autori, non aveva letto Montesquieu); e impone il
silenzio sul groviglio d´interessi incompatibili. Eloquenti anche i gesti
minuti: ad esempio, diserta il 25 aprile; nell´occasione eleva agli
altari Edgardo Sogno, partigiano monarchico, poi golpista, suo confratello
in P2. Tale possibile futuro dominus d´una repubblica presidenziale.
Torniamo all´Italia post 1919. Spaventati dai rossi, i conservatori
puntavano sul castigamatti nero, così ottimisti da credere che, domata la
bestia, sarebbe rientrato nei ranghi: presupponevano un loro diritto
naturale al governo; cabale da cervelli ammuffiti ma avevano una storpia
razionalità. Ottant´anni dopo, avviene l´inverso. I moderni «liberal»
saltano bravamente nel buio, sottomessi allo scorridore, senza l´alibi
dei barbari alle porte: nessuno ha occupato le fabbriche, né bussano i
soviet; barbaro semmai è l´unto dal popolo, con quel passato, mentre gli
avversari avevano condotto al concerto europeo un´Italia decotta dalle
consorterie dalle quali lui discende. L´alternativa attuale pende tra
caute formule liberalsocialiste e un cesarismo amorfo, dove niente appare
chiaro (meno che mai l´asserito liberismo, tollerabile solo fin dove gli
venga comodo). I saltatori scelgono l´azzardo.
Niente d´abominevole: a qualcuno piace l´avventura; né costituisce
delitto inseguire l´en plein alla roulette berlusconiana, ma rispettino
le parole. Non sta bene mistificare l´insegna, piantandola su un composto
d´autocrazia, nichilismo affaristico, volgarità televisiva.
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