SOTTO queste lune
circolano piccoli mostri. Ne sta nascendo uno e avrà vita corta, tanto
invalido appare. L´idea viene dall´insonne cervello giuridico d´Arcore:
la inseminano vari fattucchieri; due Camere prestano l´utero; ed ecco i
nuovi artt. 45, 47, 48, 49 c.p.p. Lettori attenti noteranno come gli
avvenimenti governativo-parlamentari somiglino alle ipotesi storiche sub
iudice: identico lo stile; qualcuno bara. Se l´accusa risultasse vera, B.
sarebbe un corruttore avendo comprato sentenze in cause enormi.
Quel mostro costituzionale chiamato legge Cirami
Sul secondo tavolo niente vieta d´usare i verbi all´indicativo:
impadronitosi dello Stato, mette le mani nei processi sostituendo le norme
con quelle che gli riescono comode, allestite da suoi scribi. Due figure
gemelle. Inutile dire quale sia più temibile: una è delinquenza
fisiologica, ossia episodio da perseguire e punire, qualora consti; l´altra
mistifica e perverte gli strumenti legali, corrompendo la cosa pubblica.
È l´uomo più ricco d´Italia, tra i più ricchi al mondo, grazie alla
consorteria politica sotto le cui ali l´impresario edile era diventato re
delle televisioni commerciali: persi i patroni, vede in pericolo il
privilegio sull´etere; allora chiama alle urne masse stregate dagli
schermi, presentandosi sotto varie vesti (uomo dei miracoli, restauratore,
arcangelo anticomunista, ecc.); vince; cade dopo sei mesi; sfrutta le
occasioni servitegli nel piatto da avversari che ogni politicante sogna,
tanto danno arrecano alla loro parte; rivince e fonda una signoria. L´unico
punto nero sono quei processi: 800 udienze, 98 avvocati, 32 consulenti,
contavano i cronisti l´anno scorso; e avendo tentato mille espedienti,
incluse due leggi ad personam (falso in bilancio e rogatorie), chiede una
«translatio iudicii» volgarmente detta rimessione. L´art. 45 la
contempla quando fattori locali non altrimenti eliminabili infirmino la
libertà morale dei partecipanti al giudizio: i codificatori 1988 avevano
definito così l´idea ricavabile dalla vecchia formula, troppo vaga, del
«legittimo sospetto»; e su tali premesse la richiesta non è accoglibile.
Quando se ne accorgono, le difese deducono una pretesa lacuna nell´art.
45 rispetto alla matrice (art. 2, n. 17, l. 16 febbraio 1987 n. 81, nel
quale i deleganti dicono «legittimo sospetto», senza spiegare cosa sia).
La Cassazione, ritenendo «non manifestamente infondata» la questione
(mentre lo è), trasmette gli atti alla Consulta, senza sospendere i
processi. Suppongo che B. resti deluso, e siccome non s´aspetta niente
dall´altra Corte, scatta subito la contromossa. L´ordinanza era datata 4
luglio. Novantasei ore dopo un grottesco ddl riesuma il «legittimo
sospetto», prevedendo la sospensione automatica reiterabile all´infinito.
Come sia votato tra luglio e agosto, è storia recentissima, da esporre
come esempio negativo.
Testo incostituzionale, a prima vista, e tale rimane dopo la cosmesi sotto
cui lo agghinda Montecitorio, platealmente incostituzionale, qualunque
salmo cantino i pacificatori profani o sapienti. Consideriamo i motivi d´invalidità.
Le due parole reintrodotte nell´art. 45 non ammettono più letture
correttive perché il «legittimo sospetto» figura come ipotesi autonoma:
concetto vago, anzi non-concetto; vi entra qualunque cosa; non è nemmeno
detto che il parametro sia l´imparzialità del giudice.
Inutile averlo ricondotto a «situazioni locali»: ovvio che debbano
esservene; sarebbe stupido spostare i processi quando l´effetto
perturbante fosse universale. Formule vuote generano competenze fluide,
manipolabili ad libitum, contro l´art. 25 Cost., c. 1 («nessuno può
essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge»), né
servirebbe un riferimento allo stato emotivo dei chiamati a giudicare. I
consulenti pro divo Berluscone confondono due idee che ogni scolaro serio
distingue: rimessione e ricusazione; dove influssi ambientali turbino
irrimediabilmente i processi, bisogna dislocarli, ma supponendo rapporti
particolari d´una parte col giudice, donde sospette parzialità, basta
sostituire la persona fisica. A Milano sono 6 i presenti nei due collegi:
a occhio e croce, 1/65 degli addetti al tribunale; e qui la translatio
iudicii viola l´art. 25 Cost., non essendo motivabile con interessi
prevalenti nella scala costituzionale.
Contro l´automatismo della sospensione (artt. 47 sg.) restano fermi gli
argomenti sviluppati da Corte cost. 22 ottobre 1996 n. 353. S´illude chi
crede d´avere combinato meraviglie tecniche. un mostriciattolo inglobato
nel piccolo mostro: il presidente assegna i ricorsi alle sezioni; se
rileva cause d´inammissibilità (tale essendo anche la «manifesta
infondatezza»), lo manda a quella che sbriga tale lavoro (ruotano ogni 2
anni); se no, a una delle altre o alle sezioni unite; e chi procedeva,
informatone, sospende il processo. Tale il vantato «filtro», ma siamo
fuori del quadro giurisdizionale: il presidente comanda l´apparato nella
fase precognitiva; non accerta né dichiara niente l´atto con cui,
ravvisando una causa d´inammissibilità, assegna il ricorso alla sezione
prevista all´art. 169-bis att.; può darsi che risulti ammissibile, nel
qual caso gli torna affinché decida un´altra a cui l´assegna; o l´inverso
(risultando inammissibile, sarebbe dichiarato tale senza superflui passi
all´indietro). Se mai il presidente esercitasse da solo poteri
giurisdizionali, il fenomeno violerebbe norme sottintese nella Carta: è
come introdurre il voto plurimo; o stabilire che su dati punti decida
insindacabilmente un componente N del collegio.
Lo sguardo delibativo della «non manifesta infondatezza» passa
attraverso una lettura del ricorso, e pochi ricorrenti sono così
malaccorti da esporre aneddoti futili: ad esempio, che un cantastorie
nominasse l´imputato; sulla carta gli «exposita» suonano sempre più o
meno plausibili. Restano da fissare due punti: se i fatti de quibus siano
avvenuti; indi, nell´ipotesi affermativa, se e quanto modifichino l´atmosfera
del giudizio, ed è lavoro istruttorio, poi induttivo, non esperibile dal
presidente. Notiamo ancora come nessuno sia tanto cretino da riesporre
tali e quali i motivi della richiesta respinta.
Ancora due norme invalide in poche frasi e siamo a 4, un record. Solo mani
d´orafo potevano riuscirvi. L´art. 48, c. 5, prevede che gli atti
compiuti siano rinnovati nella nuova sede, se una parte lo chiede:
qualcuno lo chiederà; e svaniscono cose avvenute nel pieno
contraddittorio. Questo micidiale ordigno perditempo ignora almeno tre
norme costituzionali: art. 3, c. 1 (razionalità obiettiva); art. 97, c. 1
(«buon andamento» dell´ufficio); art. 111, c. 2 (ragionevole durata).
Infine, l´art. 48, c. 5, estendendo lo ius superveniens ai processi
pendenti, modifica la competenza, che l´art. 25 àncora a leggi ante
factum (sarebbe diverso se il vecchio art. 45 fosse dichiarato invalido).
Enumerati i motivi d´invalidità, mi domando se la Corte possa
investirsene ex officio. Doveva risolvere questioni sollevate dall´ordinanza
4 luglio sull´art. 45, versione 1988: il quale negl´intenti del Sire d´Arcore
non esiste più, sostituito dal nuovo; i suoi strateghi presuppongono che,
caduto il thema decidendum, gli atti tornino alle S.U. Non ne sarei tanto
sicuro.
Leggano piuttosto l´art. 27 l.c. 11 marzo 1953 n. 87: gli accertamenti
positivi stanno nei limiti della domanda; la Corte dichiara invalida la
legge impugnata ma anche se ne cadano altre e quali, affette da invalidità
conseguente (un corollario). Inversa-simmetrica è l´ipotesi della norma
A, non impugnata, sul presupposto della cui invalidità la sentenza
colpisce B: in lingua tecnica, questioni pregiudiziali; e la Corte v´interloquisce
ex officio, senza che gliele abbiano sottoposte. Ora, era questione
pregiudiziale se sia valido l´art. 2, n. 17, l. delega contemplante il «legittimo
sospetto» (nel senso lato in cui lo intendono le S.U.): sarebbe assurdo
affondare l´art. 45, perché non attua una direttiva incostituzionale.
Veniamo al cosiddetto ius superveniens: può darsi che, diversa essendo la
norma nuova, non vi sia più niente da decidere; ma non è così se la
questione rimane nello ius superventum (ad esempio, legislatori garruli
ridicono la stessa cosa variando le parole).
Abbiamo sotto gli occhi quest´ultima ipotesi: l´art. 45, nuovo testo,
ripete l´art. 2, n. 17, l. delega: in peggio, perché la formula vaga era
interpretabile secondo l´art. 25 Cost. (come raccomandava la Corte); la
nuova rifiuta ogni lettura correttiva, a meno d´intenderla come puro
pleonasmo, ignorandola.
Economia processuale e «favor costitutionis» spiegano la deroga al
principio della domanda nell´art. 27 l. cost. 1953. Il nostro caso
coinvolge entrambi i valori. Primo: la questione sarebbe risollevata dopo
pochi giorni dal tribunale nel medesimo processo, quando dovesse
sospenderlo applicando l´art. 4, c. 2; perché non scioglierla subito?
Secondo: è un trucco lo ius superveniens; gl´interessati alla fuga da
Milano speravano una risposta benevola dalle S.U.; delusi, eccepiscono l´invalidità
dell´art. 45; guadagnano tempo ma vogliono eludere il giudizio sulla
relativa questione, sapendola poco seria; e sostituiscono il testo sub
iudice con uno che li favorisca, predisponendo meccanismi viziosi. La
furberia sta nel cambiare le carte sul tavolo, sperando che la Consulta,
abbagliata dalla mossa, restituisca gli atti: virtuosismi da ioculator; o
gioco delle tre tavolette, se vogliamo dirlo nel lessico familiare ai
berluscones. L´Italia 2002 riaffoga nella procedura malfamata, ma allora
il difetto era intellettuale, definibile come ignoranza e dialettica
sconnessa, oneste nella misura in cui possono esserlo tali lacune o
storture, mentre adesso splende una disinvoltura noncurante del malaffare
o, peggio, aperta allo stesso. Strenuo barzellettiere, ogni tanto B.
consuma gaffes, anche triviali, e pesca volentieri nello humour macabro:
questa legge era «assolutamente dovuta agl´italiani», blatera senza
arrossire («Corriere della Sera», 12 ottobre); non s´accorge d´insultarli.
Il teatro d´Arcore manda in onda una pochade dove non manca nemmeno l´incidente
buffo.
Re Sole voleva sull´unghia i nuovi articoli, da esibire alla Consulta
martedì 22 ottobre, promulgati e pubblicati sul tamburo, né i famigli
hanno perso tempo: nessuno dirà che rubino i salari; li sudano, ma alle
pentole del diavolo ogni tanto manca il coperchio. Tutto va de plano, meno
una svista da fretta convulsa nell´art. 47, comma 4: l´idea era che,
quando l´instante sia un imputato sotto custodia, i termini massimi della
stessa non decorrano nel tempo della sospensione; e i riformatori rinviano
all´art. 303, comma 1, anziché 304, dov´è regolata la materia; banale
lapsus calami, esclamano quando salta fuori l´errore, atterriti dallo
scudiscio padronale, se occorresse un quarto voto. Non perdano il sonno.
La cosiddetta mens legis risulta chiara dal séguito. Al posto del Sire d´Arcore,
però, ordinerei che la Camera alta voti l´aureo ddl qual è, lapsus
incluso, perché ogni ritocco sarebbe emendamento.
Così l´«art. 303» resta come la cicatrice d´una gloriosa ferita.
Esistono teste più fini ma, poveri figlioli, lavoravano con tanto zelo.
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