«Il
guaio è che si è rotto l'ascensore». Una metafora semplice per spiegare
«dinamiche sociali sempre più faticose», dove la forbice tra benessere
e povertà è sempre più ampia, dove chi è in affanno rischia di finire
fuori strada. Il Paese si divide sulla flessibilità, l'articolo 18, i
licenziamenti facili, su un futuro che sembra senza sicurezze. E Milano,
capitale del lavoro e della new economy, ma anche del riformismo, delle
garanzie, della solidarietà, come reagisce la saggia, operosa Milano?
Risponde Aldo Bonomi, 51 anni, ricercatore sociale, saggista, direttore
del Consorzio Aaster per lo sviluppo del territorio.
Bonomi un tempo aveva tracciato lo scenario di una metropoli spaccata in
due come Marozia, una delle città invisibili di Italo Calvino. Di qui la
Milano del topo, dei senza-tetto e senza-opportunità, degli anziani in
difficoltà, la città del disagio, degli immigrati e della solitudine. Di
là la Milano della rondine, che vola nel mondo, produce ricchezza e
propone efficienza.
Conferma, professore?
«Fino agli Anni 70 Milano è stata una città verticale. Chi abitava
nelle grandi periferie urbane sapeva che non sarebbe mai arrivato in
centro. Tuttavia coltivava la speranza che, un giorno, ci potessero
lavorare i suoi figli. L'ascensore funzionava, nonostante i conflitti di
classe».
Oggi non è più così?
«Oggi Milano è una città orizzontale. A prima vista si potrebbe
pensare: siamo tutti sullo stesso piano, allora stiamo tutti meglio.
Invece no: perché si innesca il meccanismo perverso dell' in or out ,
dentro o fuori. La distanza tra i margini e il centro è cresciuta, mentre
è diminuita la speranza di colmarla. I rapporti sono rigidi, gli scambi
difficili. In più la città orizzontale ci sconvolge. I ghetti sono
ovunque. Gli ultimi hanno "invaso" i luoghi più "in".
Ma così si alzano steccati altissimi. Così esplodono le polemiche. Così
nasce il rancore sociale. Penso agli addetti alla pulizie che scioperano e
bloccano la Stazione centrale».
Milano capitale dei senza-garanzie e delle nuove povertà?
«Dal punto di vista numerico è cambiato poco. È invece completamente
mutato il quadro rappresentativo. Milano è un pendolo che oscilla tra il
massimo di innovazione e il massimo di mediocrità. Da un lato è la
metropoli delle net economy, capace di esportare modelli di organizzazione
del terziario in tutta Italia, capitale della finanza e della
comunicazione. Ma dall'altro è anche il luogo delle mediocrità. Pensiamo
alle cattedrali del denaro, intorno a Piazza Affari. Quando gli uomini del
business, fatti i "danée", spengono le luci, entrano gli
addetti alle pulizie. È, questa, la città invisibile. La città del
disagio».
In mezzo?
«In mezzo ci sono coloro che hanno conservato le tutele della società
verticale attraverso le associazioni di categoria, i lavoratori più o
meno garantiti, che lottano per l'articolo 18 e non vogliono flessibilità».
Come dar voce al disagio?
«C'è un'altra metafora che mi sta a cuore. La metropoli dai tre volti.
Da un lato c'è la città dell'Aem, Azienda elettrica milanese. La città
di chi sta al vertice. Di chi ha il massimo della visibilità e tiene i
riflettori puntati in viso ogni giorno. In mezzo ci sono coloro che
vengono illuminati dalle loro rappresentanze, forti di una visibilità
indiretta e sempre più fioca. Infine esistono gli angoli bui, là dove i
lampioni vengono accesi una tantum e con molta fatica. Penso al ruolo
fondamentale svolto, in questo senso, dalla Caritas di don Colmegna. C'è
il problema di via Barzaghi? Via, chiamiamo don Colmegna. Ma penso anche
alle posizioni del cardinal Martini sugli effetti nocivi della flessibilità».
Un quadro non ottimistico. Come se ne esce?
«Bisogna reinventare un tessuto sociale intermedio. Mi spiego. Nella
società verticale c'erano punti fermi, pesi e contrappesi. Il solidarismo
ambrosiano. Chi lavorava per i Falck, a esempio, aveva la possibilità di
abitare nel villaggio Falck e acquisiva tranquillità. Oggi il problema
delle case agli immigrati è esplosivo. Penso agli anziani soli, un altro
problema enorme: si costruiscono case di riposo, ma chi se le può
permettere?».
Che cosa fare allora?
«La soluzione è: rilanciare i meccanismi di rappresentanza. La baruffa
tra chi sostiene l'iperflessibilità e chi invoca la conservazione delle
regole, invece, rischia solo di trasformare la penombra in buio pesto».
Paolo Baldi
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