Morire per Danzica?, ci si chiedeva nella Francia
del 1939. L'opinione pubblica non aveva voglia di far la guerra a Hitler
per un problema che non sentiva come suo. Poi ci pensò lui a risolvergli
il dilemma. Il paragone che mi viene in mente le sembrerà forzato. Ma ho
l'impressione che ora c'è chi si chiede: Morire per la Legge Frattini?
Professor Giovanni Sartori, la legge Frattini sul conflitto di interessi
è in dirittura di arrivo. Silvio Berlusconi ha ora fretta. Ma vorrei
cominciare a chiederle di qualcosa che mi pare non quadri. Lo scontro su
questa legge è caldissimo, rovente direi, in Parlamento. Ma il Paese
sembra freddino, non pare appassionarcisi. Come mai?
«Dai sondaggi risulta che un 20 per cento
dell'opinione pubblica sente il problema e lo indica tra le priorità. È
poco? È molto? Secondo me non è poco. Il conflitto di interessi non è
il calcio. Non è un problema concreto come lo sono la delinquenza, la
disoccupazione, la pensione. Il conflitto di interessi invece non è
capito dalla Signora Sbattista (come ho avuto occasione di scrivere) e da
chi, come lei, "se ne sbatte". Interessa chi ha senso civico e
sa vedere al di là del proprio naso. Se questo pubblico arriva a un 20
per cento, a me sembra già tanto».
D'accordo: poco o molto sono valutazioni relative.
Ma mi permetta di continuare a chiederle: perché il 20 invece, mettiamo,
del 33 per cento?
«La risposta è ovvia: è che Berlusconi ha avuto, e
avrà sempre di più il potere di "falsare", o altrimenti
"silenziare" il problema. Che è gravissimo proprio per questo».
A Montecitorio ora siamo al muro contro muro. Ma
non era proprio possibile cercare un compromesso tra la Frattini-Cajanello
da una parte e il «modello americano» - se così possiamo definirlo per
comodità - dall'altro?
«Se io chiedo 100 e il mio acquirente mi offre 50, il
compromesso è 75. Ma se io voglio un cane, e mi viene offerto un gatto,
il problema diventa di scelta. Non lo posso risolvere con un ‘can-gatto’,
un animale mezzo cane e mezzo gatto. Il can-gatto magari piacerebbe al
Quirinale, ma purtroppo non esiste. Nel caso del conflitto di interessi il
negoziato parte da questo diktat: io (Berlusconi) mi tengo tutto, e
nemmeno accetto che il mio malfare (se ci fosse) venga sanzionato. Su
questa premessa, sulla base di questo diktat, cosa c'è da negoziare? Solo
la resa del gatto che si lascia mangiare dal cane. Tante grazie, no».
Ma perché prima Berlusconi ha aperto sulla
proposta Caianiello, per poi rifiutarla irrigidendosi sulla proposta
Frattini?
«Dichiarandosi aperto alla Caianiello il Cavaliere -
che è furbissimo - vendeva al Paese l'immagine del ‘dialogante’. Il
che gli ha servito per poi addebitare il rifiuto del dialogo alla
sinistra. In realtà la differenza tra la Frattini e la Caianiello era tra
zuppa e pan bagnato. Aprendosi alla Caianiello Berlusconi non rischiava
nulla, quasi nulla. Comunque, dopo aver fatto l'ammoina, il cavaliere è
tornato ad una Frattini peggiorata, e cioè ancor più sterzata a suo
vantaggio da un'idea di Caianiello».
Quale?
«L'idea di rinunziare ad una autorità ad hoc,
diciamo speciale e sopraelevata rispetto alle altre, per affidare il
controllo sull'‘abuso di interesse’ a una autorità già esistente: la
anti-trust (attualmente presieduta da Tesauro). Ora, a parte il fatto che
l'anti-trust ha dovuto sinora accettare un duopolio (dei media) che ne ha
rivelato l'impotenza, il punto a segnalare è che le decisioni
dell'anti-trust sono assoggettate al ricorso al Tar. Così la disciplina
del conflitto di interessi si andrà subito ad insabbiare nella morta gora
della ‘Repubblica dei Tar’. Geniale. Segnalo il progresso al vigile
occhio del Colle».
Veniamo alla proposta della sinistra che viene
riassunta nella dizione di ‘modello americano’. Che modello è? Può
provare a spiegarcelo?
«Cerco. Anche se non è facile, perché si tratta di
un modello flessibile e molto complesso. Negli Stati uniti il problema è
di ethics in government, etica nel governo. Etica, capito? In Italia siamo
invece in mano a giuristi che non vogliono macchiare la loro ‘purezza’
con intrusioni impure (appunto, etiche). Comunque, negli Stati uniti il
problema è stato affrontato mediante una serie di leggi, specialmente l'
Ethics in Government Act del 1978 e l' Ethics Reform Act del 1989;
dopodiché entrano in scena una molteplicità di organi (sei al livello
federale, e una miriade agli altri livelli) che provvedono all'attuazione
di questa normativa. Fermo due punti. Primo, che è vero che nessuna legge
impone come regola generale l'obbligo della alienazione dei beni, e
nemmeno del blind trust (salvo casi speciali). Secondo, che è altrettanto
vero che tanto l'alienazione come il blind trust possono essere imposte in
modo irresistibile dagli organismi che vagliano singolarmente i casi
concreti. Valga un esempio per tutti: quello dell'OGS (Office of
Government Ethics) che è l'agenzia federale che deve controllare tutte le
nomine (circa 20.000) proposte dall'esecutivo. Orbene, per tutte queste
nomine se l'OGS non dà il nulla osta, il Senato non approva la nomina. E
per dare il suo nulla osta l'OGS impone le sue condizioni, ivi inclusa la
vendita. Pertanto chi ci racconta che negli Stati uniti tutta la
disciplina del conflitto di interessi è lasciata alla libera volontà dei
coinvolti ci racconta una favola».
Bene. Ma c'è chi, come l'elefantino Giuliano
Ferrara sul Foglio, e altri amici di Berlusconi contrappone al suo
ragionamento un caso concreto: quello del nuovo sindaco di New York
Michael Bloomberg, il magnate che non vende e sarà controllato da un
board che nomina lui. Lei non trova qualche analogia tra il caso
Barlusconi e il caso Bloomberg?
«No, direi di no. È vero che New York non è un
comune qualsiasi. Ma per quanto grande e importante, si tratta pur sempre
di una amministrazione locale. Il sindaco di New York ha forti poteri
amministrativi, ma non ha poteri legislativi. Le leggi per lo Stato di New
York vengono fatte ad Albany, la capitale dello Stato, e sono di
competenza del governatore Patakis. L'analogo americano di Berlusconi è
invece il presidente Bush. Che ha alienato (sia lui, come i membri del suo
governo) i beni in odore di conflitto di interesse. L'analogia valida è
questa: e Berlusconi la viola alla grandissima».
Con Bloomberg resta però l'analogia che entrambi
sono entrati in politica e sono stati eletti con imperi aziendali
mediatici alle spalle.
«Va bene. Ma quello di Bloomberg, nel contesto degli
imperi di New York, è un ‘imperino’ da poco. Il suo valore è stimato
in 5 miliardi di dollari. E non si stratta in nessun modo di un patrimonio
strategico, di rilevanza strategica. Al 95 per cento i redditi della sua
società provengono dal noleggio di 160.000 terminali che forniscono più
che altro informazioni finanziarie. Il potere mediatico di Bloomberg è
quindi modestissimo. L'opinione, a New York, la fa il New
York Times. Pertanto
non si prevede che l'organo che decide su Bloomberg (il New York Conflict
of Interests Board, vedete quanti ce n'è) raccomando un'alienazione.
Questa sarebbe una sanzione sproporzionata. Ma, appunto, Bloomberg sta a
Berlusconi come un moscerino sta ad un'aquila reale».
Torniamo all'Italia. E da noi come andrà a finire?
«La previsione è facile. Berlusconi ha in Parlamento
una maggioranza schiacciante. Quindi può imporre l'approvazione della
Frattini, ivi inclusi tutti i peggioramenti della stessa che gli faranno
comodo. Il problema è se otterrà anche la legittimazione del Capo dello
Stato. Questo è l'unico punto incerto. Io sospetto sempre di più che il
Presidente si arrenderà senza nemmeno dissociarsi».
Quali sono le basi di questo suo ‘sospetto’?
«Il segnale è stato, per me, la nomina del ministro
delle Infrastrutture Lunardi. Il suo era un caso clamoroso e indubbio di
conflitto di interessi. Come ministro andrà ad erogare a sé stesso -
come progettista - decine di migliaia di miliardi. Ciampi ha lasciato
passare, facendo finta di non vedere. Eppure, il suo predecessore, il
presidente Scalfaro, rifiutò di firmare la nomina a ministro della
Giustizia di Previti. E in passato il Quirinale era intervenuto sui
governi e sulla loro composizione ancora più a fondo. Il presidente
Einaudi impose ad un Parlamento riluttante il primo ministro Pella. E
Ciampi deve le sue fortune ad un'analoga imposizione: il suo insediamento
come capo del governo fu ‘forzato’ da Scalfaro. Il Quirinale non ci
racconti, allora, che non poteva bloccare la nomina di Lunardi. Lo poteva
e doveva fare. Non facendolo ha dato a Berlusconi il segnale di via
libera. Che ora culmina nella versione peggiorata del progetto Frattini,
in una disposizione transitoria che sana il ‘vizio’ Lunardi».
Eppure, proprio venerdì il Presidente Ciampi ha
chiesto, a Genova, un'informazione pluralista, con un forte discorso
interpretato come una messa in guardia a Berlusconi sulle nomine Rai.
«Il discorso era ottimo ed è piaciuto anche a me.
Non vorrei però che se ne contentasse, che gli servisse per poter dire
‘vedete, ho provato’, e che tutto finisse lì. Perché a Genova, e
quasi casualmente, a un giornale? Il Presidente ha un potere di messaggio
alle Camere. Se vuole davvero che le sue parole abbiano peso, quello è lo
strumento. E dovrebbe far sapere chiaro e forte che ricorrerà a quello
strumento se il futuro presidente della Rai-tv non sarà davvero
‘terzo’ (invece che di designazione berlusconiana). In attesa io resto
dubitoso. I discorsi disarmati lasciano il tempo che trovano. Tanto più
che il 5 febbraio Stefano Folli (considerato molto vicino a Ciampi)
lasciava intendere sulle colonne del Corriere della Sera che al capo dello
Stato starebbe bene ‘un presidente (della Rai) leale alla maggioranza
che lo esprime’, purché di qualità. Nel qual caso proprio non ci siamo».
Insomma, allora, vale la pena di ‘morire per la
Frattini’, come per Danzica?
«Sì. Anche perché per la Frattini non c'è bisogno
di morire. Berlusconi non si propone di ammazzare nessuno. E poi lui la
sua Danzica l'ha già conquistata. Lo strapotere mediatico è già in sue
mani. A lui manca soltanto la benedizione e la legittimazione del capo
dello Stato. Vediamo se Ciampi lascerà passare la Legge Frattini come ha
lasciato passare senza fiatare la nomina di Lunardi».
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