Tuonò tantissimo (per sei anni), ma poi non piovve. È finita che dal
testo sul conflitto di interessi approvato alla Camera il maggiore
interessato - Berlusconi - esce privato della presidenza del Milan. Tutto
lì? Sì, tutto lì. Spero che tutti ridano. Alcuni rideranno verde, altri
gioiosamente. Ma tutti sono tenuti a ridere. Mi si opporrà che Berlusconi
perde solo il Milan in prima battuta, ma che altre privazioni o sanzioni
potranno sopravvenire in seguito. Ma è poco probabile. Perché la
Frattini è una legge su un desaparecido (così Andrea Manzella su
Repubblica ). Ed è anche una legge che perde l’oggetto, che non
acchiappa la fattispecie. È come una legge sull’aborto che riguarda
soltanto l’aborto delle vacche, o come una disciplina sui limiti di
velocità che riguarda solo le biciclette. La natura del problema sfugge
ancora a moltissima gente. Ma mettiamo, per esempio, che l’avvocato
Agnelli, proprietario della Fiat, diventi ministro dell’Industria. In
tal caso, tutti osserverebbero che si trova in una situazione oggettiva di
conflitto di interessi (oggettiva nel senso che prescinde da quel che fa o
non fa). Ma quando il proprietario di Mediaset diventa capo del governo, e
quindi diventa il concedente delle concessioni televisive delle quali è
concessionario, allora non è più così, allora per Berlusconi non c’è
conflitto oggettivo di interessi. Perché no? È perché Berlusconi si è
creato su misura una legge salva-Berlusconi. La Frattini ci propone una
normativa, sul conflitto di interessi «senza Berlusconi», che a lui non
si applica.
Inopinatamente l’ultima difesa del Cavaliere è firmata su queste
colonne da Piero Ostellino. In un primo pezzo Ostellino ha sostenuto che
il problema Berlusconi è insolubile; ed è poi tornato alla carica (il 9
marzo) osservando che «anche negli Stati Uniti la legge non detta al
presidente e vicepresidente alcuna soluzione per risolvere un loro
eventuale conflitto di interessi». E dunque come si fa a imporre a
Berlusconi un obbligo di dismissione che non esiste per Bush? Si fa, si
fa, caro Ostellino. Perché tra i due casi non c’è nessuna analogia.
Negli Stati Uniti vige un sistema presidenziale nel quale il presidente è
eletto dal voto di tutti gli americani. Pertanto non gli può essere
consentito di cancellare quel voto, e cioè di salvare il patrimonio
rinunziando alla carica. In Italia, invece, vige un sistema parlamentare
che non prevede l’elezione popolare diretta di nessuno, e nel quale
anche Berlusconi è eletto in un particolare collegio. Pertanto il
Cavaliere ricade, come qualsiasi altro eletto, sotto l’articolo 65 della
Costituzione: che «la legge determina i casi di ineleggibilità o di
incompatibilità con l’ufficio di deputato o senatore». E quindi nel
suo caso può benissimo essere consentito di scegliere tra patrimonio e
carica. Se poi a Ostellino interessa capire come mai i presidenti
americani hanno tutti venduto senza eccezione i loro beni, la spiegazione
è che gli Stati Uniti sono pieni di sartorini (tipi come me) pronti a
fare fuoco e fiamme su un presidente in odore di sospetto, mentre l’Italia
è piena di ostellini che si arrendono anzitempo a inevitabilità rese
tali dalla loro resa.
Tornando al punto, la Frattini si impernia su questa intoccabile premessa:
che la proprietà di Berlusconi non è il problema, e che non è
negoziabile. Ma su questa premessa non capisco proprio l’invocazione
(del Quirinale e altri) di «correzioni». Perché - cito ancora Manzella
- è impossibile «correggere il niente», e cioè correggere una legge
che «lascia nudo il conflitto di interessi che voleva vestire». Le
modifiche preannunziate da Frattini per il riesame del Senato sono
soltanto foglie di fico. Alzata la foglia, l’impudicizia sottostante
resta.
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