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Sergio Romano
La voce spezzata urla dal silenzio
in Il Corriere della sera 23 febbraio 2002
Nell'atroce morte di Daniel Pearl, sgozzato dai suoi carnefici di fronte a una telecamera, ciò che maggiormente colpisce è l'implicita motivazione della sentenza. Per noi l'inviato del Wall Street Joumal era anzitutto un reporter, fedele alla logica della sua professione e desideroso di dare al lettore il maggior numero possibile di notizie. Per i suoi assassini questa figura professionale non esiste. Americano ed ebreo, Pearl non poteva essere altro che un «agente», vale a dire lo strumento della politica imperiale e «sionista» degli Stati Uniti e di Israele.
In una cultura in cui il concetto di libera stampa ha tradizioni recenti e spesso fragili, l'indipendenza del giornalista diventa così, per i gruppi più radicali, un valore incomprensibile. Ai loro occhi una società di individui, in cui ciascuno ha idee proprie e interessi diversi, è una finzione dietro la quale vi è soltanto il blocco solidale di una responsabilità collettiva. . Hanno catturato Pearl perché lo consideravano un soldato in abiti civili, da usare come moneta di scambio. Si sono serviti di lui come di un ostaggio da barattare" contro qualche concessione per i prigionieri di Guantanamo. E lo hanno ucciso per punire l'America quando hanno capito che il suo governo non avrebbe ceduto al ricatto. Mi sentirei più tranquillo, paradossalmente, se avessi la sensazione che gli assassini sanno di avere tolto cinicamente la vita a un innocente. Ma temo che siano convinti — ed è questo l'aspetto più inquietante della vicenda — di avere ucciso un colpevole.
Tocca quindi in primo luogo ai musulmani chiedersi, con un coraggioso atto di coscienza, se questi episodi non siano anche il risultato della cultura politica di molte delle loro nazioni. Tocca ai loro intellettuali e uomini politici, se non vogliono che gli effetti di quegli atti ricadano sulla toro testa, dichiarare al terrorismo una guerra morale e civile.
La morte di Pearl suggerisce un'altra considerazione. La guerra afghana non ha debellato il terrorismo. Dopo essere stati protagonisti di infiniti discorsi politici e cronache giornalistiche, Osama Bin Laden e il mullah Ornar sono usciti di scena: il capo di Al Qaeda è scivolato tra le dita degli assedianti e il leader dei tale-bani si è eclissato, sembra, a bordo di una motocicletta. Impegnata a correggere l'immagine degli Stati Uniti nel mondo, la propaganda americana a dimenticato i toro nomi e preferisce parlare d'altro. E' comprensibile:raramente le azioni militari producono tutti i risultali desiderati, e ancora più raramente i governi amano parlare dei loro insuccessi.
Ma la mancata cattura di Bin Laden sarebbe meno grave se Washington non avesse presentato l'operazione afghana come una «guerra al terrorismo» e non avesse dato la sensazione che i bombardamenti avrebbero avuto effetti decisivi. Sarebbe stato preferibile dichiarare sin dall'inizio che l'attacco aveva un obiettivo circoscritto e realistico: eliminare le basi di Al Qaeda e privare Bin Laden di un utile retroterra logistico. Quello scopo è stato raggiunto e il finanziere saudita, ammesso che sia ancora vivo, è oggi molto più debole e vulnerabile di quanto non fosse prima del 7 ottobre. Ma la morte di Pearl dimostra . che non è possibile vincere il terrorismo con i missili e con le portaerei. Occorre batterlo con una combinazione di fattori che all'America, durante i giorni dell'indignazione e della collera, dovettero sembrare insoddisfacenti e che appaiono oggi, invece, essenziali: qualche operazione militare mirata, l'intelligence, la scoper- \ ta dei circuiti finanziari j che alimentano il terrori- i smo, la buona economia, < la buona cultura e, pur- < troppo, una buona dose 1 di pazienza. Per questa ' battaglia di lungo respiro ' l'America potrà contare '. su una collaborazione e un consenso che nelle ultime settimane, mentre minacciava di fare in Iraq ^ ciò che ha fatto in Afghanistan, si sono progressivamente attenuati.