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IL TEMPO CHE RESTA fra lavori, eventi, ricordi |
2006
31 dicembre 2005
DICKINSON EMILY
Ci abituiamo al buio
quando la luce è spenta
dopo che la vicina ha retto il lume
che è testimone del suo addio,
per un momento ci muoviamo incerti
perché la notte ci rimane nuova,
ma poi la vista si adatta alla tenebra
e affrontiamo la strada a testa alta.
Così avviene con tenebre più vaste
quelle notti dell’anima
in cui nessuna luna ci fa segno,
nessuna stella interiore si mostra.
Anche il più coraggioso prima brancola
un po’, talvolta urta contro un albero,
ci batte proprio la fronte;
ma, imparando a vedere,
o si altera la tenebra
o in qualche modo si abitua la vista
alla notte profonda,
e la vita cammina quasi dritta.
We grow accustomed to the Dark -
When Light is put away -
As when the Neighbor holds the Lamp
To witness her Goodbye -
A Moment - We uncertain step
For newness of the night -
Then - fit our Vision to the Dark -
And meet the Road - erect -
And so of larger - Darknesses -
Those Evenings of the Brain -
When not a Moon disclose a sign -
Or Star - come out - within -
The Bravest - grope a little -
And sometimes hit a Tree
Directly in the Forehead -
But as they learn to see -
Either the Darkness alters -
Or something in the sight
Adjusts itself to Midnight -
And Life steps almost straight.
da: http://www.emilydickinson.it/j0401-0450.html
Non
è certo il caso di fare una festa, ma per quanto riguarda la politica
l’esecuzione dell’ex dittatore Saddam Hussein sta all’attivo di questo 2006.
La chiave di lettura che utilizzo insegue questi pensieri: stiamo parlando
di crimini verso l'umanità eseguiti da un capo di stato che perseguiva una
terza guerra mondiale; stiamo parlando di una procedura a suo modo giuridica
(intendo in quel contesto socio-culturale) da inquadrare nelle
situazioni estreme. Non situazioni controllabili con la
convinzione, le argomentazioni, il diritto: situazioni estreme, ossia
eccezionali e meritevoli di un ragionamento diverso nella comparazione con
le altre situazioni della quotidianità e della storia.
La questione è moralmente questa: le colpe, quando sono
così grandi, devono essere pagate nel modo estremo.
La questione è giuridicamente questa: il processo Saddam è
stato legittimo all’interno dei loro ordinamenti giuridici. Ordinamenti
primitivi ma legittimi in quel quadro socio-culturale. Osserva in proposito
Pietro Ostellino:
“Nella nostra cultura giuridica, il principio di legalità
impone al giudice di attenersi alla lettera della legge, evitando di fare
riferimento alla morale e alla religione; a sua volta, il principio di
legittimità pretende che la legge sia fondata sul rispetto dei valori della
democrazia liberale e sulle garanzie dello Stato di diritto. Nella cultura
giuridica islamica, al contrario, il principio di legalità coincide con
quello di legittimità solo se ha a proprio fondamento la morale religiosa
(che non è propriamente lo Stato di diritto). Si tratta di due piani
differenti — quello occidentale, giuridico, che spiega il rifiuto
etico-politico della pena capitale; quello islamico, morale, che la
giustifica giuridicamente — da cui valutare il processo, ma che fanno tutta
la differenza fra la nostra e la loro civilizzazione.”
Se
il principio morale fosse stato “non si deve dare la pena di morte”, allora
neanche a Hitler (se non ci avesse pensato da sè suicidandosi) si sarebbe
dovuta applicare la sanzione estrema. E la fucilazione di Mussolini
(avvenuta senza processo) sarebbe stata non solo illegittima, ma anche
ingiusta e per di più definibile come un omicidio. E neppure il rapimento,
il
processo e l’esecuzione di Adolf Eichmann, il “funzionario” della Shoah,
sarebbe stato un infinitesimo atto di giustizia davanti alla enormità del
genocidio industrialmente organizzato.
Il mio personale giudizio nei confronti della storia contemporanea è quello
di osservare una profonda ingiustizia nel fatto che Stalin , Mao, Francisco
Franco, Pinochet …. siano morti secondo il loro orribile ciclo naturale di
vita. E lo stesso avverrà per Fidel Castro, che anzi verrà decantato come un
eroe.
Al male estremo non c’è rimedio. Si può solo parzialmente combatterlo con
una reazione altrettanto estrema. Anche per evitare che queste figure
mefitiche possano continuare nella loro opera concreta e simbolica.
Nella storia non ci sono equivalenze nette, ma solo rassomiglianze che
possono provocare quella “tonalità affettiva” adatta alla riflessione.
La seguente pagina di Hannah Arendt tratta da “La banalità
del male” e dedicata al processo Eichmann mi sembra adatta:
“Le
proteste, è vero, ebbero breve vita, ma furono numerose e vennero da persone
influenti e autorevoli. La tesi più comune era che le colpe di Eichmann
erano troppo grandi per poter essere punite dagli uomini, che la pena di
morte non era proporzionata a crimini di tali dimensioni: il che
naturalmente in un certo senso era vero, sennonché è assurdo sostenere che
chi ha ucciso milioni di esseri umani debba per ciò stesso sfuggire alla
pena. Tra la gente comune, molti dissero che la condanna a morte dimostrava
"poca fantasia," e proposero, sia pure tardivamente, alternative ingegnose:
Eichmann per esempio avrebbe dovuto "trascorrere il resto della sua vita
nelle aride distese del Negeb, condannato ai lavori forzati, aiutando col
suo sudore a colonizzare la patria degli ebrei" — una pena a cui
probabilmente non avrebbe resistito più di un giorno, a prescindere dal
fatto che il deserto del Negeb non è propriamente una colonia penale;
oppure, nello stile di Madison Avenue, Israele avrebbe dovuto innalzarsi ad
"altezze sublimi," al di sopra delle considerazioni "razionali, ,giuridiche,
politiche e anche umane," convocando tutti coloro che lo avevano catturato,
processato e condannato e proclamandoli "eroi del secolo" nel corso di una
cerimonia pubblica, con Eichmann presente in catene, facendo riprendere la
scena dalla televisione.
Martin Buber defini l'esecuzione un "errore di portata storica," che poteva
"liberare dal senso di colpa molti giovani tedeschi" — un argomento che
stranamente riecheggiava le idee dello stesso Eichmann, il quale proprio
per quella ragione aveva espresso un giorno il desiderio di essere impiccato
in pubblico. (Questo, probabilmente, Buber non lo sapeva, ma è strano
comunque che un uomo della sua statura morale e della sua intelligenza non
si rendesse conto di quanto spurio fosse quel tanto reclamizzato senso di
colpa. Sentirsi colpevoli quando non si è fatto nulla di male: quanta
nobiltà d'animo! Ma è assai difficile e certamente deprimente ammettere la
colpa e pentirsi. La gioventù tedesca, ad ogni passo della sua vita, è
circondata da tutte le parti da uomini che oggi rivestono cariche pubbliche
importanti e che sono veramente colpevoli, ma non sentono nulla.
Di fronte a questo stato di cose, la reazione normale dovrebbe essere lo
sdegno, ma lo sdegno sarebbe molto pericoloso — non un pericolo fisico, ma
sicuramente un ostacolo per la carriera. I giovani tedeschi — uomini e donne
— che ogni tanto, come in occasione della pubblicazione del Diario di
Anna Frank oppure del processo Eichmann, esplodono in manifestazioni
isteriche di senso di colpa, non vacillano sotto il peso del passato, sotto
il peso delle colpe dei loro padri; cercano piuttosto di sottrarsi alla
pressione dei veri problemi attuali rifugiandosi in un sentimentalismo a
buon mercato.) Il professor Buber aggiunse che non sentiva "alcuna pietà"
per Eichmann perché aveva pietà soltanto per quelli "di cui nel mio cuore
capisco le azioni"; e ripetè ciò che aveva detto in Germania molti anni
prima, e cioè che "solo formalmente" aveva qualcosa in comune, come uomo,
con coloro che avevano partecipato alle gesta del Terzo Reich. Questa
alterigia, però, era un lusso che chi doveva giudicare Eichmann non si
poteva permettere, perché la legge presuppone appunto che si abbia qualcosa
in comune, come uomini, con gli individui che accusiamo, giudichiamo e
condanniamo. A quanto ci consta, Buber fu l'unico filosofo a esprimere
pubblicamente un giudizio sull'esecuzione di Eichmann (poco prima che
iniziasse il processo, Karl Jaspers aveva concesso alla radio di Basilea
un'intervista, più tardi pubblicata su Der Monat, in cui aveva
detto che Eichmann doveva essere giudicato da un tribunale internazionale);
e dispiace constatare che proprio lui, persona cosi autorevole, eludesse il
vero problema posto da Eichmann e dalle sue azioni.
Le voci che meno si udirono furono quelle di coloro che per principio erano
contrari alla pena di morte; eppure le loro idee sarebbero rimaste valide,
poiché non avrebbero avuto bisogno di riadattarle a questo caso particolare.
Ma forse si resero conto — giustamente, a nostro avviso — che battersi per
Eichmann non avrebbe giovato molto alla loro causa.”
Hannah
Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme (1963),
Feltrinelli, 1964
Per una cronaca di questi avvenimenti del 30 dicembre 2006, rimando a un testo documentale di sir percy blakeney.
Andrea Romano, Una
morte giustificabile, La Stampa 31 dicembre 2006 |
Beati coloro che sono animati
dalla certezza delle proprie opinioni di fronte allo spettacolo di
quel cappio. Perché l'esecuzione di Saddam dovrebbe costringerci
tutti a un doloroso esercizio del dubbio. Compresi noi europei che
veniamo da un lungo periodo di privilegio, da più di sei decenni
all'insegna della pace e della democrazia durante i quali non ci è
più toccato in sorte di giudicare chi tra noi si fosse reso
responsabile del crimine di sterminio. L'ultima volta che ci siamo
misurati con il problema lo abbiamo risolto con qualche
approssimazione giuridica ma con efficacia, senza poi dovercene
pentire più di tanto. «Se sia giusto uccidere un tiranno lo abbiamo
chiarito una volta per tutte con la fucilazione di Benito Mussolini»:
rispose più o meno così Sandro Pertini, memore del suo antifascismo
combattente, a chi gli chiedeva nel 1986 cosa pensasse del fallito
attentato a Pinochet. Augusto Pinochet è poi spirato serenamente nel
suo letto, come era già capitato a Pol Pot e ancora prima a Stalin.
Lo stesso sarebbe accaduto a Saddam, tra venti o trent'anni, se la pena capitale fosse stata commutata nel carcere a vita. Sarebbe stato meglio per l'Iraq di questi giorni? Probabilmente sì, come ci dicono le vittime dei primi attentati già organizzati in rappresaglia. E viene da pensare che ancor meglio sarebbe stato se Saddam fosse stato ucciso nel buco in cui era stato catturato, risparmiandoci le certezze o i dubbi di queste ore. Ma sarebbe un cedimento alla pigrizia. Perché la sua esecuzione fa orrore alla nostra civiltà giuridica tanto quanto ci obbliga a metterci nei panni di un iracheno: uno qualunque tra i milioni che ieri hanno festeggiato, in piazza o nelle proprie case, per la giustizia che finalmente veniva resa alla memoria di un familiare o di un amico assassinato da una delle dittature più sanguinarie del ventesimo secolo. È stata una giustizia piena di falle e di crepe, gestita da un tribunale di vincitori che ancora non possono ritenersi tali. Soprattutto, è mancato il vero processo internazionale che avrebbe potuto far luce sui trent'anni del suo potere, sulle connivenze di cui ha goduto anche in Occidente così come sulla vera dimensione dei suoi crimini. Paradossalmente Saddam è arrivato al patibolo per uno dei suoi stermini minori, per poche decine di civili uccisi sulle centinaia di migliaia di cui si è reso responsabile. E da oggi c'è chi potrà dire che il dittatore è stato fatto tacere perché non rivelasse niente dei suoi passati rapporti con la Casa Bianca, così come si diceva che Mussolini era stato fucilato su ordine dei britannici per evitare imbarazzi a Churchill. Tutto vero, è stata una giustizia fragile e parziale. Ma è stata la giustizia degli iracheni, di un popolo che non finisce di essere vittima dei propri carnefici, dei catastrofici errori di Bush e del pilatesco disinteresse della maggior parte dei paesi europei. Nel mare di sangue da cui è attraversato ogni giorno, quella di Saddam è l'unica morte giustificabile sulla strada di una speranza possibile per l'Iraq. Una tragedia come ogni volta che un uomo muore per mano di un altro uomo, ma forse l'inizio di una svolta per un paese che può iniziare a ritrovarsi intorno all'esecuzione del primo responsabile della sua rovina. Una piccola dose di rispetto verso la sventura irachena dovrebbe spingerci a domandarci se non sia il caso di abbassare almeno un po' il ditino con il quale condanniamo quella forca. Uno spettacolo penoso, ma anche un messaggio per gli altri sanguinari rais rimasti nel mondo. Che forse per qualche giorno andranno a dormire massaggiandosi il collo. |
Una lezione esemplare di Fiamma Nirenstein
La vista di Saddam Hussein col cappio al collo, l'ultima paura, quella che non potrà mai essere narrata, negli occhi quando il boia gli spiega la procedura che lo attende, è estrema per l'occhio occidentale; guardarla sullo schermo televisivo, oltre alla sensazione di assistere a un evento storico ci ha dato anche il sospetto non peregrino che la maggioranza di noi occidentali spiasse l'attimo privato della dipartita di un uomo, oltre che di un dittatore. Lo spettacolo dell'esecuzione pubblica ormai è fortunatamente in disuso presso tutti i popoli occidentali, presso quasi tutti è stata eliminata la pena di morte, e questo per ottimi e profondi motivi. Con questo, vogliamo anche affermare che di sicuro, chiunque obbietti all'esecuzione della condanna dal punto di vista della sacralità della vita per motivi di etica religiosa o laica, non può che avere ragione. Eppure questo non ci esime, a meno che non ci si consideri in prima persona ambasciatori del Cielo, dall'osservazione del Medio Oriente e di come l’esecuzione di Saddam Hussein interagisce con le sue dinamiche.
In secondo luogo: molti temono adesso una recrudescenza del
terrorismo. Non è escluso, naturalmente. Non che i rischi di crescita del
terrorismo, tuttavia, adesso fossero trascurabili. Rischi impellenti, come
quello di un ulteriore impegno iraniano, e rischi straordinari. Per esempio
mi dice uno fra i più autorevoli osservatori del Medio Oriente, Uri Lubrani,
israeliano di origine iraniana, capo di un prestigioso quanto segreto
ufficio al ministero degli Esteri, che non è mai sparita la preoccupazione
che Saddam potesse trovare una via di fuga fra le rovine del terremoto
iraniano, negli scontri fra sciiti e sunniti. «Era una possibilità
verificata come reale, e la temevamo più di ogni altra - ci dice Lubrani -:
Saddam non si trovava a Sant'Elena».
In quel caso il bagno di sangue non avrebbe avuto confini: Saddam avrebbe
allora rimesso in funzione la più pericolosa fra le sue macchine di potere,
ovvero l'ambizione che lo aveva portato a perseguire la bomba atomica, a
lanciare 35 missili contro Israele durante la prima guerra del Golfo, a
armarsi di armi chimiche e biologiche verificate dalle missioni dell'Onu in
fasi successive, a invadere il Kuwait, a minacciare l'Arabia Saudita, a fare
una guerra con milioni di morti contro l'Iran, a gasare i curdi nell'88, a
ordinare stragi continue e immani di sciiti, a pagare 25mila dollari alla
famiglia di ogni terrorista suicida palestinese che portasse sangue ebraico
come trofeo, a fare di Bagdad un centro del terrore mondiale. Non bisogna
nella pietà, che pure ha tutti i diritti di esprimersi, dimenticare chi
fosse Saddam: uno dei personaggi che porta la responsabilità dello stato
pietoso del Medio Oriente odierno. La sua scomparsa può, sì, senz'altro
creare un periodo di ulteriore terrore; eppure dobbiamo deciderci a smontare
l'idea che l'aggressività sia causata prevalentemente dai nostri errori, da
quelli americani o israeliani, e a identificare nella enorme insorgenza
jihadista del nostro tempo il vero responsabile.
Terzo punto: il regime iraniano ha rilasciato una delle poche dichiarazioni
di soddisfazione per l'esecuzione. Non ci si poteva aspettare niente di
diverso, dal tempo della guerra Iran-Irak, sanguinosa e orrenda, ogni
iraniano odia con sentimento personale il dittatore iracheno. Tuttavia, le
ragioni della gioia di Ahmadinejad in prospettiva sono alquanto conturbanti:
il presidente iraniano infatti ha già fatto del suo meglio, e con successo,
per giuocare il ruolo del grande agitatore contro la democrazia irachena con
esportazione di armi e uomini, ha spinto la parte sciita sul fronte
antiamericano e antioccidentale come parte del suo disegno egemonico.
Di certo vede la scomparsa di Saddam dalla scena come un ulteriore spazio
per la sua strategia. Questo ci mostra come nel Medio Oriente tutto si leghi
ormai in un nodo gordiano. L'Iran, se non sapremo finalmente comunicare a
Ahmadinejad che non gode di impunità, può diventare il beneficiario di una
mossa che dovrebbe creare più spazio per la giustizia. Se la morte di un
uomo è sempre una tragedia, che almeno quella di un dittatore sia un segno
di giustizia.
L’Italia unita per la vita di Saddam
di Magdi Allam, Il Corriere della sera 29 dicembre 2006 |
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Paul Berman, : «Ciechi di fronte al fascismo iracheno» Dal CORRIERE della SERA del 4/1/2007,
L'impiccagione di Saddam a Bagdad si è rivelata un avvenimento doppiamente scandaloso, innanzitutto per la scena in se stessa, e successivamente per la reazione innescata nell'opinione pubblica occidentale, in particolare in Italia. Per affrettare l'esecuzione, il primo ministro Nuri Kemal al-Maliki ha aggirato una legge che richiedeva l'approvazione di altri due leader politici, e un'altra ancora che prescriveva di attendere che fosse trascorsa una festività sunnita: in poche parole, aggirando la legalità stessa.PS Qualche commento anche qui
giovedì, 21 dicembre 2006
Magistrato 1:”Risulta ormai acquisito alla cultura
giuridica il principio secondo cui l'intervento medico è
legittimato dal consenso valido e consapevole espresso dal
paziente, in forza degli articoli 13 e 32 della Costituzione,
che tutelano non solo il diritto alla salute, ma anche il
diritto di autodeterminarsi, lasciando a ciascuno il potere di
scegliere autonomamente se effettuare, o meno, un determinato
trattamento sanitario … II distacco del respiratore senza
sedazione violerebbe il rispetto del principio costituzionale
della dignità della persona … Il ricorso, invece, non è
ammissibile, per quanto riguarda la possibilità di ordinare ai
medici di non ripristinare la terapia, perché si tratta di una
scelta discrezionale, anche se tecnicamente vincolata …Il
limite è nell'articolo 37 del codice deontologico: quando non
c’è possibilità di guarigione, prevede la norma, il medico deve
limitare la sua opera all'assistenza morale e alla terapia
atta a risparmiare inutili sofferenze, fornendo al malato i
trattamenti appropriati (Procura della Repubblica su istanza di
Piergiorgio Welby di poter interrompere la terapia con una dose
di sedativi)
Religioso 1: Mi viene da dire che se qualcuno esprime
il desiderio di affrettare la fine della propria pena, non
è peccato. Anzi, può essere anche un desiderio sano. Però... c'è
un principio a cui non possiamo sfuggire. La vita è un dono, è
sacra, è intangibile. Lo riconoscono praticamente tutti, non
solo i credenti, anche non credenti come Kant … Io Welby lo
capisco, ma prima di agire bisogna pensarci dieci volte.
Potrei essere tormentato per sempre, pensando di essere stato
io a togliergli la vita (Cardinale Ersilio Tonini)
Filosofo 1: Io capisco e rispetto ciò che dice Welby. Il suo è un caso particolare reso possibile dalla prepotenza scientistica e tecnologica, dal dramma del rapporto uomo - tecnica … qui il problema è: posso io vivere ostaggio di una macchina? Ha senso? Dio mi chiede questo? No, non ho dubbi: Dio non chiede questo … Se una persona, credente o meno, vuole rinviare la propria morte indefinitamente va bene, ci mancherebbe, è una sua scelta. Però nessuno, magari in nome di Dio, può dire a un altro: te lo impongo. Ciascuno, se lucido, ha il diritto di decidere. E un cristiano può affermare: il buon Dio non mi ha detto che devo vivere attaccato a una macchina, ma di vivere finché la physis, la natura che ti ho dato lo permette (Giovanni Reale)
Medico 1: Dobbiamo paragonare la macchina che lo tiene in vita alla chemioterapia che si prescrive ai pazienti oncologici. Nei casi in cui la cura dia troppi effetti collaterali si sceglie di interrompere pur sapendo che la persona potrebbe morire prima del previsto … E’ la medicina che chiede queste scelte. Ogni giorno questo viene fatto nel chiuso delle camere degli ospedali e nelle case private dei pazienti. In silenzio, lontano dai riflettori. Sono decisioni che ci tormentano, spesso le condividiamo con i parenti. Sempre secondo scienza e coscienza (Roberto Santi) – medico dirigente della Asl 4 di Chiavari)
Giurista 1:
II diritto al rifiuto di cure é entrato nella
Carta dei diritti dell'Unione
Europea. Ed è già accaduto che
Medico 2: Chi conosce davvero la sofferenza sa che è un gesto nobile, direi quasi eroico, quello di offrire ai riflettori il proprio crudo dolore fisico e psichico. Per questo io ammiro Welby e da mesi appoggio la sua battaglia con commozione e con gratitudine, ma dentro di me penso che sia profondamente ingiusto che sia lui a doverla combattere. Credo che il principio dell'eutanasia rappresenti il diritto di morire. Dunque è parte del corpus dei diritti individuali pienamente riconosciuti dalla civiltà moderna : non è né di destra né di sinistra e non può essere una scelta isolata dei medici o dei giudici o dei politici del momento (Umberto Veronesi)
Magistrato 2:
II diritto di richiedere la interruzione della respirazione
assistita, previa somministrazione della sedazione terminale,
deve ritenersi sussistente ma trattasi di un diritto non
concretamente tutelato dall'ordinamento. In assenza della
previsione normativa e degli elementi concreti di natura
fattuale e scientifica di una delimitazione giuridica di ciò che
va considerato accanimento terapeutico va esclusa la sussistenza
di una forma di tutela tipica dell'azione da fer valere. E ciò
comporta di conseguenza la inammissibilità dell'azione cautelare
… Solo la determinazione politica e legislativa, facendosi
carico di interpretare l'accresciuta sensibilità sociale e
culturale verso le problematiche relative alla cura dei malati
terminali di dare risposte alla solitudine e alla disperazione
dei malati di fronte alle richieste disattese, ai disagi degli
operatori sanitari e alle istanze di fare chiarezze nel definire
concetti e comportamenti, può colmare il vuoto di disciplina
anche sulla base di solidi e condivisi presupposti scientifici
che consentano di prevenire abusi e discriminazioni. Allo stesso
modo in cui intervenne il legislatore nel definire la morte
cerebrale (Angela Salvio, Giudice. Tribunale di Roma)
Giurista 1: E' sconcertante, ai limiti della denegata giustizia, la decisione con la quale il Tribunale di Roma ha respinto la richiesta di Piergiorgio Welby di poter morire con dignità. La palla è stata rilanciata nel campo della politica. Ma i tempi della politica non sono quelli della vita ... Se l'ordinanza avesse ripercorso correttamente l'itinerario costituzionale, sarebbero stati evitati errori e sgrammaticature. L'articolo 32 fornisce una linea nitida: la salute è diritto fondamentale dell'individuo, non possono essere imposti trattamenti sanitari se non per legge e mai la legge può violare i limiti imposti dal rispetto per la persona umana. Poichè per salute deve intendersi il "benessere fisico, psichico e sociale, questo vuol dire che il governo dell'intera vita è fondato sulle libere decisioni degli interessati. Poiché nessuno può essere obbligato ad un trattamento sanitario, l’argomentazione dell’ordinanza deve essere rovesciata: la mancanza di una legge rende illegittimo il trattamento, non la richiesta di interromperlo. Poiché nulla può esser fatto che violi la dignità, "il rispetto della persona umana", questo vuol dire, soprattutto in situazioni estreme e drammatiche, che nessuno può imporre la prigionia della sofferenza. (Stefano Rodotà, già garante della privacy e docente di diritto privato). [l'intero intervento di Rodotà è qui]
Medico 3:
Secondo la religione cattolica la vita non ci appartiene, ci è
stata donata da dio e non ne possiamo disporre. Cosa
inaccettabile per chi in dio non crede e ritiene di essere
padrone della propria esistenza. Siamo dunque a uno stallo,
determinato dal fatto che ancora una volta si cerca di stabilire
regole religiose per un principio che in un paese laico dovrebbe
rispettare le decisioni individuali. Siamo di fronte alla
contrapposizione di differenti ideologie ed è assurdo affrontare
la questione cercando di stabilire maggioranze e minoranze: su
questi temi deve prevalere il rispetto della laicità e debbono
essere trovate soluzioni che tengano ugualmente conto dei
principi etici di tutti i cittadini. E' comunque ora di
affrontare il problema dell’eutanasia, senza lasciarsi
fuorviare da false prospettive e da soluzioni ipocrite. Ad
esempio, il fatto che si cerchi di predisporre nel paese centri
di cure palliative e di terapie anti-dolore è importante, è
civile, ma non modifica per niente la necessità di approvare
una legge che stabilisca norme precise per l'eutanasia. Cure
palliative e terapia del dolore, infatti non hanno a che fare
con la dignità delle persone ed è proprio la sensazione di
perdere questa dignità che persuade molti a chiedere di essere
aiutati ad andarsene, possibilmente in modo quieto e indolore
(Carlo Flamigni, medico)
Sogno una morte diversa da quella di Piergiorgio Welby.
Preferirei di no. Preferirei la fine del cugino Michele, una
casa di provincia linda come non è mai stata, una stanza da
letto che sembra un sacrario di specchiere e madie senza un
grammo di polvere, le visite dei parenti e degli amici che sono
accolti nel tinello dalle donne di famiglia e dai bambini, poi
introdotti discretamente dal malato semicosciente che subisce
le loro carezze, un viso sofferente e rassegnato sfiorato
dall'amore al cospetto di lenzuola bianche come la luce del
mattino d'estate, i cateteri nascosti con pudore, e forse anche
la foto del Papa, forse anche un frate pieno di bonomia che mi
sfruculia e mi dice che sono sulla via del ritorno.
Il mio è un sogno laico, non credente, di chi non accetta la
banalizzazione della vita anche attraverso la serializzazione
della morte come sfida analgesica al significato del dolore. Ed
è anche un sogno a cui non posso dire di saper corrispondere,
quando la realtà si metterà ad inseguirlo. Penso anche che una
società in cui si muore così come il cugino Michele ha un
rapporto più stretto e fiducioso con la verità, qualunque essa
sia, massima delle verità essendo quella che io agisco da uomo
libero ma non sono il mio padrone. Chi sia il padrone, poi si
vedrà faccia a faccia, ma ora, nell'enigma, so di non esserlo
io stesso.
Tuttavia capisco il bisogno di requie, capisco il requiem laico di Welby e dei suoi compagni, compreso il medico anestesista che su sua richiesta lo ha sedato e ha staccato la spina. Sono contrario all'eutanasia per legge, che è la sostanza del problema dissimulata con grande e legittima abilità politica nella campagna di cui Welby ha voluto essere il banditore, ma non posso approvare l'obbligo di cura, che è una contraddizione in termini, e non posso negare ad alcuno le terapie sedative della sofferenza fisica quando la vita si esaurisce, per lo meno nel corpo. Vorrei che la norma giuridica se ne stesse il più possibile lontana dalla legalizzazione della morte, che ha già fatto progressi abbastanza spettacolari con il trionfo culturale e la pratica indiscriminata dell'aborto, con il protocollo di Groningen sull'eutanasia dei bambini ammalati, con lo spegnimento coatto per sentenza comminato a Terry Schiavo, con un disprezzo per il vicino che genera terrore senza fine e impone la brutta e bronzea legge della guerra giusta in soccorso del convivere e della tranquillità dell'ordine. Le uni-che norme che accetto sono quelle a difesa della vita dal suo inizio alla sua fine naturale, con la depenalizzazione dell'aborto come eccezione assoluta e non come forma relativistica di controllo della riproduzione o di contraccezione ex posi
Tuttavia considererei una sciagura un processo nato dal caso Welby, e idiota il grido di "assassino" indirizzato a coloro che hanno realizzato la sua volontà, amministrando il loro culto attraverso una strana forma legale di disobbedienza civile. Il culto radicale per le libertà civili, che ormai sistematicamente si converte in battaglie religiose intorno all'idolo giacobino dei diritti dell'uomo, compreso il diritto di ordinare la propria morte o comminarla ad altri in nome della libertà di vivere come si vuole, io lo combatto. Ma se i radicali, nell'ambivalenza che è propria di ogni guerra religiosa, si fanno scudo dell'orrore che non si può non provare per la sola idea dell'obbligo di cura, abbasso la mia lancia. Tra i radicali, per la sua e per la mia dignità, annovero anche Welby. Il cui gesto pubblico è ovviamente controverso. Il cui bisogno privato di riposo, imperativi della fede a parte, non lo è.
sabato, 09 dicembre 2006
IL TESTO DELLA LETTERA
Signor Direttore,
sono Piergiorgio Welby, che ha preso il posto di Luca Coscioni quale Presidente dell'Associazione radicale che porta il suo nome, e come esponente della costellazione di soggetti politici Radicali, nazionali e internazionali, che operano con e attorno al Partito Radicale.
Ormai, 77 "giorni" fa, mi sono rivolto pubblicamente, personalmente, politicamente, al Presidente della Repubblica, quale supremo Garante del rispetto della Costituzione, della legalità repubblicana; per ottenere finalmente l'esercizio del mio diritto naturale civile politico personale ad una mia morte - naturale -. Solo modo possibile per conquistare (anche in Diritto) pace per questo "mio" corpo altrimenti sempre più straziato e torturato. Sequestratomi, per una kafkiana imposizione "etica" dall'ordinamento e del potere burocratico, o anche a esso imposto. Dobbiamo tutti - credo- gratitudine per la qualità, l´importanza, della Sua risposta e delle Sue esortazioni che hanno indubbiamente consentito il grave e grande dibattito che unisce, anzichè dividere, coloro che vi partecipano, che non sono indifferenti.
Signor Direttore,
Come già Luca Coscioni, a mio turno sono oggi oggetto di offese e insulti, di pensieri, parole, aggressioni alla mia identità ed alla mia immagine, quasi non bastassero quelle perpetrate al corpo che fu mio e che, invece, vorrei, per un attimo almeno, mi fosse reso come forma - qual è il corpo - necessaria del mio spirito, del mio pensiero, della mia vita, della mia morte; in una parola del mio "essere".
Sono accusato, insomma, di "strumentalizzare" io stesso, la mia condizione per muovere a compassione, per mendicare o estorcere in tal modo, slealmente, quel che proponiamo e perseguiamo con i miei compagni Radicali e della Associazione Luca Coscioni, che ha ragione ormai antica e sempre più antropologicamente, culturalmente, politicamente forte; "dal corpo del malato al cuore della politica". O, ancora, non sarei, come già Luca Coscioni, che io stesso strumentalizzato dai "miei", così infamandoci come meri oggetti o come soggetti plagiati. (O indemoniati, vero... Signori?). Strumenti? Sono, invece, limpidi obiettivi ideali, umani, civili, politici.
Dalla mia prigione infame, da questo corpo che - per etica, s'intende - mi sequestrano, mi tornano alla memoria le lettere inviate alla... "politica" da un suo illustre, altro, "prigioniero": Aldo Moro. Pagine nobili e tragiche contro gli uomini di un potere che aveva deciso di condannarlo (anche lui per etica, naturalmente) a morte certa, anche lui ad una forma di tortura di Stato, feroce ed ottusa. Quelle pagine non potrei farle mie. Anche perché furono perfette, e lo restano.
Un pensiero, ancora, un interrogativo, un dubbio: dove sono mai finiti per tanti "credenti" Corpo mistico e Comunione dei Santi?
Comunque Addio, Signori che fate della tortura infinita il mezzo, lo strumento obbligato di realizzazione o di difesa dei vostri valori! Chi siano (e in che modo) i morti o i vivi che rimarranno tali quando saremo tutti passati, non sappiamo, né noi né voi.
Io auguro a voi ogni bene. Spero davvero (ma temo fortemente che così non sia), spero davvero che questo augurio vi raggiunga, si realizzi, perché questo "voi" oggi manca anche a me, anche a noi altri.
Per finire, grazie Signor Direttore per la sua tollerante attenzione. A questo mio estremo, ultimo tentativo di trasmettere parola. Grazie sincero,
Suo
Piero Welby
In
Italia il trio Jazz dei The Necks è ancora poco conosciuto.
I dizionari e le enciclopedie Jazz a stampa non ne parlano e anche
sulla rivista Musica Jazz non ho trovato accenni: per fortuna la
rete internet è molto più ricca di fonti informative e poi sono
anche raggiungibili via E.Mail. Può sembrare strano: costoro creano
e suonano assieme dal 1989, fanno un jazz nuovissimo, esplorano
nuove frontiere come hanno fatto i loro predecessori, che cercavano
“la nota
impossibile, quella che non esiste, che non c’è sulla terra”
(Steve Lacy su Thelonius Monk).
Il loro ascolto lascia sempre il segno. Eppure non hanno
attraversato quella invisibile linea che passa fra il notturno
trascinare gli strumenti per il piccolo pubblico e la notorietà.
Ripeto: almeno in Italia.
Dipenderà anche dal fatto che abitano in una terra straordinaria,
ancestrale e moderna nello stesso tempo: l’Australia. Là devono
essere molto famosi, visto che continuano il loro progetto musicale
difficile e inusuale: in quasi vent’anni hanno realizzato solo 34
pezzi per un totale di 20 ore. Effettivamente la loro musica
assomiglia molto a quel paesaggio: sanno creare uno spazio psichico
e visivo che è bello e coinvolgente attraversare con la loro guida.
Sì, sanno costruire un percorso ipnotico. Come nel film
Picnic ad Hanging Rock ha fatto
Peter Weir (1975).
C'è una zona d’ombra su di loro e allora vorrei colmare la lacuna e
illuminare qua e là.
In “Aquatic” (1999) Chris Abrahams è al Piano e
all’organo Hammond, Lloyd Swanton al Contrabbasso acustico ed
elettrico, Tony Buck alla batteria e alle percussioni. Questa volta
c’è anche Stevie Wishart all’”Hurdy-Gurdy” (una specie di
violino elettrico che ha un suono simile alla cornamusa,
mi ha detto
Kosmogabri).
I pezzi sono due: uno di 27 minuti, e l’altro di 25. Una eccezione
rispetto al loro standard, che quello di un’unica scultura musicale
di circa un’ora.
L’ascolto lascia vigilmente intontiti per la bellezza del ritmo
(Tony Buck è un batterista eccezionale), per le armonie degli
accordi pianistici, per la ripetizione ipnotica, per tutte
le cose che accadono in quella che non è solo un’iterazione
minimalista.
Già il primo movimento è di grande soddisfazione per la mente
musicale. Suoni raffinati che alimentano l’immaginazione, rintocchi
pianistici di forte energia, un drumming-beat davvero unico, rumori
ambientali appena accennati e stimolatori di benessere psichico.
Come a dire: “sei in un altro spazio, ma qui si può
stare bene. E’ solo diverso”.
Ma il secondo movimento è incredibilmente bello (cercherò di
scegliere un assaggio che lo rappresenti). Uno “Swing” che
è indubbiamente jazzistico, ma che si avventura in un’Ambient Music
di gran cultura. Inizia subito a grande velocità, con il
contrabbasso violineggiante di Swanton, incalzato dal terribile Tony
Buck, un vero monello della batteria. Poi il piano di
Abrahams
comincia a spingere avanti. Sempre di più: trilli, battiti, con il
basso a contenere. Ecco di nuovo gli archi. Sempre più veloce,
impercettibilmente veloce. Viene voglia di chiudere gli occhi. Ecco:
nel nero si vede lo spazio che è attraversato dalle note del piano
sorrette da quel tappeto volante che è la batteria, baroccheggiata
dal contrabbasso. Ora il ritmo si fa un po’ meno frenetico. E
comincia il gioco fra di loro. Sì: l’interplay jazzistico
inventato dal trio di Bill Evans risorge, si
riattualizza in un’altra dimensione ! I tre improvvisano
dentro un sonno spaziale reso possibile dalla (leggera) elaborazione
elettronica dei suoni. La conclusione è di grande pace.
Sì è bello stare qui. E dove siamo ? Ma guarda un po’: ancora in
Drive By. La loro è un’architettura musicale: siamo
sempre a casa ! O meglio: si ritorna sempre a casa. Come insegna la
cadenza d’inganno.
Jazz … Ambient … Minimalismo … Elettronica. I The Necks sono
tutto questo ma vanno oltre questo. Per i The Necks il
termine “Post-Jazz” è limitativo. Sanno creare una situazione di
incanto nello spazio temporale di un’ora.
Di questo disco
AltriSuoni dice:
“È questo il primo affascinante picco espressivo dei Necks, un prodotto che potrebbe benissimo essere posto accanto ai capolavori quartomondisti di Jon Hassell e Brian Eno”
In queste mie parole non c'è un filtro critico, ma solo il piacere
dell’ascolto: sono filtrate dalla “Funzione Sentimento” piuttosto
che dalla “Funzione Pensiero”.
Dunque, caro lettore, scusa se ti sono
sembrato approssimativo. Ma volevo solo invitarti a conoscerli.
sabato, 18 novembre 2006
Eunice Waymon diventò Nina Simone, una maschera che sul filo degli anni eclisserà il suo nome di battesimo e con la quale entrerà nella storia. Nina per “niňa”, “la môme”, il soprannome che le aveva dato un fidanzato latino di cui non si sa niente. Simone per Signoret nel “Casco d’oro”, un film che la pianista aveva visto in un cinema di Filadelfia e che l’aveva impressionata (David Brun-Lambert, Nina Simone: un vie, Editions Flammarion, 2005, p. 53)
In un’efficace scansione biografica Kerry Acker (in Nina Simone,
Chelsea House Publisher, Philadelphia, 2004) distingue ed identifica
così i momenti della sua vita: il prodigio (1933-1944); la concertista
di piano (1944-1954); la “chanteuse” (1954-1959); la stella (1958-1962);
l’attivista (1963-1966); “The high Priestess of Soul”, che tradurrei
come la sublime sacerdotessa dell’Anima (1967-1968); l’espatriata
(1970-1978); la diva (1978-2003). Forse in quest’ultimo frammento del
ciclo di vita io individuerei anche quello della “decadenza della
vecchiaia”. Una brutta vecchiaia, davvero oltraggiosa per questa
meravigliosa creatura.
Quando nel 1957 esce il suo primo disco, Nina, durante le estati,
cantava e suonava già da 3 anni al Midtown Bar & Grill di Atlantic City.
La sua storia comincia lì. Aveva dunque 21 anni. Le voci corsero subito
per le strade (oggi girerebbero sui blog): “c’è una giovane musicista
nera in città e quello che canta è unico”.
21 anni, eppure il carattere temprato negli anni dell’infanzia e
dell’adolescenza era ormai pienamente definito, compiuto ed intero nella
gamma comportamentale che andava dalla spigolosità insopportabile alla
grazia eccelsa:
“quando arrivava
alla sedia del piano si faceva silenzio intorno. In un bar di seconda
zona, nel cuore di una città bruciata d’insonnia, lei riusciva a far
tacere fin dalla prima nota. Non si era mai visto qualcosa di simile
qui” (David Brun-Lambert, op.cit. , p. 52)
3 anni di tirocinio così, anche per imparare il rapporto con il
pubblico. Canzoni tirate sui tempi lunghi. Lei e il piano. Il piano e
lei. Lei con se stessa, lei con il popolo del suo regno.
Quando le si presenta l’occasione di fare il primo disco, nessuno
stupore che le bastino solo 24 ore per prepararlo e concluderlo.
1957: 14 tracce musicali tutte riuscite al primo colpo che la collocano
nella storia. Tutto il talento che mostrerà negli anni successivi è già
concentrato lì in quel disco. La sua unicità, la sua “individuazione” è
leggibile ieri e oggi in quelle 14 tracce perfette, durevoli, classiche.
Mi fermo qui. Caro lettore, avrai capito che Nina Simone è uno dei miei
tanti punti deboli. Con lei divento fragile ed esposto al sentimento. Mi
perdo e mi sento felicemente perso, per riprendermi e ricominciare.
Dell’intero disco parlerò un’altra volta.
Oggi volevo solo dire che lì si ascolta la ballata “Little Girl Blue” di
Richard Rodgers e Lorenz Hart.
Sit there
And count your fingers
What can you do
Old girl you're through
Sit there
Count your little fingers
Unhappy little girl blue
Sit there
Count the raindrops
Falling on you
It's time you knew
All you can ever count on
Are the raindrops
That fall on little girl blue
Won't you just sit there
Count the little raindrops
Falling on you
Cos it's time you knew
All you can ever count on
Are the raindrops
That fall on little girl blue
No use old girl
You might as well surrender
Cos your hopes
Are getting slender and slender
Why won't somebody send
A tender blue boy
To cheer up little girl blue
Nina nel 1957 la interpreta così:
Nina Simone, Little Girl Blue, 1957
Questo pezzo entrerà sempre nel suo repertorio per i
successivi 46 anni.
Ma fra tutte le esecuzioni, questa del
No: non ci sono né ci saranno altre o altri come lei.
venerdì, 29 settembre 2006
Lettera aperta al Presidente della
Repubblica Giorgio Napolitano
Da Piergiorgio Welby, Co-Presidente dell’Associazione
Coscioni
Caro Presidente,
scrivo a Lei, e attraverso Lei mi rivolgo anche a quei cittadini che
avranno la possibilità di ascoltare queste mie parole, questo mio grido,
che non è di disperazione, ma carico di speranza umana e civile per
questo nostro Paese.
Fino a due mesi e mezzo fa la mia vita era sì segnata da difficoltà non
indifferenti, ma almeno per qualche ora del giorno potevo, con l’ausilio
del mio computer, scrivere, leggere, fare delle ricerche, incontrare gli
amici su internet. Ora sono come sprofondato in un baratro da
dove non trovo uscita.
La giornata inizia con l’allarme del ventilatore polmonare mentre viene
cambiato il filtro umidificatore e il catheter mounth, trascorre con il
sottofondo della radio, tra frequenti aspirazioni delle secrezioni
tracheali, monitoraggio dei parametri ossimetrici, pulizie personali,
medicazioni, bevute di pulmocare. Una volta mi alzavo al più tardi alle
dieci e mi mettevo a scrivere sul pc. Ora la mia patologia, la
distrofia muscolare, si è talmente aggravata da non consentirmi di
compiere movimenti, il mio equilibrio fisico è diventato molto precario.
A mezzogiorno con l’aiuto di mia moglie e di un assistente mi alzo, ma
sempre più spesso riesco a malapena a star seduto senza
aprire il computer perchè sento una stanchezza mortale.
Mi costringo sulla sedia per assumere almeno per un’ora una posizione
differente di quella supina a letto. Tornato a letto, a volte, mi
assopisco, ma mi risveglio spaventato, sudato e più stanco di prima.
Allora faccio accendere la radio ma la ascolto distrattamente.
Non riesco a concentrarmi perché penso sempre a come mettere fine a
questa vita. Verso le sei faccio un altro sforzo a mettermi
seduto, con l’aiuto di mia moglie Mina e mio nipote Simone. Ogni giorno
vado peggio, sempre più debole e stanco. Dopo circa un’ora mi
accompagnano a letto. Guardo la tv, aspettando che arrivi l’ora della
compressa del Tavor per addormentarmi e non sentire più nulla e
nella speranza di non svegliarmi la mattina.
Io amo la vita, Presidente. Vita è la donna che
ti ama, il vento tra i capelli, il sole sul viso, la passeggiata
notturna con un amico. Vita è anche la donna che ti lascia, una giornata
di pioggia, l’amico che ti delude. Io non sono né un malinconico né un
maniaco depresso – morire mi fa orrore, purtroppo ciò che mi è rimasto
non è più vita – è solo un testardo e insensato accanimento nel
mantenere attive delle funzioni biologiche. Il mio corpo non è più mio
... è lì, squadernato davanti a medici, assistenti, parenti. Montanelli
mi capirebbe. Se fossi svizzero, belga o olandese potrei sottrarmi a
questo oltraggio estremo ma sono italiano e qui non c’è pietà.
Starà pensando, Presidente, che sto invocando per me una “morte
dignitosa”. No, non si tratta di questo. E non parlo solo della mia, di
morte.
La morte non può essere “dignitosa”; dignitosa, ovvero
decorosa, dovrebbe essere la vita, in special modo quando si va
affievolendo a causa della vecchiaia o delle malattie incurabili e
inguaribili. La morte è altro. Definire la morte per eutanasia
“dignitosa” è un modo di negare la tragicità del morire. È un
continuare a muoversi nel solco dell’occultamento o del travisamento
della morte che, scacciata dalle case, nascosta da un paravento negli
ospedali, negletta nella solitudine dei gerontocomi, appare essere ciò
che non è. Cos’è la morte? La morte è una condizione indispensabile per
la vita. Ha scritto Eschilo: “Ostico, lottare. Sfacelo m'assale, gonfia
fiumana. Oceano cieco, pozzo nero di pena m'accerchia senza spiragli.
Non esiste approdo”.
L’approdo esiste, ma l’eutanasia non è “morte dignitosa”, ma
morte opportuna, nelle parole dell’uomo di fede Jacques Pohier.
Opportuno è ciò che “spinge verso il porto”; per Plutarco, la
morte dei giovani è un naufragio, quella dei vecchi un approdare al
porto e Leopardi la definisce il solo “luogo” dove è possibile un
riposo, non lieto, ma sicuro.
In Italia, l’eutanasia è reato, ma ciò non vuol dire
che non “esista”: vi sono richieste di eutanasia che non vengono accolte
per il timore dei medici di essere sottoposti a giudizio penale e
viceversa, possono venir praticati atti eutanasici senza il consenso
informato di pazienti coscienti. Per esaudire la richiesta di
eutanasia, alcuni paesi europei, Olanda, Belgio, hanno introdotto delle
procedure che consentono al paziente “terminale” che ne faccia richiesta
di programmare con il medico il percorso di “approdo” alla morte
opportuna.
Una legge sull’eutanasia non è più la richiesta incomprensibile di pochi
eccentrici. Anche in Italia, i disegni di legge depositati nella scorsa
legislatura erano già quattro o cinque. L’associazione degli
anestesisti, pur con molta cautela, ha chiesto una legge più chiara;
il recente pronunciamento dello scaduto (e non ancora rinnovato)
Comitato Nazionale per la bioetica sulle Direttive Anticipate di
Trattamento ha messo in luce l’impossibilità di escludere ogni
eventualità eutanasica nel caso in cui il medico si attenga alle
disposizioni anticipate redatte dai pazienti. Anche nella diga
opposta dalla Chiesa si stanno aprendo alcune falle che, pur restando
nell’alveo della tradizione, permettono di intervenire pesantemente con
le cure palliative e di non intervenire con terapie sproporzionate
che non portino benefici concreti al paziente. L’opinione pubblica è
sempre più cosciente dei rischi insiti nel lasciare al medico ogni
decisione sulle terapie da praticare. Molti hanno assistito un
famigliare, un amico o un congiunto durante una malattia incurabile e
altamente invalidante ed hanno maturato la decisione di, se fosse
capitato a loro, non percorrere fino in fondo la stessa strada. Altri
hanno assistito alla tragedia di una persona in stato vegetativo
persistente.
Quando affrontiamo le tematiche legate al termine della vita,
non ci si trova in presenza di uno scontro tra chi è a favore della vita
e chi è a favore della morte: tutti i malati vogliono guarire, non
morire. Chi condivide, con amore, il percorso obbligato che la
malattia impone alla persona amata, desidera la sua guarigione. I
medici, resi impotenti da patologie finora inguaribili, sperano nel
miracolo laico della ricerca scientifica. Tra desideri e
speranze, il tempo scorre inesorabile e, con il passare del tempo, le
speranze si affievoliscono e il desiderio di guarigione diventa
desiderio di abbreviare un percorso di disperazione, prima che
arrivi a quel termine naturale che le tecniche di rianimazione e i
macchinari che supportano o simulano le funzioni vitali riescono a
spostare sempre più in avanti nel tempo. Per il modo in cui le nostre
possibilità tecniche ci mantengono in vita, verrà un giorno che dai
centri di rianimazione usciranno schiere di morti-viventi che finiranno
a vegetare per anni. Noi tutti probabilmente dobbiamo
continuamente imparare che morire è anche un processo di apprendimento,
e non è solo il cadere in uno stato di incoscienza.
Sua Santità, Benedetto XVI, ha detto che “di fronte alla pretesa, che
spesso affiora, di eliminare la sofferenza, ricorrendo perfino
all'eutanasia, occorre ribadire la dignità inviolabile della vita umana,
dal concepimento al suo termine naturale”. Ma che cosa c’è di
“naturale” in una sala di rianimazione? Che cosa c’è di naturale in un
buco nella pancia e in una pompa che la riempie di grassi e proteine?
Che cosa c’è di naturale in uno squarcio nella trachea e in una pompa
che soffia l’aria nei polmoni? Che cosa c’è di naturale in un corpo
tenuto biologicamente in funzione con l’ausilio di respiratori
artificiali, alimentazione artificiale, idratazione artificiale,
svuotamento intestinale artificiale, morte-artificialmente-rimandata?
Io credo che si possa, per ragioni di fede o di potere, giocare
con le parole, ma non credo che per le stesse ragioni si possa
“giocare” con la vita e il dolore altrui.
Quando un malato terminale decide di rinunciare agli affetti, ai
ricordi, alle amicizie, alla vita e chiede di mettere fine ad una
sopravvivenza crudelmente ‘biologica’ – io credo che questa sua volontà
debba essere rispettata ed accolta con quella pietas che rappresenta la
forza e la coerenza del pensiero laico.
Sono consapevole, Signor Presidente, di averle parlato anche, attraverso
il mio corpo malato, di politica, e di obiettivi necessariamente
affidati al libero dibattito parlamentare e non certo a un Suo
intervento o pronunciamento nel merito. Quello che però mi permetto di
raccomandarle è la difesa del diritto di ciascuno e di tutti i cittadini
di conoscere le proposte, le ragioni, le storie, le volontà e le vite
che, come la mia, sono investite da questo confronto.
Il sogno di Luca Coscioni era quello di liberare la ricerca e dar voce,
in tutti i sensi, ai malati. Il suo sogno è stato interrotto e solo dopo
che è stato interrotto è stato conosciuto. Ora siamo noi a dover sognare
anche per lui.
Il mio sogno, anche come co-Presidente dell’Associazione che porta il
nome di Luca, la mia volontà, la mia richiesta, che voglio porre in ogni
sede, a partire da quelle politiche e giudiziarie è oggi nella mia mente
più chiaro e preciso che mai: poter ottenere l’eutanasia. Vorrei che
anche ai cittadini italiani sia data la stessa opportunità che è
concessa ai cittadini svizzeri, belgi, olandesi.
Piergiorgio Welby
La risposta del Presidente
Napolitano
Caro Welby,
ho ascoltato e letto con profonda partecipazione emotiva l’appello che
lei ha voluto pubblicamente rivolgermi. Ne sono stato toccato e
colpito come persona e come Presidente.
Lei ha mostrato piena comprensione della natura e dei limiti del ruolo
che il Parlamento mi ha chiamato ad assolvere, secondo il dettato e lo
spirito della nostra Costituzione.
Penso che tra le mie responsabilità vi sia quella di ascoltare con la
più grande attenzione quanti esprimano sentimenti e pongano problemi che
non trovano risposta in decisioni del governo, del Parlamento, delle
altre autorità cui esse competono. E quindi raccolgo il suo
messaggio di tragica sofferenza con sincera comprensione e solidarietà.
Esso può rappresentare un’occasione di non frettolosa riflessione su
situazioni e temi, di particolare complessità sul piano etico, che
richiedono un confronto sensibile e approfondito, qualunque possa essere
in definitiva la conclusione approvata dai più.
Mi auguro che un tale confronto ci sia, nelle sedi più idonee,
perché il solo atteggiamento ingiustificabile sarebbe il
silenzio, la sospensione o l’elusione di ogni responsabile chiarimento.
Con sentimenti di rinnovata partecipazione,
Giorgio Napolitano
C’è un
filone nel cinema di cultura francese il cui tono emotivo mi sembra
definibile come “oggettivo ed empatico”: attributi che mi arrivano
contemporaneamente,. Sono registi, autori, interpreti che sanno
raccontare storie di normale vita quotidiana con oggettività, sguardo
attento e partecipazione emotiva. E’ uno stile riconoscibile in un
attimo, attraverso una inquadratura o i volti di certi attori. Penso ai
giovani sulla soglia della vita adulta dei film di Rohmer, alla
Marsiglia popolare di Guèdiguian, agli slanci vitali delle ragazze di
“La vita sognata degli angeli” di Zonca …
Ma con i film dei belgi Jeanne-Pierre e Luc Dardenne
l’effetto è sempre quello molto coinvolgente di una presa di coscienza
in situazioni estreme. In “Il figlio (2002)
al falegname Olivier, che insegna questo mestiere in una scuola
professionale per adolescenti usciti dal riformatorio, capita di
incrociare il sedicenne che cinque anni prima ha strangolato, durante un
furto, il suo figlio. Gli capita questo nello stesso giorno in cui la
sua ex-moglie gli comunica che si risposerà e che è incinta. E gli
capita di voler far posto nella sua vita a questo ragazzo.
La macchina da presa sta addosso ad Olivier, indugia sui suoi gesti di
lavoro, registra le sue attenzioni educative, mostra la sua solitudine,
insiste sul suo mal di schiena, che cura con una specie di cilicio e
esercizi di ginnastica effettuati in una fredda e scarna cucina. Ma,
soprattutto, la cinepresa ci fa partecipare al costruirsi di questa
relazione che nasce da un dolore non rimarginato. Olivier guarda,
scruta, spia, interroga il ragazzo. Gli insegna a riconoscere le qualità
del legno, ad usare gli attrezzi, ad imparare un lavoro che potrebbe
dargli un’altra chance di vita. E solo alla fine gli rivela di essere il
padre della sua vittima.
Alla ex-moglie che gli dice “Nessuno lo farebbe. Perché lo fai?”,
Olivier risponde “Non lo so”. E’ lo spettatore che deve provare a
rispondere. L’immedesimazione con Olivier è intensa e passa attraverso
lo sguardo, le incertezze e la sua evidente
sofferenza. Si partecipa al dramma interiore, ai dilemmi, alle domande
che lo attraversano come lance. Olivier, durante tutto il racconto, non
chiama mai per nome il ragazzo. Nominare, dare il nome a questo “figlio”
che ha ucciso l’altro e che ne ha preso il posto è la cosa impossibile.
Per tutto il film Olivier corre, corre avanti e indietro,
come per cercare la strada giusta per riprendere a vivere.
E’ una storia di dolore per un figlio perso e di un padre che lo
ridiventa per caso, per desiderio,. per necessità.
in La rabbia e l'orgoglio, Rizzoli, 2001, p. 72-77
Perché è una data seminale. Un
momento sintetico che aiuta a fare ordine. A capire le forze in campo. A
rileggere il passato. A proiettarsi sul futuro. A stabilire quel nesso,
quella connessione fra “individuo” e “società” che dovrebbe sempre
essere al centro di chi vuole dare senso al suo trascorrere del tempo
vitale. Il breve ciclo biologico dentro il flusso del tempo storico.
Una parte della cultura islamica ha dichiarato guerra al mondo
occidentale. Un “partito” di ricchi petrolieri (al quaeda allora, e oggi
quel che ne resta e le sue filiazioni), in perfetto stile leniniano,
assolda ed arma gruppetti di militanti che distruggono a New York due
simboli architettonici e visivi degli Stati Uniti. L’evento in sé si
riassume in 2748 morti, di cui 412 soccorritori e 12 suicidi (quelle
persone che abbiamo visto volare giù dai grattacieli per non bruciare da
vivi). Infinitamente più ampio è il riverbero storico-sociale. Come
quando in un quadro si riesce ad assegnare significati ai colori, alle
luci ed alle ombre, ai primi piani ed allo sfondo …
Io ora il quadro lo vedo così.
Vedo un nemico che odia il mio e nostro stile di vita. La mia e nostra
libertà di puntare o no sui valori della famiglia. Di decidere come
provare soddisfazione nella vita sessuale, qualunque essa sia: etero,
omo, bi, trans eccetera. Già: eccetera ... Un nemico che mira ad
annullare i fondamenti delle democrazie occidentali, forgiate
innanzitutto con l’illuminismo francese. La secolarizzazione, la
distinzione fra religione (come fatto individuale) e logiche pubbliche
dello stato, la democrazia rappresentativa dei parlamenti e dei governi.
Un nemico che utilizza a proprio favore la varietà delle opinioni che
può esprimersi nella nostra civiltà (sì civiltà: intesa come processo di
civilizzazione che ottiene come massimo risultato l’espansione della
soggettività) per insediare cellule di partito che si organizzano
militarmente con gli attentati alle stazioni ferroviarie e
metropolitane. Un nemico stratificato in “dirigenti”, “simpatizzanti”
interni (nei loro paesi e terre) ed esterni (i nostri estremisti di
sinistra, alla continua ricerca dell’ottocentesco “proletariato” che dia
la spallata “rivoluzionaria”, e di destra, affascinati dalla cultura
comunitaria espressa dalle masse musulmane) e “militanti-attivisti”
addestrati anche al suicidio. A proposito, la nostra psicologia ci
insegna che la socializzazione comincia dall’infanzia.. Chissà se nel
quadro che io vedo anche i simpatizzanti nostrani
riescono a vedere il barbaro processo di costruzione del piccolo
kamikaze. A proposito di “cultura dell’infanzia” … Sono poche le parole
che leggo su questo tema.
Sul piano culturale vedo, ovviamente molto in positivo, l’estrema
soggettivazione della mia civiltà (in cui metto anche le politiche di
welfare, le cure per minori, handicappati, anziani) e dall’altra parte
l’estrema collettivizzazione dell’islamismo religioso. Ovviamente molto
in negativo. Per valutare occorre sempre una gerarchia di valori. Io dò
valore al soggetto ed è per questo che preferisco infinitamente modelli
socio-culturali che danno valore all’individuo. Loro, invece, danno
valore all’annullamento in un indistinto collettivo e questo porta la
nostra storia indietro di secoli. No, grazie.
Sul piano politico i giudizi ed i comportamenti che l’11 settembre ha
prodotto nei mesi ed anni successivi diventano dei grandi indicatori di
tipo storico. “Siamo tutti americani” è stato lo slogan di una sola
giornata. Giusto un riflesso della italianissima religione cattolica per
il culto dei morti, ma al di sotto delle parole l’antiamericanismo è
annidato in profondità nella cultura sia di destra (che odia gli Stati
Uniti perché hanno attivamente agito per la caduta dei fascismi e del
nazismo) che di sinistra (che odia gli Stati Uniti perché hanno vinto la
sfida con il comunismo storico delle russie). Ed è riaffiorato alla
grande in modo ancora più virulento che nel passato.
Non sono un cultore dei percorsi delle destre. Per la mia biografia sono
invece molto interessato ai percorsi delle sinistre. E’ qui che, per me,
l’11 settembre diventa un punto di svolta, una di quelle congiunture in
cui diventa possibile e necessario to cross the line,
varcare la linea. Vedo la totale incapacità della politica di sinistra
(meglio della politica di cattosinistra) ad agire per la sicurezza dei
prossimi decenni (a me, data la mia età, basterebbero dai 20 ai 30
anni). Questa cultura ritiene che gli Stati Uniti sono stati “puniti” da
quel partito di ricchi arabi seduti sul loro petrolio a causa
dell’imperialismo (dimenticando che i repubblicani di Bush hanno vinto
le prime elezioni del 2000 su un programma isolazionista). Così questa
cultura non è attrezzata a comprendere che la guerra dichiarata da
quella parte dell’islam non è rivolta solo agli Stati Uniti (che “se la
sono meritata”) ma a tutta la civiltà occidentale. Conseguentemente non
riesce a comprendere che abbiamo a che fare con nemici che si articolano
attraverso organizzazioni molto potenti e molto efficaci (basta pensare
a come utilizzano internet e le televisioni). Con nemici esterni (gli
stati canaglia: Iraq, Iran, Siria …) e con nemici interni (gli
adolescenti di seconda e terza generazione e naturalmente le loro
famigliole che mettono assieme il ribellismo dell’adolescenza con i
soldi e le armi che gli forniscono le cellule locali dell’islamismo
fondamentalista).
Ma su tutto questo scenario complesso ed articolato, infinitamente fitto
di sfumature da seguire con attenzione, una cosa mi appare con chiarezza
lancinante. Appunto come quando in un quadro appare finalmente il
significato ed allora si presentifica l’emozione di pensare.
Per tutto un ciclo di vita ho pensato che la divisione fosse fra
capitalimo e comunismo, fra destra e sinistra, fra Dc e Pci. E vista la
deriva etica del berlusconismo (avvocati nel processo il lunedì e
martedì in commissione perlamentare a cambiare le leggi a favore del
loro datore di lavoro) anche fra polo e ulivo. In quell’arco storico
così appariva ed anche così era l' alternativa.
Oggi vedo che la faglia divisoria fondamentale, quella che un tempo
avrei chiamato “strutturale”, è fra i paesi che nel secolo breve non
hanno conosciuto e praticato i comunismi, i fascismi, il nazismo (e sono
l’Inghilterra e gli Stati Uniti) e paesi che invece quelle scelte hanno
storicamente effettuato (l’Europa fino ai suoi confini russi, l’Italia,
la Spagna, in parte la Francia).
La linea di divisione è fra sistemi socio-politici impiantati
sullo sviluppo della democrazia liberale e sistemi totalitari.
L’11 settembre rivela che Stati Uniti ed Inghilterra continuano la loro
politica contro il totalitarismo nazifascista (negli anni 1921-1945) e
islamofascista oggi. Una assoluta continuità che appare sui tempi
lunghi. La Francia, l'Italia, la Germania, la Spagna, invece,
contrattano poche migliaia di soldati per "portare la pace", rendendo
difficile ad Israele perfino di garantirsi la sopravvivenza. Gli stessi
paesi che hanno reso possibile la Shoah fanno da ostacolo all'unico
scudo difensivo su Israele, cioè gli Stati Uniti. Dov'è la destra, dov'è
la sinistra?
Più che mai oggi appaiono categorie politiche incapaci di rappresentare
questi tempi storici.
Questo mi ha insegnato l’11 settembre e così oggi lo ricordo.
Post Scriptum Solo ieri (21
settembre) sono di nuovo tecnologicamente attrezzato. La cosa più impegnativa è
stata transitare dal vecchio Pc al nuovo. Per i files non c'è problema. Ma per
la posta è quasi impossibile.
Apprendimento: tenere sempre su carta le cose importanti.
Il microprocessore o CPU è l'unità che elabora i dati, il "cervello" del
computer. La sua funzione è quella di eseguire calcoli a grande velocità. Sa
fare 500 milioni di operazioni elementari al secondo e ci fa anche stare in rete
...
La rete è una grande memoria, eppure può perderla con un battere di
corrente elettrica o scontro su hardware.
Contraddizioni della tecnica!
18 giugno 2006. La poesia aiuta
Quello che posso fare - lo farò-
anche se sarà poco - un piccolo narciso -
quello che non posso fare, deve rimanere
ignoto alla possibilità.
Emily Dickinson
P. ha mandato questa poesia a Luciana, nell'occasione delle indagini diagnostiche di questa fine primavera, accompagnandola con queste parole:
Carissima Luciana,
non sai che gioia nel leggere la tua lettera, e poi quelle di Paolo, con le buone notizie sulla tua salute!
So per diretta esperienza quanto sia “nero e fisso” il pensiero di una possibile grave malattia, e come quel pensiero possa venire e mettere radici nell’anima, fatto di paure antiche, ma anche portato dalle mille notizie che tutti i giorni arrivano: un amico, un parente, un collega... E’ pur vero che il cancro si cura e si guarisce, ma é altrettanto vero che stravolge e travolge la vita intera, non solo la propria ma anche quella delle persone care.
...
Ripenso alla bella giornata che tu e Paolo mi avete dedicato a Nesso, e alla fatica che avrete anche fatto a stare ad ascoltare le varie vicende un po’ pesanti che vi ho portato, essendo tu in attesa di affrontare gli esami e gli esiti. Siete dei veri, e grandi, e carissimi amici.
Ti mando dei versi che mi hanno colpito e intenerito: sono di Emily Dickinson e sono da leggere ogni tanto, per gustare ancora di più le lunghe serate di Nesso, i crepuscoli che almeno per qualche settimana ancora (anche se si accorciano , lo so!) hanno la bellezza della piena estate. E poi li potrai leggere in autunno, davanti al camino. Insomma sono per i momenti di sosta, oppure per cercarli e trovarli, questi benedetti momenti. A me questi versi dicono tantissimo, mi sono di aiuto quando sono presa dalla frenesia del fare, o dall’ansia di non avere fatto, li sento di una saggezza estrema, unita allo loro liricità.
Nesso, 28 maggio 2006
Là in fondo, sotto il ciliegio, si sta come in un cerchio ermetico.
Il sole filtra tra i rami e cadrà dietro alla montagna all 19 e 15 ora legale (8 e 15 ora solare).
Luciana è poco più in là a coglere i raggi della sera.
E' stata un'ora perfetta.
Il senso di me pieno, la certezza che in nessun altro luogo e momento avrei potuto stare meglio.
Ancora conversazione sul jazz, metà mese di maggio
Caro Sioux, sono qui a completare il mio contributo alla discografia Jazz che hai provocato con la tua richiesta a Ruckert.
Mi accorgo che se devo andare alle origini del jazz moderno sono gli anni ’50 a venirmi incontro. In quel decennio c’è la rielaborazione di una musica che ormai ha circa mezzo secolo e che si avvia alla sua seconda fase storica. Gli album di valore sono davvero tanti. Ma ci sono alcuni che ascolto sempre volentieri, sapendo che ogni volta hanno da comunicarmi ancora qualcosa di più.
Da dove viene fuori tanta creatività? Credo da tre fattori. In primo luogo è il decennio successivo a quello della seconda guerra mondiale: tutti i paesi stanno ricostruendosi. In secondo luogo stanno nascendo nuovi generi: il Rock, il Soul, il Rhythm and Blues. In terzo luogo il jazz è attraversato da una tensione fra due poli: una “classicista”, alla ricerca delle radici e rappresentata dal Cool Jazz, e una “modernista”, alla ricerca di ancora nuovi modi di suonare, dopo il nervosismo e la velocità del Bebop (l’Hard Bop). Queste due correnti creavano un attrito portatore di continue innovazioni: il Cool Jazz compensava l’iperattivismo del Bebop e l’Hard bop diventava la risposta alla presunta fragilità e leggerezza del Cool. E, come spesso succede, in mezzo a questi due fiumi dalle sorgenti divise, nascevano spiriti musicali originali e non riconducibili rigidamente all’uno o all’altro.
Il Cool Jazz, già anticipato dal veggente Miles Davis, è jazz “fresco”, non “freddo” come i denigratori etichettarono subito. Un disco espressivo di questa corrente è Gerry Mulligan Quartet with Chet Baker (1953). L’originalità e l’invenzione è un gruppo senza pianoforte: tromba, sax baritono, basso e batteria elaborano un suono morbido che lascia lo spazio per conversazioni sottovoce. Chet Baker è il trombettista maledetto dalla vita e mitizzato nel film di Bruce Weber Let’s Get Lost (“perdiamoci …”). La sua versione di My Funny Valentine è mitica e diventerà il suo segno distintivo. Basta ascoltare quei tre minuti per non dimenticarlo mai più. Ma il disco è, pieno di altre gemme: Moonlight in Vermont, Bernie’s Tune, Jeru … Pezzi lenti ed altri più veloci. Degli stessi anni è Chet Baker Sings (1954), dove è la voce a fare da protagonista. Si ascolta un jazz elegante e minimale in cui l’alternanza tromba e canto diventa l’espressione perfetta del Cool Jazz: toni sussurrati, canzoni di intensa potenza emotiva, non esagerata malinconia, ballad lentissime.
Un disco veramente fantastico di questo periodo è Erroll Garner, Concert by the Sea (1955). Un live suonato in una serata unica ed irripetibile a Carmel, sulla costa della California. Solo l’improvvisazione ha reso possibile questo concerto straordinario, con un prodigioso pianista “orchestrale” che rende spumeggiante il suono dello strumento. Errol Garner aveva un immenso talento, tanto da non poterlo ricondurre a generi o a mode, e uno straordinario intuito musicale che gli consentiva di passare, sfumando la fine dei pezzi, da vecchi brani dixieland, alle canzoni popolari, agli standard jazz fino a sue originali composizioni come Misty. Michel Petrucciani, nelle sue esecuzioni al piano solo, adotterà personalizzandolo questo stile. Mentre scrivo sto ascoltando I'll Remember April, in ritmo swing pieno di idee e di variazioni, Where or When, che smonta e ricompone a velocità siderale le linee armoniche originali, Mambo Carmel, in cui sembra di vedere le mani che sul piano suonano due canzoni indipendenti l’una dall’altra, April in Paris, dove la lunga introduzione tiene nascosto fino all’ultimo il tema, per poi procedere in modo irresistibile. Applauso !!!
Altro live meraviglioso è Ahmad Jamal, But Not For Me - At The Pershing (1955). Ahmad Jamal è un pianista e leader di trio jazz difficilmente inquadrabile in un genere fisso. E infatti le storie del jazz sono piuttosto avare di sue notizie. Si potrebbe dire che è un personaggio interstiziale di questo mondo musicale che però (e questo è un forte indizio di bravura) è stato molto amato da Miles Davis. Il suo è un suono originalissimo, ricco di coloriture e sfumature. E’ sapientissimo nell’usare lo spazio del pezzo per caratterizzarlo con la sua personale esecuzione, come in Poinciana, che dipana otto minuti di emozionante delizia. In una delle sue rare interviste, Keith Jarrett ricorda che ascoltando Portfolio of Ahmad Jamal (1958), altro live rivelatore di immenso talento, ha capito che il suo destino era anche fare musica jazz. Ed infatti è solo la sua interpretazione di Poinciana all’Umbria Jazz del 2000 che regge l’emozione di quella originale. Due album capolavoro, perfetti per ogni discoteca.
Alla fine del decennio il jazz, che è una musica nomade, cerca altri confini ed altri luoghi geografici e simbolici in cui esprimersi. Ed è ancora il trentatreenne Miles Davis ad aprire la strada con Kind of Blue (1959), la sua seconda rivoluzione (e ce ne saranno altre!). Con questo disco siamo definitivamente fuori dal Bebop degli anni quaranta e dal Cool dei cinquanta: c’è il recupero stilizzato del passato (un profumo) e la prefigurazione del futuro. L’album ha quasi cinquant’anni ma il suono è modernissimo, come appunto solo i classici sanno fare, anche se questo è un super-classico. Nel gruppo c’è anche il pianista Bill Evans: un bianco accanto a un perfino superbo nero, perché nel jazz non ci sono confini, ma solo la ricerca del suono fino a quel momento non ancora creato.
Altro autore, direi proprio fondamentale, che contribuisce a consolidare lo stile e la qualità jazz è Charles Mingus. Tre sono gli album più rappresentativi (o meglio: che più mi ispirano): Mingus At The Bohemia (1955), Ah Um (1960) e la suite The Black Saint and the Sinner Lady (1963). Mingus è un eccezionale contrabbassista, ma soprattutto uno dei grandi compositori afroamericani del Novecento. L’unico che è accostabile alla grandezza quasi irrangiungibile di Duke Ellington. Le sue composizioni sono attraversate da memorie blues e gospel, da uno swing di grande energia sonora ed arrivano ad un caos organizzato che anticipa il dimenticabile Free Jazz dei successivi anni sessanta. Sorsate di puro jazz: o piace o non piace, non ci sono vie di mezzo. In queste composizioni si possono cogliere e percepire le strutture portanti del jazz: lo smontaggio delle armonie, il feeling fra gli esecutori, l’umorismo, la forza del leader e la cooperazione di gruppo …
I primi anni sessanta chiudono un ciclo storico e aprono quello che arriva più vicino a noi contemporanei. Un disco-simbolo di questa curvatura musicale è Bill Evans, Waltz for Debby (1962), registrato da una serata live al Village Vanguard di New York. Questo è l’album che cambia la storia del trio pianoforte/contrabbasso/batteria. Il piacere che qui si prova è quello di ascoltare e sentire gli strumenti che colloquiano fra loro: la parola “interplay”, ossia quel particolare gusto telepatico nell’interagire di gruppo e nel passarsi i pezzi da fare in a solo, la si comprende qui. Influenzato dalla musica classica (Chopin, Debussy, Ravel) Bill Evans anticipa e pone i fondamenti di altre meraviglie che Keith Jarrett saprà esprimere negli anni successivi. Bellissima è la ballad My Foolish Heart che si dipana in modo magico: parte con la melodia del piano di Evans e del contrabbasso di LaFaro per essere raggiunta poi dal batterista Motian che gli dà sempre più spazio creando con le spazzole il tappeto su cui crescono ancora i primi due.
L’altro disco-simbolo dell’apertura alla nuova fase è Olè Coltrane (1961). Il capolavoro è Olè, dove si percepisce che il nuovo confine ricercato da John Coltrane è l’Est. Il jazz viene portato a guardare verso oriente, passando per la Spagna. Il pezzo si avvia con un tappeto ritmico su cui si appoggia un assolo di sax discreto e delicato, poi è seguito da un duetto di basso al gusto del flamenco e infine si sviluppa in una lunga improvvisazione di tono, per l’appunto, spagnoleggiante, con continue e ricorrenti ripetizioni del tema. Sono 18 minuti di musica magmatica, molto in sintonia con alcune preferenze di oggi, anche se è stata creata 45 anni fa, e che alla fine lascia estenuati e storditi, ma anche consapevoli di avere sfiorato una vetta.
Finisce qui il mio personalissimo contributo a questa discografia jazz. Dicevo incidentalmente che il Free Jazz degli anni sessanta è, per il mio soggettivo senso dell’ascolto e funzione che assegno alla musica nella vita, del tutto dimenticabile. Ma poi avviene un fatto rilevante, acutamente osservato da Joachim Ernst Berendt nel suo importante libro “Il nuovo libro del jazz” (1981):
“Finora abbiamo potuto contrassegnare ogni decennio con uno stile ben definito …Con l’inizio degli anni Settanta questo principio viene a cadere. Perché gli anni Settanta sono caratterizzati da almeno cinque tendenze: Fusion o jazz-rock … estetizzazione del jazz … la corrente principale del jazz continua a fluire … nuova generazione del free jazz … graduale formazione di un nuovo musicista che trascende e integra il jazz, il rock e le varie culture musicali”
Insomma oggi i generi tendono a mescolarsi sempre di più. La globalizzazione e la connessa interdipendenza attraversa anche la musica e i generi si contaminano, talvolta in modo eccellente.
I gusti si moltiplicano e l’estrema soggettività delle persone che ascoltano si fanno molto interessanti. Diventa possibile ed interessante scoprire cosa, come e perché le persone ascoltano e provano piacere nell’ascolto e pronunciare il fatidico aggettivo: “bello”.
E’ anche per questo che sono curiosissimo per le proposte di Ruckert ed amici e naturalmente per i tuoi giudizi, caro Sioux, che hai aperto questa ricerca.
Conversazione sul Jazz, primi giorni del maggio 2006
Un certo Sioux, sul blog di Ruckert chiede consigli per ascoltare musica jazz. Una pacchia per gli amanti !
Caro Sioux, vedrai che sarai travolto da tantissimi titoli. Hai
anche creato l’occasione per comporre una interattiva rassegna della musica
jazz. Da un piccolo desiderio può nascere una cosa molto interessante.
Il mio personale contributo alla tua ricerca sarà di tipo storico.
Ti propongo alcune tracce che mi sembrano “segnare” i passaggi di questa musica.
O meglio che hanno segnato alcuni tratti della parte musicale della mia vita.
Metto assieme questo essenziale elenco immaginando un viaggio durante il quale
ho un piccolo zaino dove posso portarmi dietro solo poche cose. Ma fondamentali.
E scegliendo Cd recuperabili immediatamente attraverso la rete web.
Si comincia con Louis Armstrong. Il suo suono della tromba in “West and Blues “
del 1929 rappresenta la nascita del jazz moderno. E’ come se in quell’istante
avesse indicato la strada su cui tutti, dopo, hanno camminato. Lo trovi (assieme
ad altri altri pezzi miliari) nel Cd “Louis Armstrong - Ken Burn Jazz”
Contemporaneo, ma su un filone parallelo c’è Duke Ellington. Innanzitutto il
direttore di orchestra, l’infaticabile organizzatore di gruppi, ma anche il
finissimo pianista. Dalla immensa discografia tirerei fuori “Sophisticated Lady”
, “Take the “A” Train”, “Caravan” (uno standard seminale rielaborato centinaia
di volte, fino all’altro ieri), “Mood Indigo”, “In a Sentimental Mood”. Li trovi
nel Cd “Duke Ellington – Ken Burn Jazz”. Non potrebbe mancare nel mio corredo di
viaggio l’omaggio di Nina Simone: “Nina Sings Duke Ellington” del 1963.
Poi occorrerebbe passare al Bebop (fine anni ’40). I due ideatori ed interpreti
sono: Charlie Parker e Dizzy Gillespie. Non ti suggerisco titoli perché non mi è
mai piaciuto il Bebop. Qualche lettore storcerà il capo e io proverò a sentire
quello che lui propone.
Invece, proprio di quegli anni, non ti dovrebbe sfuggire Miles Davis “Birth of
the Cool” (1949). E’ la prima rivoluzione di Davis. Sempre ai confini, sempre
con lo sguardo in avanti. Un musicista fieramente nero fa incontrare i suoni
della musica nera americana con quelli della musica bianca di tradizione
europea. La fusione crea un genere nuovissimo pieno di energia e raffinatissimo.
Imperdibile.
Ancora su questo percorso della contaminazione “America ed Europa” e anche
“classica e jazz” è fondamentale il quartetto del Modern Jazz Quartet, per
quarant’anni amorevolmente tenuti assieme dall’amatissimo
John Lewis.
Uno dei miei musicisti del cuore. I denigratori lo etichettarono “jazz da
camera”. In realtà è blues e swing concentrati anche in una sola nota. In questo
momento sto sentendo il “Piazza Navona”. Una delizia che arriva dal passato
(1955). Gli eventi successivi hanno dato ragione a John Lewis. I denigratori
erano dimenticabili e infatti sono stati dimenticati. Invece loro rimangono
nella storia come dei classici. Per non perdere niente dei loro gioielli ti
suggerisco: “The Modern Jazz Quartet, MJQ 40 Years”. E’ un tesoro in cofanetto
composto da 4 cd che sulla rete si può ottenere anche a soli 9 euro!
Mi fermo qui. Per ora. Ma ritornerò con ancora (pochi) titoli. Forse in giornata
Ciao a Sioux e a tutti gli amici della rete
Ritorno fra me e me.
Trovo conferma che la rivoluzione comunicativa dei Blog stimolano non solo le relazioni associative fra le persone, ma danno anche l'occasione per tirare fuori i ricordi.
Riprendo in mano un libro di mio padre. Uno di quei libri che lui mi proibiva perfino di guardare e che io ho potuto leggere solo dopo il 1989, anno della sua morte. Padre assenti che si presentificano solo dopo la loro vita. Non molto strano.
E' del 1955. Ed è composto seguendo in dettaglio tutte le tracce (allora su dischi a 78 giri, pesanti e oggi si direbbe ingombranti) del jazz fino a quel momento suonato .
Didascalico, preciso, filologico. Mi posso immaginare Livio Cerri, chino su una macchina da scrivere (altro che la tastiera dl pc che ho davanti e con la quale posso continuamente correggermi e comunicare immediatamente a chiunque mi trova e fosse interessato della mia storia biografica !).
Ecco cosa dice del West end blues (che è del 1928 e non del 1929) di Louis Armstrong:
uno dei migliori pezzi di jazz mai incisi. Esso è costituito da una introduzione per tromba che è ormai classica e da cinque ritornelli sul tema di blues preso a tempo lento.
Nel primo di essi la tromba espone con maestosità la melodia, mentre gli altri melodici sostengono in armonia. Il secondo è un semplice e malinconico assolo di trombone, mentre nel successivo si hanno delle domande e risposte fra il clarinetto nel registro grave e lo « scat » di A. : le parole non possono esprimere la suggestività di questo duetto dove la voce di A. è dolce, vellutata e dotata di commovente dizione. Segue un ritornello di piano del migliore Hines ed il rientro della tromba di A., il quale tiene una nota acuta per quattro misure per poi continuare con delle frasi a sedicesimi che ci portano alla breve coda del disco.
pg. 64-65
Ancora magistrale, anche a distanza di cinquant'anni, è la sua definizione del Cool Jazz:
La musica dei coolsters si differenzia da quella dei boppers per tre principali caratteristiche: 1) Un idioma di improvvisazione più semplice e soprattutto più calmo o, se si preferisce, più « relaxed » ; 2) Una decisa tendenza alle staccature moderate (e non rapide) ed a un « beat » più morbido; 3) L'uso frequente, specie negli assieme, di una armonizzazione complessa che, molto più del bop, risente della musica europea contemporanea e che tende piuttosto al politonalismo che all’atonalismo.A sua volta la musica cool si distingue da quella progressiva per due considerazioni generali: 1) la molto maggiore ortodossia jazzistica; 2) l'uso quasi costante di formazioni ridotte (in genere da tre a nove elementi) invece dell'orchestone polisinfonico.
p. 308
Conversazione sulle radici dell'odio
10-21 Aprile 2006
Leggo sul suo Blog un bell'articolo di C. R. sulle radici dell'odio.
Si tiene largo e profondo. Associa l'odio, anche quello contingente dell'ultimo ciclo elettorale, ai sentimento dell'invidia e della paura.
Questo tenersi largo mi invita alla conversazione.
Paolo: Profondo, come sempre, il tuo pensiero.
Non so se è il caso di usare categorie così sottili per le due italie che anche
l’esito elettorale segnala. La politica ormai passa per la comunicazione
televisiva. E lì le antipatie, il disprezzo, il linguaggio sprezzante fanno
forse male solo a chi coltiva una propria memoria dello stato, delle
istituzioni. A me fanno male, ma per la gran parte delle persone osservo che è
solo risata da bar e da stadio.
Invece, l’odio che mi sembra più storicamente vero è quello dei musulmani nei
confronti della nostra cultura e dei nostri stili di vita: “Voi amate la vita e
noi amiamo la morte. Per questo siamo più forti di voi”.
Qui sì che vedo un odio da invidia.
Solo una intelligenza da Cassandra, come quella di Oriana Fallaci poteva vedere
così bene dove sta l’odio di prossimi decenni.
Grazie per la riflessione
C.: Caro Paolo, non ho una memoria così positiva del
nostro stato e delle nostre istituzioni. Le ho sempre vissute, fin da ragazzino,
come ipocrite, pericolose, all’occorrenza violente (e i ricordi sono lì,
pronti). Non ho mai creduto alla retorica della saldezza e purezza della
democrazia e dello stato italiano: sono entrambi recenti, nati e rinati nella
violenza, nel delitto e nell’ambiguità. Un filmaccio da cui si staccano le
figure silenziose di Luigi Einaudi, e Alcide De Gasperi. Stato e istituzioni
sempre condizionati e manipolati da poteri forti (quelli che già fornivano
autocarri rotti ai soldati fin dalla prima guerra mondiale), che colonizzarono
lo stato fin da poco dopo la sua nascita. Il loro stile, di stato e istituzioni,
non è mai stato dignitoso e rispettoso del cittadino, ma ridicolmente pomposo,
sussiegoso e, subito sotto, di intimidazione. Alberto Sordi, e i testi e film di
Vitaliano Brancati e Leo Longanesi (compresi i suoi disegni), sono documenti
storici più precisi di qualsiasi falso e onorato testo sugli stessi anni. Che
continuano oggi. Quel che mi dispiace è che la sinistra abbia sostituito ad una
dignitosa cultura dell’antagonismo di classe, storicamente sbagliata ma leale,
una volgare produzione di invidia sociale collettiva, privando il popolo di ogni
alimento culturale che non sia il pettegolezzo più indecente, o il delirio
paranoico del “potente-persecutore-causa-di-tutti-i-guai”. Su questo sì, si è
consumato un delitto che ha trasformato una parte consistente del popolo
italiano, di suo umano e dignitoso in una massa informe di serve (mi perdonino
le vere serve che sono, naturalmente, di ben altra classe, spesso con autentici
spezzoni di cultura contadina). La speranza è che queste categorie intossicate
dal risentimento (proprio nel senso del Réssentiment di Nietzsche, ma anche di
Girard), e paranoicizzate, diffuse soprattutto nei percettori di comode, ma
frustranti, rendite (compresi i baby pensionati, gli studenti che rapinano le
pensioni dei genitori, gli insegnanti che non insegnano nulla), vengano
gradualmente marginalizzate dai tanti che invece ancora, (e di più), studiano e
lavorano, senza lasciarsi intossicare da questi veleni allucinatori (di cui la
cannabis è uno dei veicoli materiali).
E’ una battaglia tra malattia (dell’anima ed economica), e processo di
risanamento ed autentica modernizzazione, che si gioca sul filo del rasoio, e
della pelle dei nostri figli. La Tv, naturalmente, fa schifo ma, in una
situazione di informazione così manipolata e stravolta, meno male che c’è:
qualcosa, i volti, gli accenti, e i gesti, lasciano filtrare sulla realtà.
Sull’Islam hai senz’altro ragione.
Un forte abbraccio,
Claudio
Potrei continuare questa conversazione?
Potrei scrivergli sul suo Blog. Vista la risposta, e rimanendo sul piano della contingenza storica o dell'Italia del ciclo 1946-1992, l'esito sarebbe una comunicazione simmetrica. Troppo inutile dispendio di energie psichiche ed intellettuali
Potrei scrivergli di persona. Ma per dire cosa? Per ribadire le due memorie ? Fra l'altro la mia è una memoria che non comprende la seconda guerra mondiale e i suoi dolori.
Resta questo diario quasi pubblico. Per dire che quando parlavo di "una propria memoria dello stato, delle istituzioni" intendevo riferirmi anche ai tre poteri di Montesquieu. E allo sfregio dei questi principi, quando gli avvocati di Berlusconi alla mattina di lunedì erano nel processo e la mattina dopo in Parlamanto a cambiare le regole su cui stavano agendo in giudizio. Qui c'è stato un disprezzo di due secoli di diritto. E un odio per le istituzioni.
Però ... Però ... anche questa conversazione è fonte di apprendimento. Anche un grande psicanalista può essere preda di sue incontrollabili pulsioni emotive. Poco razionali, poco pensate, piuttosto superficiali, molto unilaterali (aggettivo che ho imparato da lui).
Il berlusconismo ha fatto molte vittime.
Nulla cambia per la gratitudine che devo a quest'uomo, incontrato, forse fortunatamente, in un'altra fase del suo ciclo di vita.
Conversazioni sui Blog
14-23 aprile 2006
Paolo Mi è piaciuta la tua rievocazione biografica sul Blog. Volevo dirti subito - in breve - perchè trovo di grandissimo interesse culturale i Blog. Perchè credo che attraverso questi scritti e nei commenti stia avvenendo una rivoluzione. Cioè la costruzione di una intelligenza associativa. Ossia l'elaborazione di nuovi modi di pensare il mondo attraverso piccoli francobolli che fanno vedere le associazioni fra gli eventi e la loro interpretazione. Qualcosa che ha un equivalente storico solo con la nascita della "opinione pubblica" che è avvenuta con l'illuminismo francese. Nei blog vedo cultura, interessi, passioni. Tutte spezzettate: ma questa è la modernità. La modernità è frammento. Solo ogni singolo individuo può tentare di "mettere assieme". Così i tuoi foglietti ne cassetti possono uscire. E magari incuriosire qualcuno .. che così incontra altri pensieri ... Una grandissima rivoluzione. Tanto più profonda perchè molecolare. Con i blog si vede vistosamante che non c'è la "massa" (il riferimento-base dei fascismi e dei comunismi) ma individui pensanti che associano le loro intelligenze e sentimenti. Ruckert: l'idea reticolare nella diffusione delle idee è interessante, bisognerà capire se e come prenderà piede, se non c’è il rischio che la rete possa imprigionare piuttosto che liberare, magari inserendoci in piccole comunità autoreferenziali. Il rischio, inutile negarlo, esiste come la potenzialità. Come spesso accade il problema è bilnaciare le due cose e fare in modo che da questa babele di passione interessi ideali possa venir fuori una massa critica (o magari diverse masse critiche) di maggiore respiro. Anche qua il tempo ci risponderà, per ora possiamo solo immaginare... Ciao :)
Paolo: "se non c’è il rischio che la rete possa
imprigionare piuttosto che liberare, magari inserendoci in piccole
comunità autoreferenziali" E' vero. Allora l'unico ragionamento
possibile è: qual'è il minore dei mali? LE autoreferenzialità? o il
pensiero unico (insisto: quello delle culture totalitarie)? Propendo per
il primo corno del dilemma. Trovo più libertà di pensiero in piccoli
gruppi che condividono più comuni sentire. Il vero problema lo vedo
nella possibile superficialità dei contatti. Relazioni sociali
basate su "francobolli" tendono ad impoverire i significati di
conoscenze più profonde e complessive. Ruckert: vero, ma se ci fosse la terza via? L'ideale sarebbe combattere l'aureferenzialità in modo tale da ampliare sempre di più le piccole comunità che poi interagendo tra loro riescono a fare quella massa in grado di sviluppare la circolazione delle idee, che ne pensi? Paolo: Caro Ruck, questa volta temo che o non siamo in sintonia o non ci capiamo. E' la parola massa che mi incute timore, pensando al passato, soprattutto al secolo breve (1917-1945). Meglio infinitamente meglio individui che comunicano. Parlanti che crescono individualmente sulle normali sfide di una normale vita: nascita, crescita, espansione della personalità, fatica del lavoro, accettazione della morte. Nella massa c'è sempre bisogno di un capo. Come insegna anche la vicenda politica italiana: un popolo televisivo (non i parlanti dei blog) ha ancora acclamato un capo. Che non accetta le regole della democrazia. Ben sapendo che le televisioni sono sufficienti a creare qual "senso comune" che gli consentirà (probabilmente grazie a Bertinotti) di vincere per la terza volta. La televisone fà massa, i blog possono fare individui che trovano quei comuni sentire basati sul'intelligenza associativa. Ciao e grazie per gli stimoli a pensare Ruckert: Non credo che non siamo in sintonia forse bisogna solo capirsi. Proviamoci magari partendo da un linguaggio comune perché bisogna intendersi sul senso delle parole. Al termine massa critica non voglio dare quel significato. Preferisco immaginare che l'insieme, anzi meglio la presenza sempre più numerosa di individui che comunicano e interagiscono tra loro crescendo individualmente, possano consentire un miglioramento qualitativo della società nelle sue diversità. Più la massa dei pensieri liberi aumenterà, più sarà possibile avere un miglioramento, a condizione però che tutti questi individui mantengano il più possibile un atteggiamento aperto verso l'esterno, in modo tale anche da far sviluppare in modo reticolare questo modello. E questa massa a differenza del passato potrebbe non avere necessità di un capo gerarchicamente sovraordinato proprio per la presenza di un reticolo che si muove orizzontalmente. Che dici? Siamo davvero così distanti? Ciao :) Paolo: caro Ruck. Era proprio un malinteso linguistico sulla parola "massa". Sono del tutto in accordo con il tuo ragionamento. Fra l'altro, nel tuo caso, non è solo un "ragionamento" ma una pratica attiva. La tua intelligenza e capacità di pensiero la vedo sempre messa in atto nelle tue interazioni con amìci di vecchia data o occasionali. Ti sei costruito con loro un cerchio-reticolo in cui amplificate le vostre esperienze ed i vissuti. Ecco la forza dei blog: una rivoluzione attraverso il parlarsi. Insomma una volta tanto la scienza e le tecniche possono essere utilizzate in modo attivo e partecipato. Dati i tempi che continuano ad essere piuttosto crudeli è davvero molto. ciao, a presto
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Blog e conversazioni musicali
20 aprile 2006
Paolo: caro nocedifool, arrivo a
questa pagina attraverso Kosmogabri. Volevo dirti che è così che si dovrebbe
raccontare un concerto Jazz. La critica professionale interpone troppi filtri
valutativi e sottovaluta il rapporto che il musicista ha con il suo strumento,
gli altri del gruppo (quando ci sono), ed il suo pubblico. Spesso il piccolo
pubblico che ascolta jazz. Mi hai fatto ricordare l'emozione, ai limiti della
commozione, quando avevo a due metri John Lewis (il fondatore del
Modern Jazz Quartet) in un concerto a Vicenza, tre anni prima che morisse.
Essere a a contatto con il "creatore" di uno stile !
Insomma mi è molto piaciuto il tuo racconto, volevo dirtelo e e ti ringrazio.Non
conosco Dave Burrell, pur ascoltando quasi solo jazz. Ma è un mio limite (non
amo il free jazz). Ma ora proverò ad accostarlo. Colgo l'occasione per
consigliarti quello che sto predicando ovunque: di ascoltare i jazzisti
australiani The Necks. Trovi informazioni anche sul mio blog
ciao, scusa l'intrusione e arrivederci ai prossimi ascolti. Amalteo
nocedifool
scusa l'intrusione??? amalteo, perché scusarsi, se questo luogo nasce proprio
dal sacro e sano desiderio di farsi invadere dall'altro? anzi grazie per aver
lasciato traccia del tuo passaggio e per il consiglio su the necks. li
cercherò.
per quanto riguarda il free, non posso dire di amarlo. per il tipo di
sensibilità che ho, lo trovo difficile, a volte troppo cerebrale e ho
l'mpressione che ci siano esponenti che approfondiscano questo tipo di
atteggiamento, allontanando l'ascoltatore invece di agganciarlo. poi accade
come nel caso di burrell che qualcuno usi il free senza perdersi in
cerebralismi e seguendo invece la sua anima. e capita che quell'anima vibri
insieme alla tua. quando accade si sente, eccome se si sente. volevo scriverlo
che burrell non è facile da ascoltare. che poi l'effetto che ha fatto a me può
essere ben diverso da quello che fa a un altro e quasi sicuramente l'effetto
che ha fatto a me, anche nel ricordo a un anno di distanza, dipende
dall'incontro umano che ho avuto la fortuna di vivere dopo. ma poi è sempre
così in fondo, ognuno ascolta diversamente, con il proprio vissuto, con il
proprio stato d'animo del momento, la propria fisiologia del momento oserei
dire. e poi le categorie non mi piacciono, non le ho mai capite e dunque
neppure mai imparate, allontanano invece di avvicinare, l'ascolto si fa già
con un pregiudizio. non ho mai amato neanche la storia della letteratura fatta
per scuole e periodi invece che per letture. come la storia dell'arte o quella
del cinema. uno bada alle categorie più che all'opera. così non mi piace.
servono ok ma a volte ne abusiamo. così non sono io a leggere e vivere la
creatività altrui attraverso la mia, così metto occhiali che non corrispondono
al mio sguardo. beh, dopo tutto questo bla bla, passo a trovarti anch'io.
Paolo bene. sono molto contento dell'incontro. Fra poco incollo il tuo lindirizzo al mio blog e così non perdiamo il contatto. Condivido il tuo spirito nell'ascolto. Bisognerebbe fare così. Anche se io mi appoggio abbastanza alla critica musicale. Ma come ti dicevo prediligo gli "ascolti del cuore".E' per questo che vado spessissimo su debaser, ciao. Ti raccomando MOLTO i Necks: sono straordinari !!!
Blog e conversazione sui lupi
16 aprile 2006
Una riflessione sui lupi (e sulle lupe) nel Blog di Kosmogabri ha fatto affiorare alla mia memoria alcune canzoni dei vent'anni:
Peccato che qui la simbologia animale sia utilizzata per rievocare l'invasione
tedesca in Francia.
Ma, a compensazione, mi sono anche ricordato di quest'altra canzone/poesia di
Leo Ferrè:
Les loups les loups
On ne les voit jamais que lorsqu'on les a pris
Alors on voit leurs yeux comme des revolvers
Qui se seraient éteints dans le fond de leurs yeux
Alors on n'a plus peur de ces loups enchaînés
Et on les fait tourner dans des cages inventées
Pour faire tourner les loups devant la société
Des loups endimanchés des loups bien habillés
Des loups qui sont dehors pour enfermer les loups
Je les aime ces loups qui nous tendent leur vie
A ulteriore conferma che, quando un simbolo è potente, esso può assumere
significati molto diversi ed anche opposti.
Sul lupo (una lupa in realtà) c'è anche un racconto straordinario di
Corman
McCarthy . Cerco una breve traccia e la trovo su Cavallo
Magazine.
Siamo alle soglie della Seconda guerra mondiale, Billy e Boyd sono figli di un piccolo allevatore del New Mexico, autoritario e taciturno. Nel loro sangue vive il ricordo della nonna materna, messicana: il paese al di là del confine attira entrambi con un fascino irresistibile. Catturata una lupa che si sta accanendo sul bestiame dei Parham, Billy decide di non consegnarla al padre, che la ucciderebbe, e cerca di riportarla sulle montagne messicane per restituirla al suo mondo.
Inizia così, con un'insolita e struggente storia d'amore, il lungo viaggio avventuroso che porterà i due fratelli a ricongiungersi, a perdersi e a ritrovarsi di nuovo.
Il vero protagonista di questo romanzo, tuttavia, non va cercato tra uomini e animali: il paesaggio, metafisico ma concretissimo, assume qui il ruolo essenziale di testimone muto e spietato. Ed elementi naturali del paesaggio sono le figure ebbre e sapienziali del cacciatore di lupi, dell'eremita, del cieco e dello zingaro che Billy incontra nel suo viaggio. Da loro impara che «l'atto non è nulla senza il testimone» e che «la storia non può mai essere separata dal luogo al quale appartiene». Ma anche che il paese immaginario in cui gli uomini vivono e muoiono non si trova mai oltre il confine dei loro stessi cuori.
Elezioni del 9 aprile 2006, mattino
La politica come luogo pubblico dell'agire.
L'attesa
2 Aprile 2006
Rapiscono Tommaso, un bambino di due anni. Un bambino già sofferente ed ammalato. Lo fanno in modo premeditato, procurandosi il farmaco che avrebbe dovuto alleviare le sue crisi.
Poi lo ammazzano quasi subito a badilate. Lo seppelliscono nella campagna. Lì vicino.
E per un mese rilasciano interviste ai giornali, facendosi pagare. E dicono le solite cose del familismo italiano: la famiglia, i bambini ...
Per un mese tengono in scacco le indagini. Lanciano messaggi insinuanti sul padre, diffondono l'idea che il bambino sia ancora vivo ....
E' in questi momenti che apprezzo il controllo sociale. O
meglio: capisco l'importanza delle regole che sono e devono essere fuori da
me. Imposte dalla storia e dal diritto
Altrimenti il mio primitivismo interiore tenderebbe a dilagare fino a portarmi
a non vedere più come un orrore le sentenze esibite nelle piazze medievali.
Tuttavia in questo evento vedo un problema, grande e profondo: la tendenza
garantista a vedere innanzitutto le ragioni socio-culturali in chi commette il
reato piuttosto che il dolore delle vittime è totalmente sprovveduta di
argomenti quando ed essere violato è il diritto di vivere di un bambino.
In una società che non interiorizza questo tabù, questo limite che mai deve
essere valicato, la barbarie è lì vicina a noi.
Alloggiamo in un albergo un po' equivoco. Ma il contatto con Zurigo è interessante per tutto ed anche per questo.
Città di fiume, di lago, di montagne a due passi e di tram progettati con perizia ammirevole.
I Pink Martini sprizzano simpatia. E mettono allegria. Molta allegria.
Lauderdale è il folletto sel gruppo. Davvero molto bravo. Un vero leader modesto e al servizio del gruppo. E China Forbes ha una presenza scenica e una capacità di canto da divina.
Le loro musiche rinnovano e migliorano motivi sudamericani, italiani, francesi, giapponesi.
Magnifici restauratori che rendono divertenti i pezzi della vita.
Bello anche l'attraversamento della Svizzera in treno.
La memoria farà il resto
Teatro. La (per me tardiva) scoperta del teatro.
Sto vivendo una specie di nuova rinascita culturale. Ci voleva la pre-vecchiaia per valorizzare questa esperienza.
A Milano il 10 Marzo 2006 Carlo Rivolta recita l'Apologia di Socrate di Platone (Teatro Santo Domingo, Nord di Milano, alla metà di Viale Lodi)
Blog
Coinvolgo anche Luciana. Attraverso la sua propensione alla scrittura ed al comune interesse per il teatro, che apprendiamo attraverso il corso sulla Lettura espressiva di Marco Ballerini.
Scrive in pochissimi giorni recensioni, commenti, raccontini/copione per gli esercizi di lettura:
Luciana commenta: Amélie Nothomb, Acido solforico, Voland, 2005
Luciana commenta: José, Saramago, Cecità (traduzione di Rita Desti), Einaudi, 1995
Luciana commenta: Zvi Kolitz, Yossl Rakover si rivolge a Dio, Adelphi, 91
Luciana commenta: Kazuo Ishiguro, Non lasciarmi, Einaudi, 2005
Luciana commenta: Amos Oz, D'un tratto nel folto del bosco, Feltrinelli, 2005
Il Blog AMALTEO e il mio Io diviso: di centro-sinistra in politica interna, di centro-destra in politica estera
Il 2006 è anche l'anno del mio accesso alle forme comunicative dei Blog.
Nel linguaggio di Internet il termine Blog è la contrazione di due tecnicismi della rete, Web e Log, letteralmente "traccia sulla rete". Storicamente hanno cominciato a diffondersi negli Stati Uniti dal 1997, quando alcuni internauti iniziarono a pubblicare i resoconti personali sui siti internet privati aggiornati quotidianamante. Di fatto il Blog è un diario in rete, anche se la sua successiva trasformazione ne fa uno strumento con potenzialità comunicative ben più ampie di quelle di un "diario pubblico".
La prima parola gergale che ho dovuto imparare è stata qualla di "post": messaggio testuale che viene scritto in un blog o in un forum per essere commentato.
Le mie settimane sui Blog sono cominciate cominciate quasi subito con una accesa discussione fra persone che non riescono neppure a capirsi, tanto gli orizzonti sono lontani. L'argomento è stato la religione, e in particolare quella musulmana.
26 febbraio 2006
Aderisco ad un appello Per l'occidente forza di civiltà sostanzialmente promosso dalla destra italiana.
Motivo così la decisione con questa lettera:
Con
molti dei promotori non farei neppure un viaggio nello stesso scompartimento del
treno.
Preferirei stare in piedi, nei corridoi.
Con alcuni (pochi) mi troverei, invece, benissimo a parlare anche per ore.
Però il documento è di largo respiro storico. Contiene principi giusti, anche se
le radici culturali europee non sono solo nel cristianesima, ma anche nella
filosofia greca e nell'illuminismo frabcese. Non è un testo offensivo su altre
culture politiche.
E questa situazione storica chiede di interrogare il futuro.
Quindi lo sottoscrivo volentieri e con convinzione.
In
questi tempi non si può essere eccessivamente schizzinosi
Fortunatamente vivo nella modernità dove e quando si possono avere diverse “identità”:
politiche, culturali, familiari, letterarie, musicali…
L’europa è anche pluralismo identitario: la cultura greca, quella cristiana e
quella della ragione illuminista. Ed è sotto scacco da una aggressiva
cultura priva (del tutto priva) di sfaccettature e sfumature. Una cultura
innanzituto religiosa e poi politica che
minaccia così: “voi amate la vita, noi amiamo la morte. Per questo siamo più forti”
E’ molto triste per me. Sarò un elettore del centrosinistra e sarò felice se
prevarrà sulla coalizione di centro -destra che ha fatto le leggi ad personam e
alterato i principi fondamentali basati sulla distinzione dei tre poteri .
Ma sulla politica estera le ragioni sono, per me , tutte a destra.
E in politica interna le ragioni, per me, sono tutte a sinistra.
Forse il pluralismo identitario della nostra cultura è proprio questo.
Peccato che non ci sia una rappresentanza politica che è in grado di accogliere
la mia sensibilità (che penso sia anche di molti)
Paolo Ferrario
Questa mia scelta ha suscitato solo critiche, raccolte sui Blog dove l'ho raccontata. La cultura di sinistra è davvero molto unilaterale e per nulla tollerante.
A futura memoria voglio ricordare gli eventi.
V. sul suo Blog mi scrive
Caro Paolo,
tu sai che per lavoro, oltre che dei grandi vecchi, mi occupo della casa di accoglienza per immigrati, sia italiani che stranieri. Tralascio di farti l’elenco delle sfighe che vedo la volta alla settimana che ci vado. Se fosse per me obbligherei gli aventi diritto al voto a un mesetto nella casa. Negli ultimi due anni ho visto cambiare l’utenza italiana: non più e solo lavoratori immigrati dal sud, temporaneamente o definitivamente, ma anche pensionati che non ce la fanno a pagare un affitto, ex-carcerati appena rimessi in libertà, tossici e/o alcolisti e/o psichiatrici a cui i servizi sociali non riescono a dare risposte, insomma un campione di dropout dalla coperta sempre più piccola del welfare.
Gli immigrati stranieri extracomunitari sono circa il 30% e tutti con regolare permesso di soggiorno. Andiamo dall’australiano al marocchino, al moldavo, al senegalese, allo svizzero ecc…
Di solito hanno un lavoro o lo stanno cercando. Raramente ho avuto problemi con loro.
Il mio ruolo prevede che assuma la responsabilità di mandare via chi è incompatibile con la vita di comunità, di quella comunità, con quelle regole. Che sono quelle di un normale albergo. Probabilmente ho rischiato l’incolumità più con quello uscito da Castiglione delle Stiviere che con il marocchino dell’altro giorno.
Che è successo?
Come in ogni albergo si deve lasciare libera la camera per le pulizie entro una certa ora.
Il signore marocchino, alla signora delle pulizie che ha bussato alla sua camera, dopo l’ora stabilita, ha risposto con insulti personali del tipo: ma non vedi come fai schifo, sei brutta, come fa tuo marito a guardarti…, il tutto perché lui stava pregando. La signora in questione è bosniaca, profuga in Italia da allora, di genitori uno mussulmano e uno cristiano, ha perso buona parte della sua famiglia.
Beh, io l’ho mandato via. Mica perché mussulmano. Mica perché mi guarda come se fossi una capra, mica perché non paga a me perché sono, come donna, un essere inferiore. Problema suo, non mio. Ho mandato via anche il cattolicissimo pluriomicida da Castiglione. Semplicemente perché ci sono delle regole di convivenza da rispettare, che sono assolutamente aconfessionali. Punto. E a cuor leggero, perché mi so libera.
Quindi l’idea che mi sono fatta è questa: il nostro futuro, e penso all’intero pianeta, è di ricercare uno spazio di regole condivise, aconfessionali e civili.
Non possiamo restare prigionieri del dualismo perdita di identità/guerra santa.
Tra l’altro, per esperienza, quando si ha così tanto bisogno di affermare le proprie radici, la propria identità, è quando l’identità sta vacillando, dal dentro.
La religione, qualsiasi essa sia, come le ideologie, divide non unisce. (Vedi post di domenica scorsa)
E più ci penso e più riconosco nelle religioni più seguite l’espressione di un potere di genere. Puoi immaginare quanto me ne senta lontana.
E me ne sento lontana anche ora, in questo momento della mia storia personale che mi vede, ogni giorno, faticosamente, cercare senso e bellezza, nonostante lo squarcio nel petto.
A maggior ragione penso che la partita sia tra uomini, non fra dei.
Riesco a rispondere quasi in tempo reale.
Cara V.
Rispondo pubblicamente perché è così che desideri il confronto.
E parto dalla tua ultima affermazione: “penso che la partita sia tra uomini e
non fra dei”.
E, certamente, chi ha responsabilità amministrative deve agire come
coraggiosamante hai fatto. Già qui c’è un momento di tristezza. Viviamo in anni
così terribili che un ovvio comportamento organizzativo può tramutarsi in
rischio. Anche come scrivere su un Blog, dove tutti, prima o poi siamo
riconoscibili.
Figurati se non sono d’accordo. Del tutto d’accordo.
Tutto il mio profondo disagio di questi ultimi anni (in particolare dall’11
settembre 2001) parte proprio da qui.
Speravo che con la fine del comunismo storico (a prescindere dalla del tutto
ovvia evoluzione del comunismo cinese verso un capitalismo di stato e la
persistenza di Cuba, dove gli omosessuali finiscono in prigione) si entrasse
finalmente in una fase politica di attenuazione delle ideologie totalitarie.
E si ritornasse ai fondamenti delle democrazie: libertà individuali, regole
condivise, principio di maggioranza nelle decisioni, mercato attenuato nelle sue
conseguenze attraverso le politiche sociali (il tema della mia vita
professionale), ricerca della estensione dei diritti …
Il tutto su basi razionali. Cioè sulla necessaria comunicazione pubblica fra
“parlanti” che devono attraversare i loro anni di vita convivendo con gli altri.
Un partito politico (Al Qaeda) che importa ideologia dal nazismo europeo (Paul
Berman, Terrore e liberalismo: perché la guerra al fondamentalismo è una guerra
antifascista, Einaudi, 2004) ha interrotto questo percorso. Ha attaccato
materialmente e simbolicamente prima gli Stati Uniti (storico modello dello
stato occidentale, con una Costituzione liberale della fine del ‘700, prima
ancora di quella francese), poi la Spagna (simbolo di una terra conquistata per
secoli dai musulmani) e poi l’Inghilterra (simbolo del multiculturalismo
inclusivo, come ricorda Amartya Sen). Poi c’è Beslan: dove è la cultura
dell’infanzia che è stata mortalmente colpita.
E questo attacco ha consenso non solo in quei popoli, ma anche in larghe fasce
di opinione pubblica di sinistra (e un po’ più minoritarie, in quelle della
estrema destra). Non è stato l’occidente a creare il nemico. Anche i bambini
capiscono e reagiscono con più rimostranza quando uno “ha cominciato per primo”.
Tenere
per il nemico non è sintomo di equilibrio psichico, ma piuttosto mette
in evidenza una pericolosa mancanza di identità e di lealtà verso quelli della
tua comunità, a cominciare dai più umili, quelli che muoiono quando scoppia una
bomba messa lì per uccidere
La storia la sai. Ci siamo dentro. La nostra vita può cambiare una mattina alla
stazione o in uno spazio in cui andiamo ad ascoltare musica.
Perché il nodo è la religione? Lo dico da laico. Da disperato che non ha la
consolazione in nessun aldilà: la morte come “supremo spavento” (Franco Battiato).
Ma la realtà, purtroppo, è questa: la religione musulmana è fondata su un
“libro”. Su quello che è scritto e su come è letto da piccoli leaderini che si
fanno forti della loro predicazione. La religione cattolica, invece, è basata
sulla “parola”. Per non dire della forza di una religione fondata su un dio che
si è fatto uomo. Gesù Cristo ha parlato ed è stato raccontato dagli apostoli.
La questione è questa: un libro scritto di fronte ad una parola, che cambia
nello spirito dei tempi.
Quindi anche le religioni sono differenti. Non sono tutte uguali. La religione
musulmana pretende di essere inclusiva. Cioè quella giusta. L’unica.
E così una questione di carattere politico (la sicurezza di andare al lavoro
spostandosi sui treni) diventa anche religiosa. Ossia relativa ai valori che
sostengono la convivenza. Davanti ad una tale compattezza
ideologica-religiosa-culturale le nostre mille piccole convinzioni vacillano e,
in prospettiva, diventano pensiero debole nel reggere a tanta forza di massa.
E qui arrivo alla conclusione.
Nella psicologia sistemica si impara che, per comunicare, occorre che le
identità dei parlanti siano chiare e non collusive. Si può comunicare quando
sono chiare le rispettive identità.
Ed è questo che occorre fare. Chiarire con gesti anche forti quali sono le
“identità plurali” della civiltà europea: diritti civili, distinzione
stato/chiesa, libertà nelle scelte procreative, politiche di genere
Non solo appellarsi ai valori religiosi (ma non è moralmente giusto
criminalizzare chi lo fa) ma alle regole storiche che nelle nostre geografie si
sono costruite a partire dal 1500. Questo dovrebbe farlo la sinistra, ma non può
farlo perché essa si fonda sulla critica di questo percorso storico e vede nelle
masse di cultura musulmana il nuovo proletariato per un altro scossone
rivoluzionario, come nel 1917.
Lo fa, invece, la cultura di destra. Non posso negare l’evidenza.
Lo fa un manifesto che va letto laicamente, indipendentemente dai promotori.
Proprio come dovrebbe un qualunque pensante che vorrebbe vivere ancora per
almento 30 anni e consegnare una terra vivibile per coloro che di anni da vivere
ne hanno 70 o 80.
E’ una questione di responsabilità.
Tu lo hai fatto con la decisione relativa all’ospite che insultava la profuga
bosniaca e ti trattava “come una capra”.
Io (ubi maior minor cessat) lo faccio prendendo distanza incolmabile da un pezzo
della mia storia politica.
Ciao
Sarà meglio che continuiamo a parlare solo di musica. A proposito: lo sai che
una delle prime cose che hanno fatto i talebani è stata quella di proibire la
musica ? Pensa: non avrei mai potuto conoscere i Necks !
Così tutti i pater finiscono in gloria.
Paolo
I Blog
I Blog sono strumenti comunicativi di immenso interesse.
Propongono nuove forme di comunicazione, di relazioni interpersonali ed anche di
apprendimento culturale.
Più li frequento e più sono talvolta infastidito dal narcisismo che li permea.
Trovo una inflazione dell'Io che non è indice di di buone cose per il futuro.
D'altra parte sono incuriosito da questa cultura del frammento che vi si
manifesta. E' proprio la curiosità del sociologo che mi prende. Mi colpisce i
parallelo fra il costruirsi della opinione pubblica nel '700 e quest'altro
costruire identità molto cariche di opinioni e spesso molto poco di
informazioni. Eppure la direzione è questa ... O meglio nel futuro tenderanno a
convivere culture anche biografiche molto argomentative con altre più
segmentate, eppure caratterizzate da un specifico "senso comune del frammento".
Si va costruendo una opinione pubblica frammentata. Sto proprio pensando ad una categoria interpretativa: si sta sviluppando una specie di intelligenza diffusa basata sulle connessioni. Tante interazioni che costruiscono un senso comune non più televisivo. E questo mi sembra un grande passo avanti ed un beneficio di queste tecnologie.
Trovo conferma di questa intuizione in chi ha già indagato su questi mondi informativi:
I weblog ... rappresentano, a oggi, la creatura più matura del Web; si potrebbe addirittura definirli come una nuova tecnopsicologia. Punto di incontro tra network sociali e network tecnologici, la blogosfera è una rete di interazioni intellettuali dirette e navigabili, risultato dell'apporto gratuito, aperto e verificabile delle conoscenze e delle opinioni di molte persone su argomenti di interesse generale e in tempo pressoché reale. Il funzionamento dei weblog si basa interamente su queste connessioni. Come l'intelligenza, si sviluppano e crescono con l'uso. I weblog sono uno spazio per la riflessione condivisa.
Proprio dai weblog potrebbero venire i prossimi sviluppi dei motori di ricerca. Ci si può chiedere, ad esempio, se il tanto sospirato Web Semantico - il motore di ricerca che penserà per noi - potrà avvalersi dei track-back dei weblog. Oppure se esso sarà in grado di interpretare anche i differenti contesti d'uso delle parole chiave. Di certo, da quando i loro contenuti sono stati indicizzati da Google, i weblog hanno contribuito a una maggiore precisione e flessibilità delle ricerche, fornendo un indice non solo dei testi ma anche dei contesti, con configurazioni di temi e associazioni estremamente accurate.
Quale che sia la sua forma definitiva, il Web Semantico accelererà enormemente lo sviluppo dell'intelligenza connettiva. Questo libro spiega come.
Derrick De Kerckhove, in Giuseppe Granieri, Blog Generation, Laterza 2005, p. VIII
Memoria autobiografica 18 febbraio 2006 Caro C., è da molto tempo che non ci sentiamo (forse dal 2002, dopo un tuo intervento al Convegno di Todi, per la rivista Liberal, mi sembra) Non seguo con attenzione tutti i tuoi interventi, ma ti penso spesso, con molto affetto e gratitudine.
Sono spinto a scriverti sollecitato da una grande energia creativa che mi sta prendendo in questi giorni.
Ho 57 anni e mi sento in una fase della vita che chiamo la pre-vecchiaia. Non so se è per tutti così, ma per me questa fase si sta presentando come la più bella del mio ciclo su questa terra. Riannodo i fili, tendo a vedere i lati positivi (compresi i tanto denigrati nonno e padre), faccio cose interessanti (per esempio in queste settimane sto frequentando un corso tenuto da un giovane regista e attore comasco sulla "Lettura espressiva": insomma per imparare a leggere bene un testo ad un pubblico, anche piccolo), leggo le cose più diverse ... Certo molto del mio equilibrio è dovuto alla presenza di Luciana. Che, qualche giorno fa mi ha fatto uno dei più bei complimenti che possa immaginare: "Tu hai dalla tua, nel bene e nel male, un ottimo rapporto con le tue emozioni". Ma molto è dovuto al percorso di "allargamento della coscienza" che mi hai aiutato tu a fare, in un'altra fase della tua di vita. Quasi come un fratello maggiore che ha fatto un po' da padre (a proposito della tua ricerca sulla psiche maschile). Dell'analisi ricordo quasi tutto. Perlomeno i vari momenti di svolta. Ma prima o poi (grazie alla mia parte ossessiva) tirerò fuori i miei appunti, i sogni appuntati, le tracce dei ricordi... Ma volevo dirti che in questi giorni si affaccia un tema. Quello della "individuazione" Ricorderai che il mio intellettualismo mi portava a leggere molto di psicoanalisi e di teorie junghiane. L'individuazione mi appariva come l'OBIETTIVO per il cambiamento. E tu, con saggezza, una volta mi hai detto (più o meno): "Guardati dall'inseguire il traguardo della individuazione. Non è così che succede. Può essere che arrivi del tutto in modo inaspettato e che sia rappresentata dall'ombelico di tua moglie". Certo l'ombelico di Luciana è un pezzo di quella che potrei chiamare la "mia" individuazione. Ma alcune circostanze sincroniche (altro tema seminale nella mia vita) mi hanno portato ad entrare in contatto con un gruppo di musicisti jazz australiani che mi buttano in uno spazio psichico davvero mai provato. Si chiamano The Necks. Li ho incrociati per caso, sincronicamente per l'appunto, ed ora li ascolto come quella musica che era lì solo per essere da me scoperta. Come una delle prime sabbie con cui superai la mia diffidenza verso quel modo di fare analisi. C'era, per l'appunto, un tesoretto fra alcune piante. Li ascolto ogni volta con stupore per il loro Interplay, per la bellezza del suono, per la forza con cui costruiscono le loro architetture musicali, Tieni presente che fanno una sola traccia di circa un'ora. In realtà le loro sono composizioni, del tutto analoghe a quelle della musica classica. Gli ho persino scritto, e il contrabbassista mi ha risposto, con sorpresa e gratitudine, dicendo: Dear Paolo, This is simply fantastic! You have done an incredible job! Grazie, grazie so much! It means so much to us to know that our music has moved someone the way it has moved you. You inspire us and we promise to keep making our music!
Il loro ascolto mi ha "carica" in senso creativo. E mi è venuta voglia, molta voglia, di farli conoscere in Italia. E qui viene Internet (che sciocchezza criticare la globalizzazione e vederla come limite: piuttosto la modernità delle tecnologie avvicinano e rendono possibile creare nuove relazioni), Infatti ho trovato un sito dove si possono scrivere recensioni musicali al di fuori delle regole della critica professionale. Scritti di persone cui piace la musica e vogliono dire ad altri le loro emozioni. Finora ho scritto di due dischi dei Necks: Di questo volevo parlarti. Di come a 57 anni si possono annodare i fili e vedere le connessioni fra un piccolo parlare nel chiuso della tua stanza, la musica jazz che piaceva a mio padre e la scoperta delle nuove frontiere, il leggere testi letterari in pubblico, e il volerlo ricordare a chi è stato importante nel mio percorso di vita. un caro saluto e grazie per l'attenzione ciao Paolo
caro Paolo, ti leggo solo io, naturalmente.
quanto mi scrivi mi ha molto commosso.
questo incontro coi Necks è davvero
fantastico!
mi sembra che tu stia moto bene, e che la
pre-vecchiaia ti faccia molto
bene.
Un carissimo saluto a te, e a Luciana,
C.
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Fine gennaio 2006
Studio e aggiorno il sito. Insomma arredo le mie conoscenze, come diceva la saggia Laura Conti.
Ma quando si fa sera spengo la luce e ascolto nel buio Drive By dei Necks. Una scoperta fatta grazie all'aiuto di Geoff Dyer.
Ho scritto per loro una recensione, pubblicata sul sito deBaser una felice scoperta di questi mesi.
Nella storia del Jazz spesso si legge che, nei momenti di svolta, gli appassionati ascoltatori dicevano "c'è uno che suona in modo nuovo" e correvano a sentirlo. E' avvenuto per Louis Armstrong, che con West End Blues (1929) innovava nel Jazz di New Orleans. E ancora con le orchestre di Duke Ellington. Poi con il Bebop di Charlie Parker. Con The Birth of Cool di Miles Davis. E ancora con Olè di Coltrane. E ancora con il Jazz nordico di Garbarek. Ma sono molte le svolte.
Ci sono vari modi, non incompatibili, per suonare il Jazz: quello degli Standard (e si può farlo in modo mirabile come il Trio di Keith Jarrett), quello della tradizione (come continua a fare con encomiabile coerenza Winton Marsalis), quello della rielaborazione del Pop (in Italia ricordo Danilo Rea e i Doctor 3). E ancora altri.
Ma oggi la nuova frontiera la stanno percorrendo i Necks, un gruppo australiano che lavora da 15 anni e che persegue con determinata coerenza un progetto musicale unico. Di loro si dice:
"Entirely new and entirely now. They produce a post-jazz, post-rock, post-everything sonic experience that has few parallels or rivals" (da The Guardian)
I Necks hanno qualche precursore, ma pochi imitatori. Il loro è Jazz minimale, è Post-Jazz, è Post-Tutto, come di loro dice Geoff Dyer.
L'ascolto che mi ha lasciato trasognato è quello di Drive By. Un pezzo unico di circa 60 minuti. Una scultura musicale sostenuta dal tappeto sonoro della batteria di Tony Buck. Non ricordo altro drumming di così grande bravura per precisione e ritmo. La musica sembra appartenere al genere del minimalismo. Ma non è solo così: è continuamente attraversata da altri inserti sonori. Come voci di bambini, lampi notturni, rintocchi acustici, armonie da contrabbasso.
La ricorsività e talvolta monotonia del minimalismo qui è vivificata dalla improvvisazione
La musica procede per sottrazione ed estensione. Talvolta Tony Buck è lasciato da solo a tenere l’opera (perché di grande opera d’arte si tratta !), ma poi di nuovo riprendono in tre.
Impossibile non essere ipnotizzati da questa musica. Forse, senza particolari intenzioni terapeutiche, i Necks intercettano le onde cerebrali.
Questa esperienza sonora si conclude, infine con una notte stellata in cui cantano i grilli. Le chiusure sono tanto importanti come le entrate. Ma qui siamo al massimo. Sono 10 secondi di vera magia.
Chiunque ami non solo ascoltare musica, ma entrare in uno spazio musicale non perda i Necks e cominci pure da Drive By. Ma poi cerchi tutti gli altri loro dischi.
Ascoltateli: è una esperienza musicale straordinaria.Sembra di stare in uno spazio fatto di note. O meglio, come dice Dyer, "è musica che contiene lo spazio che attraversa".
Ora ho anche un Album su cui annoterò ogni cosa di loro.
Certo sembra stupefacente che è dall'Australia che arrivino questi esploratori psichici della musica Jazz. Ma pensando A Picnic ad Hanging Rock di Petr Weir non è poi così strano.
Forse gli australiani sanno mettere bene assieme modernità, ambiente incontaminato e sogno.
Successivamente ho anche scritto di un loro altro disco: "Sex":
C'è una parola ricorrente nelle recensioni dei dischi del trio australiano The Necks: "unico". È vero. Fanno un Jazz nuovo. Diverso da qualsiasi altro.
Chris Abrahams (tastiere), Tony Buck (batteria), Lloyd Swanton (basso) sono nati durante i primi anni '60. Proprio quando John Coltrane suonava "Olè", che viene accostato a loro per la sua capacità di innovare, e 10 anni prima dell'ascesa del trio Keith Jarrett. Insomma: appartengono ad una nuova generazione di musicisti Jazz. E del passato sanno distillare il più sapiente uso degli elementi essenziali del Jazz: il rapporto particolare con il tempo, in gergo lo "Swing"; l'improvvisazione; il fraseggio del singolo esecutore, anche all'interno di un gruppo; ed, infine, quell'elemento che differenzia il Jazz da altri generi di musica, ossia quella qualità speciale che chiamiamo "stile". Questi richiami li devo al libro: Joachim Ernst Berendt, Il nuovo libro del Jazz, Vallardi.
La loro unicità mi sembra dovuta ad alcuni fattori: creano un unico pezzo della durata di circa un'ora; il suono è acustico e potente; l'uso dell'elettronica è appena accentuato; il "tappeto" musicale, che si richiama alla ripetizione ipnotica del minimalismo e su cui si appoggiano le armonie e le improvvisazioni, è semplicemente sublime; non ricorrono a dissonanze Free per dimostrarsi "diversi". "Sex" è del 1989: 15 anni prima di "Drive By". Eppure i due dischi sono fra loro vicinissimi, a conferma del loro stile e della loro coerenza artistica.
Per ascoltarlo occorre "darsi tempo". Meglio ancora quando diventa buio e cominciano ad accendersi le prime luci della notte.
Provo a scrivere cosa succede. L'inizio è una cascata di note di piano che rimbalzano sul tappeto del drumming di Tony, cha da subito comincia ad ordire la sua trama. Il ritmo rimarrà sempre quello, con continue variazioni, ma con lo stesso disegno: credo che ci voglia una forza incredibile a tenere intatto e senza un errore, questo tempo per un'ora filata… 4 o 5 note acustiche di piano in tono melodico… l'idea è buona, altri andrebbero avanti su quella scia, ma Chris le lascia lì, forse per farci desiderare che ritornino ancora… il contrabbasso di Lloyd diventa un violino, ma soprattutto evoca le porte che si aprono nei castelli delle favole… variazioni del tappeto di Tony, preciso come l'equibrio biologico della vita. Accenno di aumento della velocità, forse solo una impressione, come nei sogni dove tutto ha misure diverse… sassi che si rotolano fra di loro nell'acqua di una grotta… campanelle, ma forse no, forse era un sogno perchè sono già sparite… secchi colpi di bacchetta in tono sordo-acuto, ancora solo per un attimo… avanti con lentezza, sempre uguale e sempre diverso… Sono passati 20 minuti. La meraviglia è che sono ad un terzo del viaggio. Mi viena da sorridere come Noodles nella fumeria d'oppio, alla fine del film di Sergio Leone "C'era una volta l'America". Ma l'espansione di coscienza dei Necks è di tutt'altro tipo: loro realizzano un ponte fra lo spazio musicale che stanno creando e le mie onde cerebrali.
Alla metà del disco cominciano a crearsi nella mente delle immagini, ogni volta diverse, tutte rivelatrici di altre parti della realtà, mai drammatiche. È tutto così "sincronizzato": dinamica, ritmo, variazioni, battiti del cuore, respiro, movimenti del corpo… 34° minuto: Tony aggiunge un battito della grancassa… ora l'ambiente sta ancora cambiando… più veloci, perchè ormai siamo dentro con loro e possiamo andare tutti assieme dove non siamo mai stati… mi sento nel cuore di questa scultura, come quando il marmo rivela la forma che aveva dentro.. e infatti i sassi della grotta ricominciano a rotolare… qui ora c'è un beat che vorrei memorizzare per il resto della mia vita… 44° minuto: interplay di tensione drammatica… improvvisazione onirica e i tre si mettono a raccontare le loro storie… 51° minuto inizia il passaggio alla chiusura… ritmo di nuovo più lento, ma sempre incalzante. Tony è ancora lì, da dove aveva cominciato, dopo essere andato da tutte le parti senza mai mancare di "assistere" i suoi compagni… chiusura su interplay batteria-basso con poche note di piano. The end.
Si esce dal sogno e si torna al reale. Ma con quel tono tra-sognato che fa percepire meglio la bellezza della vita. Grazie Necks: siete "unici", fate una musica "bella".
Vi invito al loro ascolto, di tutto cuore.
già pubblicato su Debaser: http://www.debaser.it/recensionidb/ID_8201/The_Necks_Sex.htm
"Bello". Di che cosa parliamo quando diciamo di una persona o di una cosa che è "bella"?
Provo anche ad avviare una conversazione sul tema del "bello". Che si smorza quasi subito. Forza delle connessioni nei Blog, ma anche labilità nell'approfondire, nel fermarsi .. tutto deve essere veloce... solo rispostine ai vari intelocutori. Però la domanda rimane. Ed è una domanda importante.
1. Una semplice domanda di partenza
Ciao V
L'ho appena chiesto anche a Ruckert.
"Cosa vuol dire "bello ?"
E cosa rende un
qualsiasi qualcosa "bello"?
E' l'aggettivo che uso di più , ma non so
davvero bene cosa renda un oggetto "bello"
Tu sei la persona giusta per indirizzarmi
2. la prima risposta di Astime
Buongiorno Paolo :)))
Cosa vuol dire bello... potrebbe essere un modo, come ne "Le mille e una notte"
per battere il tempo... infatti il significato di bello è sempre in evoluzione e
"sfugge a qualsiasi definizione univoca e conclusiva" Remo Bodei, Le forme del
bello. A me piace la concezione degli antichi greci, che utilizzavano la stessa
parola per dire sia bello che buono.
Di una cosa sono convinta su tutti i ragionamenti possibili: la bellezza è negli
occhi di chi guarda.
Buona giornata
Astime/Splinder
3. la prima risposta di Ruckert
caro paolo
provo a dire la mia qua sperando che ad Astime non dispiaccia. La tua è la
classica domanda delle 100 pistole, che attraversa la storia dell'uomo. Paolina
Bonaparte era un esempio di bellezza del suo tempo, ma oggi forse non sarebbe
considerata tale. Nel cuore dell'africa la bellezza delle donne si gioca in
funzione di criteri che per noi possono sembrare assurdi.
In tempi di propsperità sono considerate belle determinate forme, in altri
prevalgono le magrezze.
Il viola è un bel colore quest'anno, ma vai a chiederlo a un teatrante.
Il bello così diviene relativo al tempo ed allo spazio sfuggendo alle
definizioni assolute.
Poi alla fin fine mi piace molto la definizione di Astime "la bellezza è negli
occhi di chi guarda" perché relaziona al soggetto la definizione.
D'altra parte quando ascolto l'inno alla gioia di LV Beethoven mi chiedo se sia
possibile che qualcuno possa trovarlo brutto. Quella musica esiste nel mondo
delle idee di platonica memoria come esempio di bellezza assoluta? Belli i dubbi
:))))
Un caro saluto a tutti
Ruckert/Splinder
3. Ancora Astime
Di seguito un brano di un saggio di Praz che, a mio parere, di
bello ne ha visto e scritto.
.....
Non è il solo, il Winckelmann, a preoccuparsi in quei tempi di determinare la
linea della bellezza; Hogarth, Burke, Mengs teorizzavano in proposito, e la sua
definizione del canone secondo rapporti matematici sarà ancora un riflesso di
quella filosofia wolfiana che il Winckelmann aveva assimilato all’università,
per poi distaccarsene. Ma codeste tendenze dell’epoca, assumevano una diversa
sfumatura. Filosofia wolfiana affermare un solo bello, come d’un solo vero,
applicando Euclide alla metafisica, o non piuttosto bisogno d’amante di
proclamare l’universalità di quel solo bello che l’anima sua concepiva? Dolce
mania, che in una forma estrema e grottesca può spingere un Caligola a proclamar
senatore il suo cavallo.
Sostegni teoretici non mancano mai a chi non riesce a vedere il mondo che da un
suo singolare punto di vista.
“Il più sublime oggetto che possa trattare l’arte per l’uomo che pensa è l’uomo”
...
Winckelmann, Mario Praz
4. Ancora Astime
Propone questo Link: http://www.emsf.rai.it/interviste/interviste.asp?d=152
5.
Inteloquisco
Grazie Astime. L'intervista a Bodei (conterraneo di Ruckert) è qui sul tavolo. I
filosofi mi mettono soggezione: non l'ho ancora affrontata. Devo trovare il
filone energetico giusto.
Trovo, dopo una scorribanda sulle recensioni di DeBaser, un bello spunto che mi
parla della relazione fra musica e bellezza:
"La Musica è il segno più sublime della nostra transitorietà. La Musica, come la
Bellezza, risplende e passa per diventare memoria, la nostra più profonda
natura. Il superamento del dolore della vita è necessario affinchè si riacquisti
il senso della Bellezza: in questo cammino la Musica, la cui Bellezza è
impalpabile, ci viene in soccorso ed aiuto, poichè essa è come una luce che
entra nei più reconditi spazi del tempio della nostra anima". (Giuseppe Sinopoli)
La sigla di chi lo ha proposto è - mi sembra- wanderer.
Lo lascio qui a ad amplificare questa riflessione a più voci. Le veloci voci che
compongono la comunicazione che si manifesta sulla rete. La frammentarietà è il
difetto: tantissime piccolissime scaglie comunicative. Mentre il capire ed
approfondire richiede processi di pensiero largo, ricchi di sfumature, pieni di
ponderazione. Il vantaggio è la quantità degli stimoli, le aperture che derivano
da uno spunto ...
ciao a chi legge
Amalteo/Splinder
6.
Mi dice P, una vecchia amica con cui, da 35 anni ormai, ho un
feeling profondo.
Non riesco a dirti solo che cosa vuol dire per me “bello” di un oggetto.
Forse perché io l’aggettivo “bello” lo uso molto di più per la natura, il mondo.
“Bello” é quindi qualcosa che mi tocca, mi trasforma – magari per un istante –
qualcosa con cui si crea una relazione. Qualcosa che mi fa uscire dalla
solitudine e dal guardare e pensare solo a me. Il “bello” in questo senso non mi
annulla, non mi sovrasta, mi fa sentire “parte di”.
“Bello ” - riferito a un oggetto - é quell’oggetto che in parte mi stupisce,
arriva come una specie di sorpresa, e in parte corrisponde a qualcosa di noto,
di conosciuto, di ritrovato. Qualcosa, insomma che non mi aspettavo e mi
aspettavo al tempo stesso.
Poi quando dico “bella persona” sento che sto parlando di qualcuno che mi
rimanda una sorta di armonia con se stesso, una padronanza delle relazioni mai
usate come potere sugli altri. In fondo, banalmente, una persona che mi fa star
bene.
(vale anche per uno scrittore)
Comunque, caro Paolo, ti poni - e poni - delle “belle” domande!
affettuosamente
P.
7.
Dizionari
incantevole, magnifico, splendido, meraviglioso, superbo, incomparabile,
incredibile, indescrivibile, impareggiabile, mirabile, stupendo, sublime;
armonico, armonioso; soave, radioso, luminoso; abbagliante, solare; angelico,
etereo, diafano, lunare; procace, florido
gradevole, piacevole, delizioso (questo piace alla mia amica Carla F.); arioso
(e questo a M.R.), ameno, pittoresco, suggestivo, favoloso
da impazzire, da morire, da lasciarci gli occhi, fa favola, come il sole, come
un cuore, da mozzare il fiato, senza confronti, senza paragoni
Tratto da: Dizionario analogico della lingua italiana, Garzanti
"Bella" questa idea dei dizionari.
Andrò avanti
Proprio "bella"
8. aggiunge Astime (vedi il suo Blog):
A proposito Paolo, che relazione fra l'orrido e il bello?
"Bella " estensione alla domanda. Davvero
"bella" e intrigante.
L'Orrido di Nesso e di Bellano sono belli
perchè provocano un brivido. Mettono a contatto con una ferita della terra.
Questa frattura fra due coste di montagna e l'acqua che cade dall'alto. Ha
camminato come torrente e invece di finire in un placido delta deve fare un
salto. Così vediamo il contrasto fra l'acqua che cade e quella appena appena
increspata del lago.
La bellezza dell'orrido: metterci vicino
alla contemplazione di un contrasto.
Ecco la mia interpretazione associativa
ciao
P
Lettere
19 gennaio 2006
Bella giornata. Mi arriva una proposta di lavoro e ricevo una lettera da A.:
Caro Paolo,
sì ho proprio voglia di rimettere in sesto la mia casa perché diventi comoda per
quello che mi piace fare: letture (sì! disordinate!
;-) ), disegni, PC e musica.
Nel libro di H. Pratt Avevo un appuntamento c'è una foto del suo posto di
lavoro: una scrivania quadrata vasta quasi tutta la stanza (con sopra
carta,disegni, pennelli, colori) e tutt'intorno scaffali pieni di libri.
Bellissimo!
Il problema è che, poi, non mi verrà più voglia di uscire di casa...
A proposito di musica, sto godendomi le cassette fatte con i dischi di tuo padre
(Chet Baker, ben Webster, Johnny Hodges) o regalatemi da te (ad es. le raccolte
di Armstrong, gli Standards) che, gira e rigira, sono quelle che mi piacciono di
più e che ascolto in continuazione.
Quando avrò un po' più di ordine devo trovare il sistema di metterle in MP3 in
modo da poterle sentire con il mio player Creative Zen (più comodo di un
walkman).
Sempre in ambito "musicale" mi sono ricordato che avevo da tempo ho un regalino
per te (vedi il file JPG allegato): è la
tomba di Petrucciani al Cimitero Père Lefèbre a Parigi.
E per finire, Amaltea ( :-D ) che per la tua
generosa ospitalità ha funzionato meglio della sand play...
Ciao! a presto... de visu.
A.
Rispondo
A.
mi hai fatto un regalo bellissimo !!!
meglio di qualunque altro regalo
vado subito a mettere la tomba di Michel sul sito
peccato che non posso fare altrettanto con Nina Simone perchè per sua
volontà le ceneri sono state disperse in vari paesi africani come ho
appreso dal bellissimo:
GRAZIE GRAZIE GRAZIE ancora
Paolo
|
Qualche giorno fa, sempre A., incidentalmente mi ricordava Laura Conti, in questa lettera
Ciao Paolo!
Mantra ricevuto, grazie... dovrei stamparlo e attaccarlo sullo specchio in
bagno, giusto per ricordarmi cosa non sto facendo...
In questo periodo sono impegnato a pulire e mettere a posto la casa.
Ho realizzato che tutto (tranne i servizi essenziali: letto & bagno) si era
fermato negli anni 90'. Ora, cessato l'incubo dell'impegno lavorativo, non
sopportavo più le pigne di libri (alcuni li ho trovati addirittura doppi),
giornali, riviste, fotocopie, accatastate dovunque e piene di polvere, e una
scrivania con 50 cm di spazio libero... >:o
Ho comperato alcune librerie all'IKEA e man mano sto mettendo in ordine il KAOS
(addirittura!) ... tra maledizioni e mal di schiena.
In effetti è un lavoro un po' menoso perché prima devo pulire con un panno
mangiapolvere ogni libro (il sistema
Laura Conti non funziona,
almeno in questo primo stadio, perché se lascio cadere il libro a terra di
piatto mi scatena un piccolo tornado polveroso...) poi metterli negli scaffali.
Bisognerebbe inventare libri anti-statici respingi polvere.
Sarà un lavoro lungo, anche perché, a volte, trovo/ritrovo un libro che mi
piace/piaceva e mi metto a leggerlo... e arriva subito sera.
A volte mi viene in mente che Risé mi diceva che il mio disordine "esterno" era
lo specchio di quello interno. Vedremo se sarò capace di togliere cumuli
polverosi e disordinati anche dall'Anima... (scaffali IKEA per l'Anima?).
La cosa più bella di questo mio primo periodo da pensionato? E' che ora dormo
"bene" e non mi capita più di svegliarmi a metà notte con gli occhi sbarrati con
l'angoscia di aver dimenticato di fare qualche pratica ministeriale.
Beh! Speriamo che me la cavo.... ;-)
A.
Nei giorni a cavallo fra il 2005 e il 2006
Attraverso uno scritto di Geoff Dyer la mia strada incrocia quella dei musicisti australiani The Necks.
Una folgorazione.
Per il mio ascolto è "Jazz minimale". Per Geoff Dyer è qualcosa di più: Post-Jazz. Anzi, per lui: Post-Tutto.
Da tempo mi sembrava che il Jazz non esprimesse più nulla di nuovo. Certo bellissime riletture dei "Classici", ma più niente di nuovo. Come le nuove strade esplorate, nella loro situazione storica, da Louis Armstrong, Duke Ellington, Charlie Parker (che non ha mai "preso"), John Lewis, Keith Jarrett .
A parte l'unica ed irripetibile Nina Simone, trovavo più esplorazione in Norah Jones, Katie Melua, Anthony and Johnson.
Ora, forse ci siamo: The Necks sono davvero una esperienza di "note spaziali" del tutto nuova. E bellissima.
Musica
3 gennaio 2006
Ore 5 e 30. Ascolto il Koln Concert di Keith Jarrett.
In un attimo di tempo Jarrett crea il capolavoro. Vaga fra le note fino a trovare quella che ha significato nella situazione del momento.
E' una emozione che, per la riproducibilità delle opere d'arte (rinfrescare Benjamin!), fortunatamente per me e per l'umanità si rinnova ogni volta.
L'intero concerto è stato tenuto al Festival Jazz di Montreux
Lì si può anche trovare il Dvd dell'intera serata e delle successive sue presenze (1986 e 1990), oltraggiata dalla vecchiaia.
Fiori per Nina. Tanti fiori per Nina