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IL TEMPO CHE RESTA

fra lavori, eventi, ricordi


2006


31 dicembre 2005

 

DICKINSON EMILY 

Ci abituiamo al buio 

Ci abituiamo al buio

quando la luce è spenta

dopo che la vicina ha retto il lume

che è testimone del suo addio, 

per un momento ci muoviamo incerti

perché la notte ci rimane nuova,

ma poi la vista si adatta alla tenebra

e affrontiamo la strada a testa alta.

Così avviene con tenebre più vaste

quelle notti dell’anima

in cui nessuna luna ci fa segno,

nessuna stella interiore si mostra. 

Anche il più coraggioso prima brancola

un po’, talvolta urta contro un albero,

ci batte proprio la fronte;

ma, imparando a vedere, 

o si altera la tenebra

o in qualche modo si abitua la vista

alla notte profonda,

e la vita cammina quasi dritta.

 

We grow accustomed to the Dark -
When Light is put away -
As when the Neighbor holds the Lamp
To witness her Goodbye -

A Moment - We uncertain step
For newness of the night -
Then - fit our Vision to the Dark -
And meet the Road - erect -

And so of larger - Darknesses -
Those Evenings of the Brain -
When not a Moon disclose a sign -
Or Star - come out - within -

The Bravest - grope a little -
And sometimes hit a Tree
Directly in the Forehead -
But as they learn to see -

Either the Darkness alters -
Or something in the sight
Adjusts itself to Midnight -
And Life steps almost straight.

da: http://www.emilydickinson.it/j0401-0450.html


sabato, 30 dicembre 2006

La morte dei tiranni

tracce

Non è certo il caso di fare una festa, ma per quanto riguarda la politica l’esecuzione dell’ex dittatore Saddam Hussein sta all’attivo di questo 2006.
La chiave di lettura che utilizzo insegue questi pensieri: stiamo parlando di crimini verso l'umanità eseguiti da un capo di stato che perseguiva una terza guerra mondiale; stiamo parlando di una procedura a suo modo giuridica (intendo in quel contesto socio-culturale) da inquadrare nelle situazioni estreme. Non situazioni controllabili con la convinzione, le argomentazioni, il diritto: situazioni estreme, ossia eccezionali e meritevoli di un ragionamento diverso nella comparazione con le altre situazioni della quotidianità e della storia.
La questione è moralmente questa: le colpe, quando sono così grandi, devono essere pagate nel modo estremo.
La questione è giuridicamente questa: il processo Saddam è stato legittimo all’interno dei loro ordinamenti giuridici. Ordinamenti primitivi ma legittimi in quel quadro socio-culturale. Osserva in proposito Pietro Ostellino:
 

“Nella nostra cultura giuridica, il principio di legalità impone al giudice di attenersi alla lettera della legge, evitando di fare riferimento alla morale e alla religione; a sua volta, il principio di legittimità pretende che la legge sia fondata sul rispetto dei valori della democrazia liberale e sulle garanzie dello Stato di diritto. Nella cultura giuridica islamica, al contrario, il principio di legalità coincide con quello di legittimità solo se ha a proprio fondamento la morale religiosa (che non è propriamente lo Stato di diritto). Si tratta di due piani differenti — quello occidentale, giuridico, che spiega il rifiuto etico-politico della pena capitale; quello islamico, morale, che la giustifica giuridicamente — da cui valutare il processo, ma che fanno tutta la differenza fra la nostra e la loro civilizzazione.”
 

Se il principio morale fosse stato “non si deve dare la pena di morte”, allora neanche a Hitler (se non ci avesse pensato da sè suicidandosi) si sarebbe dovuta applicare la sanzione estrema. E la fucilazione di Mussolini (avvenuta senza processo) sarebbe stata non solo illegittima, ma anche ingiusta e per di più definibile come un omicidio. E neppure il rapimento, il processo e l’esecuzione di Adolf Eichmann, il “funzionario” della Shoah, sarebbe stato un infinitesimo atto di giustizia davanti alla enormità del genocidio industrialmente organizzato.
Il mio personale giudizio nei confronti della storia contemporanea è quello di osservare una profonda ingiustizia nel fatto che Stalin , Mao, Francisco Franco, Pinochet …. siano morti secondo il loro orribile ciclo naturale di vita. E lo stesso avverrà per Fidel Castro, che anzi verrà decantato come un eroe.
Al male estremo non c’è rimedio. Si può solo parzialmente combatterlo con una reazione altrettanto estrema. Anche per evitare che queste figure mefitiche possano continuare nella loro opera  concreta  e simbolica.
Nella storia non ci sono equivalenze nette, ma solo rassomiglianze che possono provocare quella “tonalità affettiva” adatta alla riflessione.
La seguente pagina di Hannah Arendt tratta da “La banalità del male” e dedicata al processo Eichmann mi sembra adatta:
 

Le proteste, è vero, ebbero breve vita, ma furono numerose e vennero da persone influenti e autorevoli. La tesi più comune era che le colpe di Eichmann erano troppo grandi per poter essere punite dagli uomini, che la pena di morte non era proporzionata a crimini di tali dimensioni: il che naturalmente in un certo senso era vero, sennonché è assurdo sostenere che chi ha ucciso milioni di esseri umani debba per ciò stesso sfuggire alla pena. Tra la gente comune, molti dis­sero che la condanna a morte dimostrava "poca fantasia," e propo­sero, sia pure tardivamente, alternative ingegnose: Eichmann per esempio avrebbe dovuto "trascorrere il resto della sua vita nelle aride distese del Negeb, condannato ai lavori forzati, aiutando col suo su­dore a colonizzare la patria degli ebrei" — una pena a cui probabil­mente non avrebbe resistito più di un giorno, a prescindere dal fatto che il deserto del Negeb non è propriamente una colonia penale; oppure, nello stile di Madison Avenue, Israele avrebbe dovuto innalzarsi ad "altezze sublimi," al di sopra delle considerazioni "razionali, ,giuridiche, politiche e anche umane," convocando tutti coloro che lo avevano catturato, processato e condannato e proclamandoli "eroi del secolo" nel corso di una cerimonia pubblica, con Eichmann presente in catene, facendo riprendere la scena dalla televisione.
Martin Buber defini l'esecuzione un "errore di portata storica," che poteva "liberare dal senso di colpa molti giovani tedeschi" — un argomento che stranamente riecheggiava le idee dello stesso Eich­mann, il quale proprio per quella ragione aveva espresso un giorno il desiderio di essere impiccato in pubblico. (Questo, probabilmente, Buber non lo sapeva, ma è strano comunque che un uomo della sua statura morale e della sua intelligenza non si rendesse conto di quanto spurio fosse quel tanto reclamizzato senso di colpa. Sentirsi colpevoli quando non si è fatto nulla di male: quanta nobiltà d'animo! Ma è assai difficile e certamente deprimente ammettere la colpa e pentirsi. La gioventù tedesca, ad ogni passo della sua vita, è circondata da tutte le parti da uomini che oggi rivestono cariche pubbliche impor­tanti e che sono veramente colpevoli, ma non sentono nulla. Di fronte a questo stato di cose, la reazione normale dovrebbe essere lo sdegno, ma lo sdegno sarebbe molto pericoloso — non un pericolo fisi­co, ma sicuramente un ostacolo per la carriera. I giovani tedeschi — uomini e donne — che ogni tanto, come in occasione della pubbli­cazione del Diario di Anna Frank oppure del processo Eichmann, esplodono in manifestazioni isteriche di senso di colpa, non vacillano sotto il peso del passato, sotto il peso delle colpe dei loro padri; cercano piuttosto di sottrarsi alla pressione dei veri problemi attuali rifugiandosi in un sentimentalismo a buon mercato.) Il professor Buber aggiunse che non sentiva "alcuna pietà" per Eichmann perché aveva pietà soltanto per quelli "di cui nel mio cuore capisco le azio­ni"; e ripetè ciò che aveva detto in Germania molti anni prima, e cioè che "solo formalmente" aveva qualcosa in comune, come uomo, con coloro che avevano partecipato alle gesta del Terzo Reich. Questa alterigia, però, era un lusso che chi doveva giudicare Eichmann non si poteva permettere, perché la legge presuppone appunto che si abbia qualcosa in comune, come uomini, con gli individui che accu­siamo, giudichiamo e condanniamo. A quanto ci consta, Buber fu l'unico filosofo a esprimere pubblicamente un giudizio sull'esecuzione di Eichmann (poco prima che iniziasse il processo, Karl Jaspers ave­va concesso alla radio di Basilea un'intervista, più tardi pubblicata su Der Monat, in cui aveva detto che Eichmann doveva essere giudicato da un tribunale internazionale); e dispiace constatare che proprio lui, persona cosi autorevole, eludesse il vero problema posto da Eichmann e dalle sue azioni.
Le voci che meno si udirono furono quelle di coloro che per principio erano contrari alla pena di morte; eppure le loro idee sareb­bero rimaste valide, poiché non avrebbero avuto bisogno di riadattarle a questo caso particolare. Ma forse si resero conto — giustamente, a nostro avviso — che battersi per Eichmann non avrebbe giovato molto alla loro causa.”

Hannah Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme (1963), Feltrinelli, 1964
 

Per una cronaca di questi avvenimenti del 30 dicembre 2006, rimando a un testo documentale di sir percy blakeney.


Qualche argomentato commento del giorno dopo:

 
Andrea Romano, Una morte giustificabile, La Stampa 31 dicembre 2006
 

 
Beati coloro che sono animati dalla certezza delle proprie opinioni di fronte allo spettacolo di quel cappio. Perché l'esecuzione di Saddam dovrebbe costringerci tutti a un doloroso esercizio del dubbio. Compresi noi europei che veniamo da un lungo periodo di privilegio, da più di sei decenni all'insegna della pace e della democrazia durante i quali non ci è più toccato in sorte di giudicare chi tra noi si fosse reso responsabile del crimine di sterminio. L'ultima volta che ci siamo misurati con il problema lo abbiamo risolto con qualche approssimazione giuridica ma con efficacia, senza poi dovercene pentire più di tanto. «Se sia giusto uccidere un tiranno lo abbiamo chiarito una volta per tutte con la fucilazione di Benito Mussolini»: rispose più o meno così Sandro Pertini, memore del suo antifascismo combattente, a chi gli chiedeva nel 1986 cosa pensasse del fallito attentato a Pinochet. Augusto Pinochet è poi spirato serenamente nel suo letto, come era già capitato a Pol Pot e ancora prima a Stalin.
Lo stesso sarebbe accaduto a Saddam, tra venti o trent'anni, se la pena capitale fosse stata commutata nel carcere a vita. Sarebbe stato meglio per l'Iraq di questi giorni? Probabilmente sì, come ci dicono le vittime dei primi attentati già organizzati in rappresaglia. E viene da pensare che ancor meglio sarebbe stato se Saddam fosse stato ucciso nel buco in cui era stato catturato, risparmiandoci le certezze o i dubbi di queste ore. Ma sarebbe un cedimento alla pigrizia. Perché la sua esecuzione fa orrore alla nostra civiltà giuridica tanto quanto ci obbliga a metterci nei panni di un iracheno: uno qualunque tra i milioni che ieri hanno festeggiato, in piazza o nelle proprie case, per la giustizia che finalmente veniva resa alla memoria di un familiare o di un amico assassinato da una delle dittature più sanguinarie del ventesimo secolo. È stata una giustizia piena di falle e di crepe, gestita da un tribunale di vincitori che ancora non possono ritenersi tali. Soprattutto, è mancato il vero processo internazionale che avrebbe potuto far luce sui trent'anni del suo potere, sulle connivenze di cui ha goduto anche in Occidente così come sulla vera dimensione dei suoi crimini. Paradossalmente Saddam è arrivato al patibolo per uno dei suoi stermini minori, per poche decine di civili uccisi sulle centinaia di migliaia di cui si è reso responsabile. E da oggi c'è chi potrà dire che il dittatore è stato fatto tacere perché non rivelasse niente dei suoi passati rapporti con la Casa Bianca, così come si diceva che Mussolini era stato fucilato su ordine dei britannici per evitare imbarazzi a Churchill.
Tutto vero, è stata una giustizia fragile e parziale. Ma è stata la giustizia degli iracheni, di un popolo che non finisce di essere vittima dei propri carnefici, dei catastrofici errori di Bush e del pilatesco disinteresse della maggior parte dei paesi europei. Nel mare di sangue da cui è attraversato ogni giorno, quella di Saddam è l'unica morte giustificabile sulla strada di una speranza possibile per l'Iraq. Una tragedia come ogni volta che un uomo muore per mano di un altro uomo, ma forse l'inizio di una svolta per un paese che può iniziare a ritrovarsi intorno all'esecuzione del primo responsabile della sua rovina. Una piccola dose di rispetto verso la sventura irachena dovrebbe spingerci a domandarci se non sia il caso di abbassare almeno un po' il ditino con il quale condanniamo quella forca. Uno spettacolo penoso, ma anche un messaggio per gli altri sanguinari rais rimasti nel mondo. Che forse per qualche giorno andranno a dormire massaggiandosi il collo.

 

Una lezione esemplare di Fiamma Nirenstein

 

La vista di Saddam Hussein col cappio al collo, l'ultima paura, quella che non potrà mai essere narrata, negli occhi quando il boia gli spiega la procedura che lo attende, è estrema per l'occhio occidentale; guardarla sullo schermo televisivo, oltre alla sensazione di assistere a un evento storico ci ha dato anche il sospetto non peregrino che la maggioranza di noi occidentali spiasse l'attimo privato della dipartita di un uomo, oltre che di un dittatore. Lo spettacolo dell'esecuzione pubblica ormai è fortunatamente in disuso presso tutti i popoli occidentali, presso quasi tutti è stata eliminata la pena di morte, e questo per ottimi e profondi motivi. Con questo, vogliamo anche affermare che di sicuro, chiunque obbietti all'esecuzione della condanna dal punto di vista della sacralità della vita per motivi di etica religiosa o laica, non può che avere ragione. Eppure questo non ci esime, a meno che non ci si consideri in prima persona ambasciatori del Cielo, dall'osservazione del Medio Oriente e di come l’esecuzione di Saddam Hussein interagisce con le sue dinamiche.
Cercando di schematizzare al massimo, quattro ci sembrano i punti essenziali.
Il primo: Nuri el Maliki, il primo ministro iracheno, ha detto una profonda verità quando ha affermato che la condanna di Saddam costituisce una «forte lezione» ai suoi colleghi e ai suoi seguaci, e ha ragione anche quando dice che non bisogna mancare di rispetto alle centinaia di migliaia di vittime della sua dittatura discutendo la scelta del tribunale. Tradotto in politica, è la prima volta che un dittatore arabo ritenuto intoccabile, grondante sangue violenza e guerre, ha subìto una condanna eseguita da un tribunale regolare, quali che possano essere stati i limiti nell'applicazione della legge, così fresca e esercitata in clima controverso. Tuttavia, avvocati, giudici, guardie, emanazione della novella democrazia che gli iracheni hanno dimostrato disperatamente in mezzo agli attentati di volere,  hanno pagato anche con la vita per aver voluto sottoporre alla giustizia pubblica il loro dittatore. Il mondo mediorientale che guarda, adesso sa che fino in fondo, senza scherzi e senza trucchi, un dittatore che uccide, minaccia, taglieggia, trascina il suo popolo in una continua aggressione verso l'esterno, può anche pagare con la vita. Si può essere certi che durante la giornata di ieri parecchi brividi sono corsi lungo le schiene di rais che comunque, anche se la guerra in Irak è stata tanto vituperata, dai tempi dell'intervento americano discutono la democrazia; fra loro alcuni intraprendono riforme (come Mubarak) altri si avventurano in proposte di pace (molto meno credibile, Bashar Assad di Siria). Altri, come Ahmadinejad e i leader di Hamas e degli Hezbollah, preparano una guerra dura. Ma tutti adesso sanno che non si scherza.Bisogna figurarsi cosa sarebbe accaduto se Saddam fosse stato graziato, o la sua pena fosse stata commutata, ambedue peraltro soluzioni molto difficili a norma della legge irachena: il mondo arabo avrebbe visto in questo un segnale di enorme, ridicola debolezza sia della già molto provata democrazia irachena, che dell'idea della democrazia stessa in Medio Oriente (che pure deve essere riletta correggendo gli errori e le ingenuità dell'Occidente), come anche dei regimi islamici moderati, degli Usa e dell'Occidente in generale. Le risate di scherno avrebbero dato forza a un'ulteriore spallata terroristica contro queste entità.
 

In secondo luogo: molti temono adesso una recrudescenza del terrorismo. Non è escluso, naturalmente. Non che i rischi di crescita del terrorismo, tuttavia, adesso fossero trascurabili. Rischi impellenti, come quello di un ulteriore impegno iraniano, e rischi straordinari. Per esempio mi dice uno fra i più autorevoli osservatori del Medio Oriente, Uri Lubrani, israeliano di origine iraniana, capo di un prestigioso quanto segreto ufficio al ministero degli Esteri, che non è mai sparita la preoccupazione che Saddam potesse trovare una via di fuga fra le rovine del terremoto iraniano,  negli scontri fra sciiti e sunniti. «Era una possibilità verificata come reale, e la temevamo più di ogni altra - ci dice Lubrani -: Saddam non si trovava a Sant'Elena».
In quel caso il bagno di sangue non avrebbe avuto confini: Saddam avrebbe allora rimesso in funzione la più pericolosa fra le sue macchine di potere, ovvero l'ambizione che lo aveva portato a perseguire la bomba atomica, a lanciare 35 missili contro Israele durante la prima guerra del Golfo, a armarsi di armi chimiche e biologiche verificate dalle missioni dell'Onu in fasi successive, a invadere il Kuwait, a minacciare l'Arabia Saudita, a fare una guerra con milioni di morti contro l'Iran, a gasare i curdi nell'88, a ordinare stragi continue e immani di sciiti, a pagare 25mila dollari alla famiglia di ogni terrorista suicida palestinese che portasse sangue ebraico come trofeo, a fare di Bagdad un centro del terrore mondiale. Non bisogna nella pietà, che pure ha tutti i diritti di esprimersi, dimenticare chi fosse Saddam: uno dei personaggi che porta la responsabilità dello stato pietoso del Medio Oriente odierno. La sua scomparsa può, sì, senz'altro creare un periodo di ulteriore terrore; eppure dobbiamo deciderci a smontare l'idea che l'aggressività sia causata prevalentemente dai nostri errori, da quelli americani o israeliani, e a identificare nella enorme insorgenza jihadista del nostro tempo il vero responsabile.
Terzo punto: il regime iraniano ha rilasciato una delle poche dichiarazioni di soddisfazione per l'esecuzione. Non ci si poteva aspettare niente di diverso, dal tempo della guerra Iran-Irak, sanguinosa e orrenda, ogni iraniano odia con sentimento personale il dittatore iracheno. Tuttavia, le ragioni della gioia di Ahmadinejad in prospettiva sono alquanto conturbanti: il presidente iraniano infatti ha già fatto del suo meglio, e con successo, per giuocare il ruolo del grande agitatore contro la democrazia irachena con esportazione di armi e uomini, ha spinto la parte sciita sul fronte antiamericano e antioccidentale come parte del suo disegno egemonico.
Di certo vede la scomparsa di Saddam dalla scena come un ulteriore spazio per la sua strategia. Questo ci mostra come nel Medio Oriente tutto si leghi ormai in un nodo gordiano. L'Iran, se non sapremo finalmente comunicare a Ahmadinejad che non gode di impunità, può diventare il beneficiario di una mossa che dovrebbe creare più spazio per la giustizia. Se la morte di un uomo è sempre una tragedia, che almeno quella di un dittatore sia un segno di giustizia.


 
L’Italia unita per la vita di Saddam
di Magdi Allam, Il Corriere della sera 29 dicembre 2006

 
 
Nell’Italia dove è difficile mettersi d’accordo in seno all’eterogenea compagine governativa e impossibile concordare alcunché di significativo tra maggioranza e opposizione, dobbiamo ringraziare Saddam perché ci ha offerto una rara opportunità, visto che i mondiali di calcio saranno tra 4 anni, di rinsaldare l’unità nazionale.
Non si era mai visto un fronte così ampio e compatto di italiani a difesa della sacralità della vita di Saddam. Registrando oltretutto una singolare intesa tra l’insieme della classe politica e la Conferenza episcopale italiana che ha dello storico in questi tempi di relativismo e nichilismo etico. Verrebbe da dire che non poteva che essere così nella culla del cattolicesimo. Che non avremmo potuto assumere l’atteggiamento pilatesco dei laicisti francesi, dei belligeranti britannici e degli altalenanti tedeschi che si sono tirati fuori, sostenendo che la condanna a morte di Saddam «è una decisione che spetta alle autorità sovrane dell’Iraq». Meno che mai avremmo potuto aderire all’approvazione degli americani, che alle esecuzioni capitali ci credono e le praticano, definendola «un’importante pietra miliare». Così come non potremmo che deprecare l’esultanza degli iracheni, degli iraniani e dei kuwaitiani, ossia dei sopravvissuti alle stragi e alle efferatezze compiute da Saddam.
Ma è proprio così? Siamo veramente una nazione a tal punto virtuosa da sostenere, unici al mondo, il valore supremo della sacralità della vita costi quel che costi? Se così fosse, come mai—restando in ambito iracheno— agli italiani non è venuto in mente di fare un gesto simbolico, fosse anche saltare la prima colazione o accendere un lumicino sul proprio davanzale, per protestare contro le decine di civili innocenti che ogni giorno vengono massacrati dai terroristi di Bin Laden, di Saddam, dell’Iran o della Siria? E guardate che sono vittime preannunciate, con condanne a morte decise dai tribunali dei burattinai del terrore, eseguite puntualmente tutte le mattine tra le sette e mezzogiorno, cioè nelle ore di maggior affollamento. Perché dunque solo per Saddam si inscena lo sciopero della sete e si vorrebbe illuminare il Colosseo?
Se così fosse, come mai — passando in ambito internazionale — non si è finora assistito a questo straordinario esempio di attaccamento al valore supremo della sacralità della vita quando a violarlo è il regime libico, che massacra gli oppositori e sta per giustiziare delle infermiere bulgare e un medico palestinese innocenti, o il regime saudita o quello iraniano che regolarmente danno in pasto alla loro gente lo spettacolo pubblico della decapitazione o impiccagione dei trasgressori della morale islamica? E, per par condicio, come mai la sensibilità collettiva degli italiani non scatta quando al patibolo ci vanno i cinesi, gli americani o i giapponesi? Dovremmo forse concludere che il nostro attaccamento al valore della vita è una variabile dipendente dalla considerazione del nostro interesse economico?
Se così fosse, come mai — passando in ambito strettamente etico — il valore supremo della sacralità della vita dovrebbe valere nel caso di Saddam, mentre viene violato nel caso di Piergiorgio Welby? Come è possibile che coloro che hanno immaginato che l’esistenza di una persona più che vitale potesse essere sacrificata per accreditare il diritto all’eutanasia, siano gli stessi che ora difendono il diritto alla vita di un tiranno che per 35 anni ha esercitato l’eutanasia forzata nei confronti di un milione di iracheni?
Ebbene la straordinaria eccitazione degli italiani per salvare la vita di Saddam, è una inequivocabile testimonianza del fatto che siamo prigionieri di una concezione decontestualizzata del diritto e formalistica dell’etica. Ma, evidentemente, in questi tempi bui non si può sottilizzare. Ben venga, dunque, se serve a mobilitare l’insieme dell’Italia.
 
Magdi Allam
29 dicembre 2006

 

Paul Berman, : «Ciechi di fronte al fascismo iracheno» Dal CORRIERE della SERA del 4/1/2007,

L'impiccagione di Saddam a Bagdad si è rivelata un avvenimento doppiamente scandaloso, innanzitutto per la scena in se stessa, e successivamente per la reazione innescata nell'opinione pubblica occidentale, in particolare in Italia. Per affrettare l'esecuzione, il primo ministro Nuri Kemal al-Maliki ha aggirato una legge che richiedeva l'approvazione di altri due leader politici, e un'altra ancora che prescriveva di attendere che fosse trascorsa una festività sunnita: in poche parole, aggirando la legalità stessa.
Si è venuto a sapere inoltre che i boia, che hanno insultato il condannato a morte, erano membri della milizia di Moqtada al Sadr, da diverso tempo a capo degli squadroni della morte che massacrano i sunniti, per vendicare i massacri messi a segno dai sunniti nei quartieri sciiti. Di conseguenza l'esecuzione di Saddam si è rivelata odiosa sotto ogni punto di vista. E' stata una condanna a morte eseguita da uno Stato fallimentare o sull'orlo del baratro, uno Stato che non è riuscito neppure ad arrogarsi il monopolio della violenza, come dimostra il ruolo svolto dalle milizie di al Sadr. La violenza di piazza è sempre squallida e ripugnante, ma la violenza di piazza che si fregia del nome di Stato democratico è ancora peggiore.
Eppure, la reazione avvenuta in altre parti del mondo è anch'essa spaventosa. In Europa occidentale, e non solo qui, l'opposizione alla pena di morte — alla pena in se stessa, non al metodo di esecuzione — è diventata uno strano feticcio. Anziché contribuire alla formazione di una coscienza morale, l'opposizione alla pena di morte è diventata un ostacolo allo sviluppo della coscienza morale. L'indignazione per la morte ingiusta di un singolo individuo è riuscita a bloccare l'indignazione davanti alla morte di migliaia di esseri umani anonimi. La dittatura baathista in Iraq, tra le più sanguinose della storia moderna, prese inizio con impiccagioni di massa a Bagdad nel 1969, soprattutto di ebrei iracheni, accusati di essere agenti sionisti. Il successivo sterminio dei Curdi nel 1988 si lasciò dietro 180.000 morti. Sepolture di massa vengono alla luce regolarmente. Si parla di 300.000 iracheni scomparsi, e a questi si aggiungono i morti iraniani causati dalla guerra scatenata da Saddam contro l'Iran, i morti kuwaitiani, il sostegno agli attentatori suicidi in Palestina e gli attacchi missilistici contro Israele nel 1991. E che tipo di reazione hanno scatenato questi innumerevoli crimini a livello mondiale?
Le più grandi manifestazioni nella storia mondiale si sono svolte nel febbraio del 2003, non per denunciare questa mostruosa tirannide, bensì per impedire che questa mostruosa tirannide venisse rovesciata. Oggi assistiamo a un nuovo fremito di orrore, ma non per i combattimenti e i massacri tuttora perpetrati dal partito Ba'ath di Saddam e dalle varie organizzazioni che gli sono succedute in Iraq, bensì per la messa a morte del tiranno. I più nobili sentimenti di altissima moralità sono suscitati dalla figura di un dittatore sanguinario: questo fenomeno non è nuovo nella storia moderna, ma oggi ne abbiamo sotto gli occhi una nuova e straordinaria versione. E non è difficile capire quanto sia costata all'Occidente tanta indignazione contro gli oppositori di Saddam. Perché, infatti, il nuovo stato democratico in Iraq si è dimostrato così traballante e inaffidabile? Non è forse perché gli iracheni che lottavano contro Saddam non hanno mai ricevuto un sostegno adeguato, né dagli Stati Uniti, né da nessun altro nel resto del mondo? Lo Stato iracheno è caduto nelle mani delle milizie assassine perché la coalizione internazionale non ha mai saputo assicurare al popolo iracheno la sicurezza di cui aveva così disperatamente bisogno. Ed ecco il risultato, in questa esecuzione infamante.
Tuttavia la reazione più strana e agghiacciante è certamente quella dell'Italia, e questo perché il fascismo italiano è tornato nuovamente in discussione durante tutto il processo a Saddam. E' vero che il partito baathista si richiama piuttosto al nazismo e allo stalinismo che non a Mussolini, sotto il profilo ideologico.
(L'ispiratore di Saddam nel Ba'ath, Michel Aflaq, era il traduttore arabo di Alfred Rosenberg, il teorico del nazismo). Eppure, anche Mussolini ha ispirato il Ba'ath. Il processo a Saddam ha preso avvio sul finire del 2005 e quando il primo testimone è stato introdotto davanti alla corte, il 6 dicembre del 2005, Saddam si è messo a urlare: «Io sono Saddam Hussein! Come ha fatto Mussolini, bisogna resistere all'occupazione fino alla fine, questo è Saddam Hussein!» Il processo è terminato sullo stesso tono. Il 5 novembre 2006, Saddam è stato condannato all'impiccagione e il primo ministro al-Maliki è apparso in televisione, per rivolgersi al popolo iracheno con queste parole: «L'era di Saddam Hussein da oggi appartiene al passato, come l'era di Hitler e Mussolini».
Mussolini all'inizio e alla fine del processo: che cosa ci rivela tutto questo? Dovrebbe rivelarci che in Iraq la gente, come Saddam e il primo ministro al-Maliki, sa benissimo di avere a che fare con tragedie e orrori che non sono esclusivi alla loro nazione, e con un movimento che ha preso origine e nome in Italia: il fascismo. Ma il fascismo iracheno non ha mai suscitato indignazione nel resto del mondo. Solo gli errori e l'incompetenza dell'antifascismo in Iraq hanno sollevato sdegno a livello mondiale.
Le vergognose immagini dell'impiccagione di Saddam devono farci rabbrividire dall'orrore davanti a uno Stato incapace, davanti alla violenza di piazza e davanti a quello che potrebbe davvero trasformarsi nel fallimento finale dell'intervento contro Saddam. Ma le scene d'indignazione che hanno accolto l'esecuzione di Saddam dovrebbero anche farci rabbrividire dall'orrore davanti all'incapacità della nostra società di riconoscere i movimenti fascisti per quello che sono realmente, davanti alla moderna cecità per il crimine del genocidio. Quali fattori hanno consentito al fascismo e al genocidio di dominare la storia moderna nel secolo passato? Oggi stesso vediamo uno di questi fattori in azione: provare indignazione per reati minori e restare ciechi davanti a reati maggiori, mentre ci si congratula per la propria superiorità morale. Queste persone credono di avere la «coscienza a posto», ma in realtà si tratta di una «coscienza falsa».

PS Qualche commento anche qui

 


giovedì, 21 dicembre 2006

Situazioni estreme e diritto di morire: Piergiorgio Welby è morto

IND-CULT-SOC"Welby ha chiesto di poter rinunciare alle cure cui era sottoposto. E ieri, intorno alle 23, il medico anestesista Mario Riccio ha praticato la sedazione e interrotto la ventilazione artificiale".
L'annuncio è stato dato nella conferenza stampa dei radicali in corso, dove l'on. Bonino ha ricordato "il senso della legalità, del diritto e delle istituzioni di Piergiorgio Welby".
Ora il dottor Riccio rischia di essere accusato per "omicidio del consenziente" (dai 6 ai 15 anni di reclusione).
La cosiddetta casa della libertà, spalleggiata dai cattolici dell'ulivo  invoca per lui la forca.

E' l'epilogo di una vicenda che si stava rivelando mostruosa.
Piergiorgio Welby ha aggiunto un ulteriore dramma al dramma della sua vita già così sfortunata.
Ha voluto trasferire nella sfera pubblica la sua personale e privata vicenda umana.
E ciò gli ha portato solo del male. Dell'infernale male.
Probabilmente, fuori dai riflettori della invadente opinione pubblica e nell'ambito della relazione medico-paziente, avrebbe potuto con dolcezza, accanto alla moglie e attorniato da un segmento di società attento alla sua persona, uscire dallo scafandro rigido ed immobile che era il suo corpo da lui non più desiderato.
Invece attorno a lui, sopra di lui, si è scatenato un vero e proprio sabba delle streghe che questo pomeriggio documenterò mettendo in fila, in ordine quasi cronologico, parole, frasi, opinioni, decisioni che di tutto hanno tenuto conto tranne che della sua soggettiva volontà espressa in piena coscienza, con lucidità e da molto tempo (Piergiorgio Welby, Lasciatemi morire, Rizzoli, 2006).
Abbiate pazienza, costruirò lentamente questa pagina di diario, anche per pesare attentamente  l'estremo disprezzo che alcuni protagonisti della scena sociale e politica e le nostre istituzioni (talvolta, non sempre) riservano alla singola PERSONA, nel nome dello STATO e di "DIO".
Dicevo nel  precedente scritto di diario: "Troppe figure si agitano attorno a quel letto: medici, religiosi, politici. In quella specie di quadro che è il capezzale bisognerebbe prestare più umana attenzione alla moglie, a quella donna minuta che gli accarezza le mani, con le lacrime ormai consumate".
Ecco, parto da qui. Mi immagino ad osservare ed ascoltare questo capezzale circondato da vocianti ruoli.
 

 

 

Magistrato 1:”Risulta ormai acquisito alla cultura giuridica il principio secondo cui l'intervento medico è legittimato dal consenso valido e consapevole espresso dal paziente, in forza degli articoli 13 e 32 della Costituzione, che tutelano non solo il diritto alla salute, ma anche il diritto di autodeterminarsi, lasciando a ciascuno il potere di scegliere autonomamente se effettuare, o meno, un determinato trattamento sanitario … II distacco del respiratore senza sedazione violerebbe il rispetto del principio costituzionale della dignità della per­sona … Il ricorso, invece, non è ammissibile, per quanto riguarda la possibili­tà di ordinare ai medici di non ri­pristinare la terapia, perché si tratta di una scelta discrezionale, anche se tecnicamente vincola­ta …Il limite è nell'articolo 37 del codice deontologico: quando non c’è possibilità di guarigione, preve­de la norma, il medico deve limi­tare la sua opera all'assistenza mo­rale e alla terapia atta a risparmia­re inutili sofferenze, fornendo al malato i trattamenti appropriati (Procura della Repubblica su istanza di Piergiorgio Welby di poter interrompere la terapia con una dose di sedativi)
 

Religioso 1: Mi viene da dire che se qualcuno esprime il desiderio di affrettare la fine della   propria  pena, non   è peccato. Anzi, può essere anche un desiderio sano. Però... c'è un principio a cui non possiamo sfuggire. La vita è un dono, è sacra, è intangibile. Lo riconoscono praticamente tutti, non solo i credenti, anche non credenti come Kant … Io Welby lo capisco, ma prima di agire bisogna pen­sarci dieci vol­te. Potrei esse­re tormentato per sempre, pensando di essere stato io a togliergli la vita (Cardinale Ersilio Tonini)

 

Filosofo 1: Io capisco e rispetto ciò che dice Welby. Il suo è un caso particolare reso possibile dalla prepotenza scientistica e tecnologica, dal dramma del rapporto uomo - tecnica … qui il pro­blema è: posso io vivere ostaggio di una macchi­na? Ha senso? Dio mi chiede questo? No, non ho dubbi: Dio non chiede questo …  Se una persona, credente o meno, vuole rinviare la propria morte indefinitamente va bene, ci mancherebbe, è una sua scelta. Però nessuno, magari in nome di Dio, può dire a un altro: te lo impongo. Ciascuno, se lucido, ha il diritto di deci­dere. E un cristiano può affermare: il buon Dio non mi ha detto che devo vivere attaccato a una macchina, ma di vivere finché la physis, la natura che ti ho dato lo permette (Giovanni Reale)

 

Medico 1: Dobbia­mo paragona­re la macchi­na che lo tie­ne in vita alla chemioterapia che si pre­scrive ai pazienti oncolo­gici. Nei casi in cui la cura dia troppi effetti collaterali si sceglie di interrompe­re pur sapendo che la persona potrebbe morire prima del previsto … E’ la medicina che chiede queste scelte. Ogni giorno questo viene fatto nel chiuso delle camere degli ospedali e nelle case private dei pazienti. In silenzio, lontano dai riflettori. Sono decisioni che ci tormentano, spesso le condividiamo con i parenti. Sempre secondo scienza e coscienza (Roberto Santi) – medico dirigente della Asl 4 di Chiavari)

Giurista 1: II diritto al rifiuto di cure é entrato nella  Carta dei diritti del­l'Unione Europea. Ed è già ac­caduto che la  Cassazione lo  abbia riconosciuto ai testimoni di Geova che oggi possono rifiu­tare la trasfusione    Ci sono persone che hanno rifiutato cure per l'amputazione di un arto; persone che pur di  non vivere menomate hanno preferito morire. Il diritto di morire appartiene giuridicamente ad ognuno di noi.  ….  Se io vengo trattenuto in vita da una cura farmacologica e da un dato momento in poi decido di in­terromperla, non possiamo certo parlare di eutanasia. Allo stesso modo, staccare la spina è una delle forme del rifiuto di cura. Oggi la tecnologia offre possibilità di sopravvivenza nuove, dando così nuove possi­bilità ai pazienti. Qui non c'è eutanasia. L'eutanasia prevede un intervento attivo, non basta sospendere la cura. Se io sopravvivo non per eletto di farmaci o di macchine, ma sono ugualmente in una condizione di sofferenza e chiedo che mi venga dato qualcosa che mi faccia morire; solo in quel caso possiamo parlare di eutanasia e di suicido assistito (Stefano Rodotà, già garante della privacy e docente di diritto privato).
 

Filosofa 2:  Welby chiede di poter essere staccato da ventilatore che lo tiene in vita. Ma la ventilazione automatica è un tipo di cura ordinaria, non straordinaria e dunque non si configura come accanimento. Quindi accettare la sua richiesta significherebbe aprire la strada all'introduzione dell'eutanasia in Italia (Marianna Gensabella, filosofa cattolica)

Giurista 2:  A decidere di un eventuale trattamento sanitario di fine vita non può essere una legge, nè gli individui coinvolti. Occorre l'intervento di un terzo soggetto, giudice o comitato etico che sia, che dovrà valutare caso per caso, chiedendosi se c'è equilibrio fra i mezzi utilizzati  e le aspettative di vita di quel paziente (Salvatore Amato, giurista cattolico)

Politico 1: Secondo me si sta strumentalizzando un po' troppo il dolore di Welby. Chi lo utilizza come bandiera dovrebbe pensarci molte volte. Comunque io sono per il no all'accanimento terapeutico e il no all'eutanasia: io non voterò mai una legge sull'eutanasia (Rosi Bindi, partito della Margherita, Ministro per le politiche della famiglia

Politico 2: Siamo determinati a rispettare la volontà di Welby e non aspetteremo i tempi burocratici: lo aiuteremo a fare ciò che ha diritto di fare (Marco Cappato, parlamantare europeo del Partito Radicale)

 

 

Medico 2: Chi conosce davvero la soffe­renza sa che è un gesto nobile, di­rei quasi eroico, quello di offrire ai riflettori il proprio crudo dolo­re fisico e psichico. Per questo io ammiro Welby e da mesi appog­gio la sua battaglia con commo­zione e con gratitudine, ma den­tro di me penso che sia profon­damente ingiusto che sia lui a doverla combattere. Credo che il principio dell'eutanasia rappre­senti il diritto di morire. Dunque è parte del corpus dei diritti indi­viduali pienamente riconosciuti dalla civiltà moderna : non è né di destra né di sinistra e non può essere una scelta isolata dei medi­ci o dei giudici o dei politici del momento (Umberto Veronesi)

 

 

Magistrato 2: II diritto di richiedere la interruzione della respirazione assistita, previa somministrazione della sedazione terminale, deve ritenersi sussistente ma trattasi di un diritto non concretamente tutelato dall'ordinamento. In assenza della previsione normativa e degli elementi concreti di natura fattuale e scientifica di una delimitazione giuridica di ciò che va considerato accanimento terapeutico va esclusa la sussistenza di una forma di tutela tipica dell'azione da fer valere. E ciò comporta di conseguenza la inammissibilità dell'azione cautelare … Solo la determinazione politica e legislativa, facendosi carico di interpretare l'accresciuta sensibilità sociale e culturale verso le problematiche relative alla cura dei malati terminali di dare risposte alla solitudine e alla disperazione dei malati di fronte alle richieste disattese, ai disagi degli operatori sanitari e alle istanze di fare chiarezze nel definire concetti e comportamenti, può colmare il vuoto di disciplina anche sulla base di solidi e condivisi presupposti scientifici che consentano di prevenire abusi e discriminazioni. Allo stesso modo in cui intervenne il legislatore nel definire la morte cerebrale (Angela Salvio,  Giudice. Tribunale di Roma)

Politico 3:  Ho chiesto al Consiglio Superiore di Sanità di chiarire con un suo parere se i trattamenti cui è sottoposto possano definirsi accanimento terapeutico e ho istituito presso il Ministero una Commissione per definire entro la prossima primavera un Piano Nazionale per le cure palliative e per assicurare procedure e linee guida affinchè le migliaia di cittadini nelle condizioni di Welby, o comunque costretti a convivere per anni con la loro malattia abbiano a disposizione i supporti sanitari e assistenziali idonei. Come persona ho già espresso il mio no, un no discreto, personale, di coscienza, all'eutanasia (Livia Turco, Ministro della Salute)
 

 

 

Giurista 1: E' sconcertante, ai limiti della denegata giustizia, la decisione con la quale il Tribunale di Roma ha respinto la richiesta di Piergiorgio Welby di poter morire con dignità. La palla è stata rilanciata nel campo della politica. Ma i tempi della politica non sono quelli della vita ... Se l'ordinanza avesse ripercorso correttamente l'itinerario costituzionale, sarebbero stati evitati errori e sgrammaticature. L'articolo 32 fornisce una linea nitida: la salute è diritto fondamentale dell'individuo, non possono essere imposti trattamenti sanitari se non per legge e mai la legge può violare i limiti imposti dal rispetto per la persona umana. Poichè per salute deve intendersi il "benessere fisico, psichico e sociale, questo vuol dire che il governo dell'intera vita è fondato sulle libere decisioni degli interessati. Poiché nessuno può essere obbligato ad un trattamento sanitario, l’argomentazione dell’ordinanza deve essere rovesciata: la mancanza di una legge rende illegittimo il trattamento, non la richiesta di interromperlo. Poiché nulla può esser fatto che violi la dignità, "il rispetto della persona umana", questo vuol dire, soprattutto in situazioni estreme e drammatiche, che nessuno può imporre la prigionia della sofferenza. (Stefano Rodotà, già garante della privacy e docente di diritto privato). [l'intero intervento di Rodotà è qui]


Politico 3: A proposito delle veglie che si sono svolte in 50 città italiane ed europee, alcuni giornali cattolici, a dire il vero molto sguaiati ed irrispettosi della sofferenza degli esseri umani, hanno titolato "la veglia degli assassini". Io ripeto che la condanna alla tortura e la vita dei cittadini non appartengono allo stato. La vita di Welby non è di proprietà nè dello stato nè del governo ma appartiene a Piergiorgio Welby. La verità è che lui è destinato a morire in poco tempo. Il problema è se vogliamo che muoia soffocato tra sofferenze inenarrabili o se muoia sedato e con un po' di serenità ... Welby non c'entra nulla con l'eutanasia: ma chi vuole aiutarlo ad interrompere la sua sofferenza disumana di venta soggetto del codice penale, grazie ad una norma che risale alla legislazione fascista (Emma Bonino, ministro per le politiche comunitarie, Partito radicale)

Politico 3: Questo caso è stato montato [sic!!! amalteo] da una persona cosciente, i grande intelligenza, che ha fatto una dichiarazione importante dal punto di vista bioetico, non da una persona che non può decidere   [fra poco l'on Buttiglione dirà l'esatto contrario. amalteo]  ... una volta era un familiare stretto a prendersi cura del malato (Paola Binetti, senatrice del Partito della Margherita]

Politico 4: In materia di testamento biologico sono assolutamente contrario al testo che arriva a proporre di interrrompere anche il sostegno minimo alla vita. Bisogna fare attenzione a non aprire quella porta ... Si può chiedere di evitare terapie straordinarie ma non possiamo accettare che una persona abbia la facoltà di essere ucciso o lasciato morire di sete e di fame ... Chi chiede di essere ucciso è in depressione profonda e va aiutato [sic !!!  per costui Welby no ha il diritto di esprimere la propria volontà perchè "è depresso" !!] (Rocco Buttiglione, presidente dell Udc)

 

Medico 3: Secondo la reli­gione cattolica la vita non ci appartiene, ci è stata donata da dio e non ne possia­mo disporre. Cosa inaccettabile per chi in dio non crede e ritiene di essere padro­ne della propria esistenza. Siamo dun­que a uno stallo, determinato dal fatto che ancora una volta si cerca di stabilire regole religiose per un principio che in un paese laico dovrebbe rispettare le de­cisioni individuali. Siamo di fronte alla contrapposizione di differenti ideologie ed è assurdo affrontare la questione cer­cando di stabilire maggioranze e mino­ranze: su questi temi deve prevalere il ri­spetto della laicità e debbono essere tro­vate soluzioni che tengano ugualmente conto dei principi etici di tutti i cittadini. E' comunque ora di affrontare il problema dell’eutanasia, senza lasciarsi fuor­viare da false prospettive e da soluzioni ipocrite. Ad esempio, il fatto che si cerchi di predisporre nel paese centri di cure palliative e di terapie anti-dolore è impor­tante, è civile, ma non modifica per nien­te la necessità di approvare una legge che stabilisca norme precise per l'eutana­sia. Cure palliative e terapia del dolore, in­fatti non hanno a che fare con la dignità delle persone ed è proprio la sensazione di perdere questa dignità che persuade molti a chiedere di essere aiutati ad andarsene, possibilmente in modo quieto e indolore (Carlo Flamigni, medico)
 

Coro di medici prestati alla politica: Abbiamo deciso che la ventilazione meccanica non è accanimento terapeutico perchè Welby, che è in una situazione clinica devastata ma stabile, è un uomo lucido, in grado di intendere, ha grande intelligenza e capacità di vita e proposta. Inoltre non c'è una situazione di morte incombente, cioè un quadro clinico che lasci presagire che a breve termine possa morire (Cuccurullo, a nome del Consiglio Superiore di Sanità)

Con quest'ultima "sentenza", che avrebbe condannato Welby a restare prigioniero nel suo scafandro di carne devastata per ancora qualche mese, siamo arrivati alla generosa e rischiosa azione dell'anestesista dott. Mario Riccio.
Si sta levando il coro dei linciatori.
Questa sarà una sera in cui la televisione mostrerà i volti del peggio di questo paese prigioniero di ideologie che sono contro i diritti individuali.
Sono politicamente grato ai radicali che hanno accompagnato Piergiorgio e sua moglie in questa vicenda esistenziale.
Infine c'è una coda al sabba del capezzale.

Religioso 2:
Non si possono concedere le  esequie religiose perché,a differenza dei casi di suicidio nei quali si presume la mancanza delle condizioni di piena avvertenza e deliberato consenso, era nota, in quanto ripetutamente e pubblicamente affermata, la volontà del Dr.Welby di porre fine alla propria vita, ciò che contrasta con la dottrina cattolica ... Non vengono meno la preghiera per l'eterna salvezza del defunto e la partecipazione al dolore dei congiunti (portavoce del vicariato della diocesi di Roma)

 
Il giorno dopo
 
Fra i commenti del giorno dopo è necessario e importante salvare una pagina di Giuliano Ferrara.
Un atteggiamento complesso, articolato in tre passaggi argomentativi di grande forza intellettuale:
"Sogno una morte diversa da quella di Piergiorgio Welby. Preferirei di no ..."; "Tuttavia capisco il bisogno di re­quie, capisco il requiem laico di Welby ..."; "Tuttavia considererei una sciagura un processo nato dal caso Welby, e idiota il grido di "assassino" indirizza­to a coloro che hanno realizzato la sua volontà"

 
Requiem laico: una spina staccata
di Giuliano Ferrara, Il Foglio 22 dicembre 2006

Sogno una morte diversa da quella di Piergiorgio Welby. Preferirei di no. Preferirei la fine del cugino Mi­chele, una casa di provincia linda co­me non è mai stata, una stanza da let­to che sembra un sacrario di spec­chiere e madie senza un grammo di polvere, le visite dei parenti e degli amici che sono accolti nel tinello dal­le donne di famiglia e dai bambini, poi introdotti discretamente dal ma­lato semicosciente che subisce le lo­ro carezze, un viso sofferente e rasse­gnato sfiorato dall'amore al cospetto di lenzuola bianche come la luce del mattino d'estate, i cateteri nascosti con pudore, e forse anche la foto del Papa, forse anche un frate pieno di bonomia che mi sfruculia e mi dice che sono sulla via del ritorno.
Il mio è un sogno laico, non credente, di chi non accetta la banalizzazione della vita anche attraverso la serializzazio­ne della morte come sfida analgesica al significato del dolore. Ed è anche un sogno a cui non posso dire di sa­per corrispondere, quando la realtà si metterà ad inseguirlo. Penso anche che una società in cui si muore così come il cugino Michele ha un rappor­to più stretto e fiducioso con la verità, qualunque essa sia, massima delle verità essendo quella che io agisco da uomo libero ma non sono il mio padrone. Chi sia il padrone, poi si ve­drà faccia a faccia, ma ora, nell'enig­ma, so di non esserlo io stesso.

Tuttavia capisco il bisogno di re­quie, capisco il requiem laico di Welby e dei suoi compagni, compre­so il medico anestesista che su sua richiesta lo ha sedato e ha staccato la spina. Sono contrario all'eutana­sia per legge, che è la sostanza del problema dissimulata con grande e legittima abilità politica nella cam­pagna di cui Welby ha voluto essere il banditore, ma non posso approva­re l'obbligo di cura, che è una con­traddizione in termini, e non posso negare ad alcuno le terapie sedative della sofferenza fisica quando la vita si esaurisce, per lo meno nel corpo. Vorrei che la norma giuridica se ne stesse il più possibile lontana dalla legalizzazione della morte, che ha già fatto progressi abbastanza spetta­colari con il trionfo culturale e la pratica indiscriminata dell'aborto, con il protocollo di Groningen sul­l'eutanasia dei bambini ammalati, con lo spegnimento coatto per sen­tenza comminato a Terry Schiavo, con un disprezzo per il vicino che ge­nera terrore senza fine e impone la brutta e bronzea legge della guerra giusta in soccorso del convivere e della tranquillità dell'ordine. Le uni-che norme che accetto sono quelle a difesa della vita dal suo inizio alla sua fine naturale, con la depenaliz­zazione dell'aborto come eccezione assoluta e non come forma relativi­stica di controllo della riproduzione o di contraccezione ex posi

Tuttavia considererei una sciagura un processo nato dal caso Welby, e idiota il grido di "assassino" indirizza­to a coloro che hanno realizzato la sua volontà, amministrando il loro culto attraverso una strana forma legale di disobbedienza civile. Il culto radicale per le libertà civili, che ormai siste­maticamente si converte in battaglie religiose intorno all'idolo giacobino dei diritti dell'uomo, compreso il di­ritto di ordinare la propria morte o comminarla ad altri in nome della li­bertà di vivere come si vuole, io lo combatto. Ma se i radicali, nell'ambi­valenza che è propria di ogni guerra religiosa, si fanno scudo dell'orrore che non si può non provare per la so­la idea dell'obbligo di cura, abbasso la mia lancia. Tra i radicali, per la sua e per la mia dignità, annovero anche Welby. Il cui gesto pubblico è ovvia­mente controverso. Il cui bisogno pri­vato di riposo, imperativi della fede a parte, non lo è.

 

sabato, 09 dicembre 2006

Situazioni estreme: il diritto di morire

IND-CULT-SOC
 











Sono passati quasi 80 giorni da quando Piergiorgo Welby ha scritto e lanciato il suo estremo grido. Non solo un urlo di dolore, ma una analisi meditata, precisa e razionale che ci ha consegnato facendola passare attraverso il suo corpo.



La domanda era rivolta alla politica. A chi avrebbe il potere di decidere in una situazione in cui sono in gioco perlomeno tre principi:
quello dell' INDIVIDUO,  a cui il destino e la biologia ha affidato il compito di vivere il suo ciclo esistenziale;
quello dello STATO, che deve stabilire regole, criteri, procedure che hanno un valore sovra-individuale e che, in questo caso, attraversano quei confini instabili che stanno fra il diritto e la medicina;
quello ETICO, governato dalle religioni e dai loro interpreti.
Tre principi: la persona, lo stato e "dio".
Sono passati quasi 80 giorni. Ma Piergio Welby è ammalato da quarant'anni. E solo in questi mesi la sua SOFFERENZA INDIVIDUALE, soggettivamente percepita, ha raggiunto la soglia della insopportabilità. Tanto da dovere essere comunicata con tanta forza.
Osservo che in questi mesi a "parlare" è stata una oggettiva allenza fra la politica e "dio". Del tutto trasversale fra i due schieramenti del sistema politico italiano. L'aver nominato la parola "eutanasia" invece che , con più forza, "consenso informato alle cure" e "accanimento terapeutico",  ha bloccato il processo decisionale. E ha impedito quello che la persona Piergiorgio Welby, in piena coscienza e capacità di intendere ma non di agire, chiede per sè: di potere chiudere il suo ciclo di vita senza ulteriori sofferenze inferte dalla (in altre situazioni vantaggiosa) potenza della tecnica e della medicina.
Il principio etico e quello dello stato, alleati fra loro, passano sopra a quella persona. E sembrano neppure vederla. Troppe figure si agitano attorno a quel letto: medici, religiosi, politici.
In quella specie di quadro che è il capezzale bisognerebbe prestare più umana attenzione alla moglie, a quella donna minuta che gli accarezza le mani, con le lacrime ormai consumate.
L'insegnamento e l'apprendimento in rapporto a questa situazione è che la vita è veloce , mentre la politica è lenta e non riesce a stargli dietro.
E oggi Piergiorgio Welby ha ancora una volta preso la parola. Con la sua soggettività ha provato ad oltrepassare quella barriera che gli impedisce di prendere pace.
 

IL TESTO DELLA LETTERA

Signor Direttore,

sono Piergiorgio Welby, che ha preso il posto di Luca Coscioni quale Presidente dell'Associazione radicale che porta il suo nome, e come esponente della costellazione di soggetti politici Radicali, nazionali e internazionali, che operano con e attorno al Partito Radicale.

Ormai, 77 "giorni" fa, mi sono rivolto pubblicamente, personalmente, politicamente, al Presidente della Repubblica, quale supremo Garante del rispetto della Costituzione, della legalità repubblicana; per ottenere finalmente l'esercizio del mio diritto naturale civile politico personale ad una mia morte - naturale -. Solo modo possibile per conquistare (anche in Diritto) pace per questo "mio" corpo altrimenti sempre più straziato e torturato. Sequestratomi, per una kafkiana imposizione "etica" dall'ordinamento e del potere burocratico, o anche a esso imposto. Dobbiamo tutti - credo- gratitudine per la qualità, l´importanza, della Sua risposta e delle Sue esortazioni che hanno indubbiamente consentito il grave e grande dibattito che unisce, anzichè dividere, coloro che vi partecipano, che non sono indifferenti.

Signor Direttore,

Come già Luca Coscioni, a mio turno sono oggi oggetto di offese e insulti, di pensieri, parole, aggressioni alla mia identità ed alla mia immagine, quasi non bastassero quelle perpetrate al corpo che fu mio e che, invece, vorrei, per un attimo almeno, mi fosse reso come forma - qual è il corpo - necessaria del mio spirito, del mio pensiero, della mia vita, della mia morte; in una parola del mio "essere".

Sono accusato, insomma, di "strumentalizzare" io stesso, la mia condizione per muovere a compassione, per mendicare o estorcere in tal modo, slealmente, quel che proponiamo e perseguiamo con i miei compagni Radicali e della Associazione Luca Coscioni, che ha ragione ormai antica e sempre più antropologicamente, culturalmente, politicamente forte; "dal corpo del malato al cuore della politica". O, ancora, non sarei, come già Luca Coscioni, che io stesso strumentalizzato dai "miei", così infamandoci come meri oggetti o come soggetti plagiati. (O indemoniati, vero... Signori?). Strumenti? Sono, invece, limpidi obiettivi ideali, umani, civili, politici.

Dalla mia prigione infame, da questo corpo che - per etica, s'intende - mi sequestrano, mi tornano alla memoria le lettere inviate alla... "politica" da un suo illustre, altro, "prigioniero": Aldo Moro. Pagine nobili e tragiche contro gli uomini di un potere che aveva deciso di condannarlo (anche lui per etica, naturalmente) a morte certa, anche lui ad una forma di tortura di Stato, feroce ed ottusa. Quelle pagine non potrei farle mie. Anche perché furono perfette, e lo restano.

Un pensiero, ancora, un interrogativo, un dubbio: dove sono mai finiti per tanti "credenti" Corpo mistico e Comunione dei Santi?

Comunque Addio, Signori che fate della tortura infinita il mezzo, lo strumento obbligato di realizzazione o di difesa dei vostri valori! Chi siano (e in che modo) i morti o i vivi che rimarranno tali quando saremo tutti passati, non sappiamo, né noi né voi.

Io auguro a voi ogni bene. Spero davvero (ma temo fortemente che così non sia), spero davvero che questo augurio vi raggiunga, si realizzi, perché questo "voi" oggi manca anche a me, anche a noi altri.

Per finire, grazie Signor Direttore per la sua tollerante attenzione. A questo mio estremo, ultimo tentativo di trasmettere parola. Grazie sincero,

Suo
Piero Welby

p.s. Chiedo - ringraziandoli fraternamente - alle oltre 700 mie compagne e compagni, antiche e nuovi, che sono in sciopero della fame, alcuni al sedicesimo giorno, di sospendere questa loro forma di lotta, che ha contribuito in modo determinante al radicamento di un nuovo grande momento di dialogo e di conoscenza a tutto il Paese.
 
mercoledì, 06 dicembre 2006

Politica: Destra/Sinistra

tracceGiovanni Fasanella e Antonella Grippo hanno scritto "I silenzi degli innocenti", Rizzoli Bur.
I terroristi italiani di destra e sinistra hanno assassinato circa 600 persone e ferito (molte volte gravemente) altre 5000. Attorno a costoro ci sono i loro familiari ed amici: tanti.
I terroristi hanno dichiarato unilateralmente questa "guerra contro lo stato" che ha avuto come solo effetto quello di creare migliaia di vittime.
Le cose sembrano chiare: ci sono gli autori dei delitti e ci sono le vittime.
Ma non è così.  Solo i carnefici sono stati chiamati a testimoniare su quei terribili anni. Solo a loro è stata data voce: con le pene alternative, con le interviste, con i libri, con i talk-show, con le immagini della società dello spettacolo.
Un mondo alla rovescia (mai a Paolo Rossi è venuto in mente, lui che ha inventato il mondo alla rovescia, di ricordarlo): le vittime in ombra e loro, gli assassini, alla luce, sacralizzati come eroi di una causa finita male.
Una situazione terribile sotto tutti i profili: storico, etico, politico, informativo.
Questo libro da voce a chi non l'ha mai avuta. Anzi, a coloro cui è stata, in mille modi, negata.  L'Italia è l'unico paese al mondo dove paradossalmente la storia la si lascia scrivere dagli sconfitti, dagli ex terroristi. Nel libro, invece, si avvicinano le vittime e i loro familiari, mostrando interesse per loro e facendoli parlare. Si ascoltano racconti di delusioni, di solitudine e di disinteresse da parte delle istituzioni. Un piccolo, piccolissimo risarcimento alle vite offese così, per un delirio narcisistico nel nome della "diversità" e della "situazione oggettiva" che imponeva il conflitto violento contro uno "stato" idealizzato.

Scrivo queste righe sotto schiaffo da una notizia. Il ministro Ferrero (Rifondazione comunista) ha inserito nella Consulta nazionale per le tossicodipendenze la (ex) terrorista Susanna Ronconi, "perchè ha i titoli". E non è l'unico caso di relitti umani di un periodo storico mostruoso che vengono allegramente riciclati nelle istituzioni dagli estremisti di questo governo di sinistra-centro.
Un mondo all'incontrario.
Piuttosto disgustoso. Peggio della merda.

E così ancora una volta, per farmi abbassare la pressione, mi risento
 

Destra - Sinistra
 di Giorgio Gaber

 

 
Tutti noi ce la prendiamo con la storia
ma io dico che la colpa è nostra
è evidente che la gente è poco seria
quando parla di sinistra o destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Fare il bagno nella vasca è di destra
far la doccia invece è di sinistra
un pacchetto di Marlboro è di destra
di contrabbando è di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Una bella minestrina è di destra
il minestrone è sempre di sinistra
tutti i films che fanno oggi son di destra
se annoiano son di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Le scarpette da ginnastica o da tennis
hanno ancora un gusto un po’ di destra
ma portarle tutte sporche e un po’ slacciate
è da scemi più che di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
I blue-jeans che sono un segno di sinistra
con la giacca vanno verso destra
il concerto nello stadio è di sinistra
i prezzi sono un po' di destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
I collant son quasi sempre di sinistra
il reggicalze è più che mai di destra
la pisciata in compagnia è di sinistra
il cesso è sempre in fondo a destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
La piscina bella azzurra e trasparente
è evidente che sia un po' di destra
mentre i fiumi, tutti i laghi e anche il mare
sono di merda più che sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
L'ideologia, l'ideologia
malgrado tutto credo ancora che ci sia
è la passione, l’ossessione
della tua diversità
che al momento dove è andata non si sa
dove non si sa, dove non si sa.

Io direi che il culatello è di destra
la mortadella è di sinistra
se la cioccolata svizzera è di destra
la Nutella è ancora di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Il pensiero liberale è di destra
ora è buono anche per la sinistra
non si sa se la fortuna sia di destra
la sfiga è sempre di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Il saluto vigoroso a pugno chiuso
è un antico gesto di sinistra
quello un po' degli anni '20, un po' romano
è da stronzi oltre che di destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
L'ideologia, l'ideologia
malgrado tutto credo ancora che ci sia
è il continuare ad affermare
un pensiero e il suo perché
con la scusa di un contrasto che non c’è
se c'è chissà dov'è, se c'é chissà dov'é.

Tutto il vecchio moralismo è di sinistra
la mancanza di morale è a destra
anche il Papa ultimamente
è un po' a sinistra
è il demonio che ora è andato a destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
La risposta delle masse è di sinistra
con un lieve cedimento a destra
son sicuro che il bastardo è di sinistra
il figlio di puttana è di destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Una donna emancipata è di sinistra
riservata è già un po' più di destra
ma un figone resta sempre un’attrazione
che va bene per sinistra e destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Tutti noi ce la prendiamo con la storia
ma io dico che la colpa è nostra
è evidente che la gente è poco seria
quando parla di sinistra o destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Destra-sinistra
Destra-sinistra
Destra-sinistra
Destra-sinistra
Destra-sinistra
Basta!

 


venerdì, 01 dicembre 2006

Musica Jazz: The Necks, Aquatic

tracceIn Italia il trio Jazz dei The Necks è ancora poco conosciuto. I dizionari e le enciclopedie Jazz a stampa non ne parlano e anche sulla rivista Musica Jazz non ho trovato accenni: per fortuna la rete internet è molto più ricca di fonti informative e poi sono anche raggiungibili via E.Mail. Può sembrare strano: costoro creano e suonano assieme dal 1989, fanno un jazz nuovissimo, esplorano nuove frontiere come hanno fatto i loro predecessori, che cercavano
 

“la nota impossibile, quella che non esiste, che non c’è sulla terra” (Steve Lacy su Thelonius Monk).
 

Il loro ascolto lascia sempre il segno. Eppure non hanno attraversato quella invisibile linea che passa fra il notturno trascinare gli strumenti per il piccolo pubblico e la notorietà. Ripeto: almeno in Italia.
Dipenderà anche dal fatto che abitano in una terra straordinaria, ancestrale e moderna nello stesso tempo: l’Australia. Là devono essere molto famosi, visto che continuano il loro progetto musicale difficile e inusuale: in quasi vent’anni hanno realizzato solo 34 pezzi per un totale di 20 ore. Effettivamente la loro musica assomiglia molto a quel paesaggio: sanno creare uno spazio psichico e visivo che è bello e coinvolgente attraversare con la loro guida. Sì, sanno costruire un percorso ipnotico. Come nel film Picnic ad Hanging Rock ha fatto Peter Weir (1975).
C'è una zona d’ombra su di loro e allora vorrei colmare la lacuna e illuminare qua e là.
In “Aquatic” (1999) Chris Abrahams è al Piano e all’organo Hammond, Lloyd Swanton al Contrabbasso acustico ed elettrico, Tony Buck alla batteria e alle percussioni. Questa volta c’è anche Stevie Wishart all’”Hurdy-Gurdy” (
una specie di violino elettrico che ha un suono simile alla cornamusa, mi ha detto Kosmogabri).
I pezzi sono due: uno di 27 minuti, e l’altro di 25. Una eccezione rispetto al loro standard, che quello di un’unica scultura musicale di circa un’ora.
L’ascolto lascia vigilmente intontiti per la bellezza del ritmo (Tony Buck è un batterista eccezionale), per le armonie degli accordi pianistici, per la ripetizione ipnotica, per tutte le cose che accadono in quella che non è solo un’iterazione minimalista.
Già il primo movimento è di grande soddisfazione per la mente musicale. Suoni raffinati che alimentano l’immaginazione, rintocchi pianistici di forte energia, un drumming-beat davvero unico, rumori ambientali appena accennati e stimolatori di benessere psichico. Come a dire: “sei in un altro spazio, ma qui si può stare bene. E’ solo diverso”.
Ma il secondo movimento è incredibilmente bello (cercherò di scegliere un assaggio  che lo rappresenti). Uno “Swing” che è indubbiamente jazzistico, ma che si avventura in un’Ambient Music di gran cultura. Inizia subito a grande velocità, con il contrabbasso violineggiante di Swanton, incalzato dal terribile Tony Buck, un vero monello della batteria. Poi il piano di
Abrahams comincia a spingere avanti. Sempre di più: trilli, battiti, con il basso a contenere. Ecco di nuovo gli archi. Sempre più veloce, impercettibilmente veloce. Viene voglia di chiudere gli occhi. Ecco: nel nero si vede lo spazio che è attraversato dalle note del piano sorrette da quel tappeto volante che è la batteria, baroccheggiata dal contrabbasso. Ora il ritmo si fa un po’ meno frenetico. E comincia il gioco fra di loro. Sì: l’interplay jazzistico inventato dal trio di Bill Evans risorge, si riattualizza in un’altra dimensione ! I tre improvvisano dentro un sonno spaziale reso possibile dalla (leggera) elaborazione elettronica dei suoni. La conclusione è di grande pace.
Sì è bello stare qui. E dove siamo ? Ma guarda un po’: ancora in Drive By. La loro è un’architettura musicale: siamo sempre a casa ! O meglio: si ritorna sempre a casa. Come insegna la cadenza d’inganno.
Jazz … Ambient … Minimalismo … Elettronica. I The Necks sono tutto questo ma vanno oltre questo. Per i The Necks il termine “Post-Jazz” è limitativo. Sanno creare una situazione di incanto nello spazio temporale di un’ora.
Di questo disco AltriSuoni dice:
 

“È questo il primo affascinante picco espressivo dei Necks, un prodotto che potrebbe benissimo essere posto accanto ai capolavori quartomondisti di Jon Hassell e Brian Eno”

In queste mie parole non c'è un filtro critico, ma solo il piacere dell’ascolto: sono filtrate dalla “Funzione Sentimento” piuttosto che dalla “Funzione Pensiero”.
Dunque, caro lettore, scusa se ti sono sembrato approssimativo. Ma volevo solo invitarti a conoscerli.


martedì, 28 novembre 2006

Tempo: 58 anni. "Madadayo:

tracceDomenica scorsa sono arrivato al traguardo dei 58 anni.
Il caso ha voluto che nel flusso dei messaggi agguantati nella rete ci fosse anche un battimani che è al centro dell'immortale "Sinnerman" di Nina Simone.
Quello del Live "Pastel Blues" (1965) che dura 11 minuti. Ci sono altre versioni di Sinnerman, ma solo questa è davvero "Gorgeous".
"Non ancora", Madadayo: applausi.


giovedì, 23 novembre 2006

Fiori per Nina. Tanti fiori per Nina

legendSono giorni con Nina, Nina Simone ... Sarà un benefico effetto dell'autunno o forse un regalo di buon pre-compleanno. Sta di fatto che trascorro molte ore con lei.
Quei video che ho scovato e collocato su YouTube mi scaldano l'anima. Ma non solo a me.

Little Girl Blue del 1976
  è già stato visitato 724 volte. Con i commenti esercito il mio (poverissimo) inglese:
" Gorgeous, simply gorgeous" dice barney23 . Per me quel "Gorgeous" è un suono bellissimo. continuo a scandirlo: Gorgeous ... Gorgeous ... Gorgeous ...
"She is the queen", MaryAnne.  E chi  la intercetta  è il suo popolo segreto, dico io.

Four Women del 1969 è stato  visto 1393 volte.  "I love Nina Simone. Thank you for this" (lilaarenas);  "was there ever anyone who combined musical erudition with raw power in such an artful way? rest now nina" (jackhillty); "A good friend introduced me to Nina Simone at about the same time I introduced him to Mahalia Jackson. Both are one of a kind an utterly irreplaceable. Everything that Nina did was so earthy, so worldly yet so not of this world! She defined the word exquisite" (jjwltube);  "Amazing " (petermandate )
Mi ripeto: Amazing  ... She defined the word exquisite ...

Oggi riporto qui Feelings, interpretata (Nina non canta: Nina interpreta) al festival di Montreux del 1976:


Feelings,
nothing more than feelings,
trying to forget my feelings of love.
Tear drops,
rolling down on my face
trying to forget my feelings of love.
Feelings, for all my life I'll feel it.
I wish I'd never met you, girl,
you'll never come again.
Feelings, wo wo wo
feelings wo wo wo
feel you again in my arms.
Feelings, feelings like I've never lost you,
and feelings like I'll never have you
again in my heart.
Feelings,
for all my life I'll feel it.
I wish I'd never met you, girl,
you'll never come again.
Feelings
feelings like I've never lost you.
And feelings like I'll never have you
again in my heart.
Feelings, for all my life I'll feel it.
I wish I'd never met you, girl,
you'll never come again.
you'll never come again.


1728  visitatori in pochi giorni.
 
"She was the greatest" (LukeK79) ;  "I have never before seen such a synergy of voice and instrumental virtuosity"  (r33tr33t ); " Unique perfomance! Now, this is a truly GREAT Artist with a capital "A"!!! ... " (tsukihao)

L'intero concerto è stato tenuto al Festival Jazz di Montreux
Lì si può anche trovare il Dvd dell'intera serata e delle successive sue presenze (1986 e 1990), oltraggiata dalla vecchiaia.

Fiori per Nina. Tanti fiori per Nina

sabato, 18 novembre 2006

Nina Simone, Little Girl Blue


 

Eunice Waymon diventò Nina Simone, una maschera che sul filo degli anni eclisserà il suo nome di battesimo e con la quale entrerà nella storia. Nina per “niňa”, “la môme”, il soprannome che le aveva dato un fidanzato latino di cui non si sa niente. Simone per Signoret nel “Casco d’oro”, un film che la pianista aveva visto in un cinema di Filadelfia e che l’aveva impressionata (David Brun-Lambert, Nina Simone: un vie, Editions Flammarion, 2005, p. 53)


 

In un’efficace scansione biografica Kerry Acker (in Nina Simone, Chelsea House Publisher, Philadelphia, 2004) distingue ed identifica così i momenti della sua vita: il prodigio (1933-1944); la concertista di piano (1944-1954); la “chanteuse” (1954-1959); la stella (1958-1962); l’attivista (1963-1966); “The high Priestess of Soul”, che tradurrei come la sublime sacerdotessa dell’Anima (1967-1968); l’espatriata (1970-1978); la diva (1978-2003). Forse in quest’ultimo frammento del ciclo di vita io individuerei anche quello della “decadenza della vecchiaia”. Una brutta vecchiaia, davvero oltraggiosa per questa meravigliosa creatura.
Quando nel 1957 esce il suo primo disco,  Nina, durante le estati, cantava e suonava già da 3 anni al Midtown Bar & Grill di Atlantic City. La sua storia comincia lì. Aveva dunque 21 anni. Le voci corsero subito per le strade (oggi girerebbero sui blog): “c’è una giovane musicista nera in città e quello che canta è unico”.
21 anni, eppure il carattere temprato negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza era ormai pienamente definito, compiuto ed intero nella gamma comportamentale che andava dalla spigolosità insopportabile alla grazia eccelsa:

 

“quando arrivava alla sedia del piano si faceva silenzio intorno. In un bar di seconda zona, nel cuore di una città bruciata d’insonnia, lei riusciva a far tacere fin dalla prima nota. Non si era mai visto qualcosa di simile qui” (David Brun-Lambert, op.cit. , p. 52)
 

3 anni di tirocinio così, anche per imparare il rapporto con il pubblico. Canzoni tirate sui tempi lunghi. Lei e il piano. Il piano e lei. Lei con se stessa, lei con il popolo del suo regno.
Quando le si presenta l’occasione di fare il primo disco, nessuno stupore che le bastino solo 24 ore per prepararlo e concluderlo.
1957: 14 tracce musicali tutte riuscite al primo colpo che la collocano nella storia. Tutto il talento che mostrerà negli anni successivi è già concentrato lì in quel disco. La sua unicità, la sua “individuazione” è leggibile ieri e oggi in quelle 14 tracce perfette, durevoli, classiche.
Mi fermo qui. Caro lettore, avrai capito che Nina Simone è uno dei miei tanti punti deboli. Con lei divento fragile ed esposto al sentimento. Mi perdo e mi sento felicemente perso, per riprendermi e ricominciare.
Dell’intero disco parlerò un’altra volta.
Oggi volevo solo dire che lì si ascolta la ballata “Little Girl Blue” di Richard Rodgers e Lorenz Hart.

 

Sit there
And count your fingers
What can you do
Old girl you're through
Sit there
Count your little fingers
Unhappy little girl blue
Sit there
Count the raindrops
Falling on you
It's time you knew
All you can ever count on
Are the raindrops
That fall on little girl blue
Won't you just sit there
Count the little raindrops
Falling on you
Cos it's time you knew
All you can ever count on
Are the raindrops
That fall on little girl blue
No use old girl
You might as well surrender
Cos your hopes
Are getting slender and slender
Why won't somebody send
A tender blue boy
To cheer up little girl blue

Nina nel 1957 la interpreta così:

Nina Simone, Little Girl Blue, 1957
 

Questo pezzo entrerà sempre nel suo repertorio per i successivi 46 anni.
Ma fra tutte le esecuzioni, questa del 1976 mi sembra eccezionale, incredibile, bella in un modo indescrivibile. Probabilmente creata così nei 10 minuti di quella sera e solo quella volta così. La presenza corporea sulla scena, gli anticipi preparatori, lo sguardo, i passi da pantera, i silenzi, i giochi linguistici, il pianismo che accenna a quella ferita della carriera stroncata, quel “This is Africa …”, la genialata del doppio finale.
No: non ci sono né ci saranno altre o altri come lei.

 

 


 
 

venerdì, 29 settembre 2006

La "morte opportuna"

IND-CULT-SOCQuesta potente  "lettera estrema" è riuscita, attraverso l'attenzione del Presidente della Repubblica Napolitano ad interpellare, ancora una volta la politica.
Siamo a contatto con la punta più alta delle "situazione problematiche". Una domanda che propone antichissimi dilemmi morali.
La cultura medica, grazie al dominio della tecnica, è in grado di prolungare, fino a limiti nel passato impossibili, il funzionamento biologico dei viventi.
Ma questo progresso può diventare insopportabile, come scrive con intelligente sofferenza, Piergiorgio Welby.
E i religiosi (assieme ai neo-convertiti), che da secoli si legittimano per le loro risposte alle questioni di vita e di morte, si presentano numerosi sui giornali, nelle televisioni e nelle radio a fornire la loro risposta che si condensa in un precetto: "condividere" ed "accompagnare" alla morte (con qualche dubbiosa concessione alle cure palliative). Già: questo è il loro lavoro.
Ma se a desiderare la fine del proprio percorso esistenziale  è quella concreta persona, con la sua storia, i suoi vissuti, la sua meditata intenzionalità cosa si può fare? Tutto dipende dagli apparati sociali che gli stanno attorno: ospedali, residenze, hospice, comitati "etici" (!), .... E così al dolore si aggiunge altro dolore, indotto però dalla situazione socio-culturale circostante.
Le risposte si riducono, per ora, a due possibilità:  la scelta estrema dei suicidio, ma occorre avere la forza e le condizioni per praticarlo o quello del "testamento di vita". Un documento scritto e firmato in piena coscienza, ma che si limiterà (ammesso che superi gli ostacoli oppositivi, presenti in entrambi gli schieramenti della politica italiana) alla esclusione dell'accanimento terapeutico. Sarà comunque un passo importante, visto che lo strumento è stato individuato da almeno 20 anni.
Occorrerà seguire con partecipazione alla discussione dei prossimi mesi. Qui si misureranno le capacità delle culture a fare i conti con la libertà individuale. Tanto desiderata e  invocata, ma altrettanto negata e rifiutata.

 

Lettera aperta al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano
Da Piergiorgio Welby, Co-Presidente dell’Associazione Coscioni
Caro Presidente,
scrivo a Lei, e attraverso Lei mi rivolgo anche a quei cittadini che avranno la possibilità di ascoltare queste mie parole, questo mio grido, che non è di disperazione, ma carico di speranza umana e civile per questo nostro Paese.
Fino a due mesi e mezzo fa la mia vita era sì segnata da difficoltà non indifferenti, ma almeno per qualche ora del giorno potevo, con l’ausilio del mio computer, scrivere, leggere, fare delle ricerche, incontrare gli amici su internet. Ora sono come sprofondato in un baratro da dove non trovo uscita.
La giornata inizia con l’allarme del ventilatore polmonare mentre viene cambiato il filtro umidificatore e il catheter mounth, trascorre con il sottofondo della radio, tra frequenti aspirazioni delle secrezioni tracheali, monitoraggio dei parametri ossimetrici, pulizie personali, medicazioni, bevute di pulmocare. Una volta mi alzavo al più tardi alle dieci e mi mettevo a scrivere sul pc. Ora la mia patologia, la distrofia muscolare, si è talmente aggravata da non consentirmi di compiere movimenti, il mio equilibrio fisico è diventato molto precario. A mezzogiorno con l’aiuto di mia moglie e di un assistente mi alzo, ma sempre più spesso riesco a malapena a star seduto senza aprire il computer perchè sento una stanchezza mortale. Mi costringo sulla sedia per assumere almeno per un’ora una posizione differente di quella supina a letto. Tornato a letto, a volte, mi assopisco, ma mi risveglio spaventato, sudato e più stanco di prima. Allora faccio accendere la radio ma la ascolto distrattamente. Non riesco a concentrarmi perché penso sempre a come mettere fine a questa vita. Verso le sei faccio un altro sforzo a mettermi seduto, con l’aiuto di mia moglie Mina e mio nipote Simone. Ogni giorno vado peggio, sempre più debole e stanco. Dopo circa un’ora mi accompagnano a letto. Guardo la tv, aspettando che arrivi l’ora della compressa del Tavor per addormentarmi e non sentire più nulla e nella speranza di non svegliarmi la mattina.
Io amo la vita, Presidente. Vita è la donna che ti ama, il vento tra i capelli, il sole sul viso, la passeggiata notturna con un amico. Vita è anche la donna che ti lascia, una giornata di pioggia, l’amico che ti delude. Io non sono né un malinconico né un maniaco depresso – morire mi fa orrore, purtroppo ciò che mi è rimasto non è più vita – è solo un testardo e insensato accanimento nel mantenere attive delle funzioni biologiche. Il mio corpo non è più mio ... è lì, squadernato davanti a medici, assistenti, parenti. Montanelli mi capirebbe. Se fossi svizzero, belga o olandese potrei sottrarmi a questo oltraggio estremo ma sono italiano e qui non c’è pietà.
Starà pensando, Presidente, che sto invocando per me una “morte dignitosa”. No, non si tratta di questo. E non parlo solo della mia, di morte.
La morte non può essere “dignitosa”; dignitosa, ovvero decorosa, dovrebbe essere la vita, in special modo quando si va affievolendo a causa della vecchiaia o delle malattie incurabili e inguaribili. La morte è altro. Definire la morte per eutanasia “dignitosa” è un modo di negare la tragicità del morire. È un continuare a muoversi nel solco dell’occultamento o del travisamento della morte che, scacciata dalle case, nascosta da un paravento negli ospedali, negletta nella solitudine dei gerontocomi, appare essere ciò che non è. Cos’è la morte? La morte è una condizione indispensabile per la vita. Ha scritto Eschilo: “Ostico, lottare. Sfacelo m'assale, gonfia fiumana. Oceano cieco, pozzo nero di pena m'accerchia senza spiragli. Non esiste approdo”.
L’approdo esiste, ma l’eutanasia non è “morte dignitosa”, ma morte opportuna, nelle parole dell’uomo di fede Jacques Pohier. Opportuno è ciò che “spinge verso il porto”; per Plutarco, la morte dei giovani è un naufragio, quella dei vecchi un approdare al porto e Leopardi la definisce il solo “luogo” dove è possibile un riposo, non lieto, ma sicuro.
In Italia, l’eutanasia è reato, ma ciò non vuol dire che non “esista”: vi sono richieste di eutanasia che non vengono accolte per il timore dei medici di essere sottoposti a giudizio penale e viceversa, possono venir praticati atti eutanasici senza il consenso informato di pazienti coscienti. Per esaudire la richiesta di eutanasia, alcuni paesi europei, Olanda, Belgio, hanno introdotto delle procedure che consentono al paziente “terminale” che ne faccia richiesta di programmare con il medico il percorso di “approdo” alla morte opportuna.
Una legge sull’eutanasia non è più la richiesta incomprensibile di pochi eccentrici. Anche in Italia, i disegni di legge depositati nella scorsa legislatura erano già quattro o cinque. L’associazione degli anestesisti, pur con molta cautela, ha chiesto una legge più chiara; il recente pronunciamento dello scaduto (e non ancora rinnovato) Comitato Nazionale per la bioetica sulle Direttive Anticipate di Trattamento ha messo in luce l’impossibilità di escludere ogni eventualità eutanasica nel caso in cui il medico si attenga alle disposizioni anticipate redatte dai pazienti. Anche nella diga opposta dalla Chiesa si stanno aprendo alcune falle che, pur restando nell’alveo della tradizione, permettono di intervenire pesantemente con le cure palliative e di non intervenire con terapie sproporzionate che non portino benefici concreti al paziente. L’opinione pubblica è sempre più cosciente dei rischi insiti nel lasciare al medico ogni decisione sulle terapie da praticare. Molti hanno assistito un famigliare, un amico o un congiunto durante una malattia incurabile e altamente invalidante ed hanno maturato la decisione di, se fosse capitato a loro, non percorrere fino in fondo la stessa strada. Altri hanno assistito alla tragedia di una persona in stato vegetativo persistente.
Quando affrontiamo le tematiche legate al termine della vita, non ci si trova in presenza di uno scontro tra chi è a favore della vita e chi è a favore della morte: tutti i malati vogliono guarire, non morire. Chi condivide, con amore, il percorso obbligato che la malattia impone alla persona amata, desidera la sua guarigione. I medici, resi impotenti da patologie finora inguaribili, sperano nel miracolo laico della ricerca scientifica. Tra desideri e speranze, il tempo scorre inesorabile e, con il passare del tempo, le speranze si affievoliscono e il desiderio di guarigione diventa desiderio di abbreviare un percorso di disperazione, prima che arrivi a quel termine naturale che le tecniche di rianimazione e i macchinari che supportano o simulano le funzioni vitali riescono a spostare sempre più in avanti nel tempo. Per il modo in cui le nostre possibilità tecniche ci mantengono in vita, verrà un giorno che dai centri di rianimazione usciranno schiere di morti-viventi che finiranno a vegetare per anni. Noi tutti probabilmente dobbiamo continuamente imparare che morire è anche un processo di apprendimento, e non è solo il cadere in uno stato di incoscienza.
Sua Santità, Benedetto XVI, ha detto che “di fronte alla pretesa, che spesso affiora, di eliminare la sofferenza, ricorrendo perfino all'eutanasia, occorre ribadire la dignità inviolabile della vita umana, dal concepimento al suo termine naturale”. Ma che cosa c’è di “naturale” in una sala di rianimazione? Che cosa c’è di naturale in un buco nella pancia e in una pompa che la riempie di grassi e proteine? Che cosa c’è di naturale in uno squarcio nella trachea e in una pompa che soffia l’aria nei polmoni? Che cosa c’è di naturale in un corpo tenuto biologicamente in funzione con l’ausilio di respiratori artificiali, alimentazione artificiale, idratazione artificiale, svuotamento intestinale artificiale, morte-artificialmente-rimandata? Io credo che si possa, per ragioni di fede o di potere, giocare con le parole, ma non credo che per le stesse ragioni si possa “giocare” con la vita e il dolore altrui.
Quando un malato terminale decide di rinunciare agli affetti, ai ricordi, alle amicizie, alla vita e chiede di mettere fine ad una sopravvivenza crudelmente ‘biologica’ – io credo che questa sua volontà debba essere rispettata ed accolta con quella pietas che rappresenta la forza e la coerenza del pensiero laico.
Sono consapevole, Signor Presidente, di averle parlato anche, attraverso il mio corpo malato, di politica, e di obiettivi necessariamente affidati al libero dibattito parlamentare e non certo a un Suo intervento o pronunciamento nel merito. Quello che però mi permetto di raccomandarle è la difesa del diritto di ciascuno e di tutti i cittadini di conoscere le proposte, le ragioni, le storie, le volontà e le vite che, come la mia, sono investite da questo confronto.
Il sogno di Luca Coscioni era quello di liberare la ricerca e dar voce, in tutti i sensi, ai malati. Il suo sogno è stato interrotto e solo dopo che è stato interrotto è stato conosciuto. Ora siamo noi a dover sognare anche per lui.
Il mio sogno, anche come co-Presidente dell’Associazione che porta il nome di Luca, la mia volontà, la mia richiesta, che voglio porre in ogni sede, a partire da quelle politiche e giudiziarie è oggi nella mia mente più chiaro e preciso che mai: poter ottenere l’eutanasia. Vorrei che anche ai cittadini italiani sia data la stessa opportunità che è concessa ai cittadini svizzeri, belgi, olandesi.

Piergiorgio Welby

La risposta del Presidente Napolitano
Caro Welby,
ho ascoltato e letto con profonda partecipazione emotiva l’appello che lei ha voluto pubblicamente rivolgermi. Ne sono stato toccato e colpito come persona e come Presidente.
Lei ha mostrato piena comprensione della natura e dei limiti del ruolo che il Parlamento mi ha chiamato ad assolvere, secondo il dettato e lo spirito della nostra Costituzione.
Penso che tra le mie responsabilità vi sia quella di ascoltare con la più grande attenzione quanti esprimano sentimenti e pongano problemi che non trovano risposta in decisioni del governo, del Parlamento, delle altre autorità cui esse competono. E quindi raccolgo il suo messaggio di tragica sofferenza con sincera comprensione e solidarietà. Esso può rappresentare un’occasione di non frettolosa riflessione su situazioni e temi, di particolare complessità sul piano etico, che richiedono un confronto sensibile e approfondito, qualunque possa essere in definitiva la conclusione approvata dai più.
Mi auguro che un tale confronto ci sia, nelle sedi più idonee, perché il solo atteggiamento ingiustificabile sarebbe il silenzio, la sospensione o l’elusione di ogni responsabile chiarimento.
Con sentimenti di rinnovata partecipazione,
Giorgio Napolitano

 
martedì, 19 settembre 2006

CINEMA E SITUAZIONI PROBLEMATICHE

proiettore

C’è un filone nel cinema di cultura francese il cui tono emotivo mi sembra definibile come “oggettivo ed empatico”: attributi che mi arrivano contemporaneamente,. Sono registi, autori, interpreti che sanno raccontare storie di normale vita quotidiana con oggettività, sguardo attento e partecipazione emotiva. E’ uno stile riconoscibile in un attimo, attraverso una inquadratura o i volti di certi attori. Penso ai giovani sulla soglia della vita adulta dei film di Rohmer, alla Marsiglia popolare di Guèdiguian, agli slanci vitali delle ragazze di “La vita sognata degli angeli” di Zonca …
Ma con i film dei belgi Jeanne-Pierre e Luc Dardenne l’effetto è sempre quello molto coinvolgente di una presa di coscienza in situazioni estreme. In  “Il figlio (2002) al falegname Olivier, che insegna questo mestiere in una scuola professionale per adolescenti usciti dal riformatorio, capita di incrociare il sedicenne che cinque anni prima ha strangolato, durante un furto, il suo figlio. Gli capita questo nello stesso giorno in cui la sua ex-moglie gli comunica che si risposerà e che è incinta. E gli capita di voler far posto nella sua vita a questo ragazzo.
La macchina da presa sta addosso ad Olivier, indugia sui suoi gesti di lavoro, registra le sue attenzioni educative, mostra la sua solitudine, insiste sul suo mal di schiena, che cura con una specie di cilicio e esercizi di ginnastica effettuati in una fredda e scarna cucina. Ma, soprattutto, la cinepresa ci fa partecipare al costruirsi di questa relazione che nasce da un dolore non rimarginato. Olivier guarda, scruta, spia, interroga il ragazzo. Gli insegna a riconoscere le qualità del legno, ad usare gli attrezzi, ad imparare un lavoro che potrebbe dargli un’altra chance di vita. E solo alla fine gli rivela di essere il padre della sua vittima.
Alla ex-moglie che gli dice “Nessuno lo farebbe. Perché lo fai?”, Olivier risponde “Non lo so”. E’ lo spettatore che deve provare a rispondere. L’immedesimazione con Olivier è intensa e passa attraverso lo sguardo, le incertezze e la  sua evidente sofferenza. Si partecipa al dramma interiore, ai dilemmi, alle domande che lo attraversano come lance. Olivier, durante tutto il racconto, non chiama mai per nome il ragazzo. Nominare, dare il nome a questo “figlio” che ha ucciso l’altro e che ne ha preso il posto è la cosa impossibile.  Per tutto il film Olivier corre, corre avanti e indietro,  come per cercare la strada giusta per riprendere a vivere.
E’ una storia di dolore per un figlio perso e di un padre che lo ridiventa per caso, per desiderio,. per necessità.


venerdì, 15 settembre 2006

Oriana Fallaci e la sua ghianda

tracceLa radio del mattino mi sveglia e in questi attimi fra l'ancora sonno e il "io sono vivo" mi giunge la notizia della morte di Oriana Fallaci (1929-2006, 77 anni).
I pensieri corrono, si aggrovigliano e ora ne seleziono tre.

In primo luogo affiora alla mia mente il ricordo del racconto mitologico di Cassandra, la più bella fra le figlie di Priamo ed Ecuba, sovrani di Troia al tempo della famosa guerra. Il dio Apollo era carico di desiderio per lei e avrebbe soddisfatto ogni suo desiderio per una notte d'amore. Cassandra, in cambio, chiese ed ottenne il dono della profezia. Ma poi non volle mantenere il patto. E così, con un bacio di addio, Apollo si vendicò gettandole addosso un maleficio: le sue profezie si sarebbero sempre avverate, ma nessuno avrebbe mai creduto alle sue previsioni. Anzi: tutto quanto avrebbe detto sarebbe stato accolto come falso. Fu così che i Troiani non le credettero quando intravvide il cavallo di legno e predisse l'incendio di Troia.

Il secondo ricordo che affiora nella mia mente è l'idea centrale di un aureo libro di James Hillman ("Il codice dell'anima. Carattere, vocazione, destino", mirabilmente tradotto da Adriana Bottini). Il grande psicanalista americano insegue con gusto letterario per 400 pagine quella che chiama la  "teoria della ghianda". Come in un seme di quercia c'è già il progetto ed il risultato di quello che sarà la pianta ("Vedi, lei è piccola, ma sa già che sarà una quercia" diceva ad un bambino la mia indimenticabile amica Laura Conti), così "io e voi e chiunque altro siamo venuti al mondo con una immagine che ci definisce" (pag. 27). Il nostro compito esistenziale è di ricercare una "biografia soddisfacente" che metta assieme i pezzi della nostra vita terrena e sia capace di intrecciare la trama profonda della nostra storia (pag. 19)

Ecco, l'immagine che mi si presentifica: Oriana Fallaci come Cassandra.
La sua ghianda, il suo progetto, il suo destino sono stati quelli di predire, fra il non-ascolto e il disprezzo, il vero, senza essere creduta. E' per me tristissimo sentire i suoi amici di una vita (per esempio Furio Colombo) distinguere l'Oriana di prima degli anni novanta e quella di dopo.
Gli ultimi suoi tre libri ( "La rabbia e l'orgoglio", "La forza della ragione", "Oriana Fallaci intervista se stessa - L'Apocalisse") sono un urlo che condenso in una parola sola:

ATTENZIONE !!! ..., ce n'è per almeno altri 100 anni.

Il terzo e ultimo pensiero che affiora alla mia mente è quello di ricordarla non per il suo avvertimento sui pericoli che corre la nostra civiltà, ma per il suo straordinario, energetico e magmatico linguaggio, come in questo testo da tenere accanto ai manuali di diritto costituzionale comparato:

Il fatto è che l'America è un paese speciale, caro mio. Un paese da invidiare, di cui esser gelosi, per cose che non hanno nulla a che fare con la ricchezza eccetera. E sai perché? Perché è nata da un bisogno dell'anima, il bisogno d'avere una patria, e dall'idea più sublime che l'Uomo abbia mai concepito: l'idea della Libertà anzi della li­bertà sposata all'idea di uguaglianza. Lo è anche perché, quando ciò accadde, l'idea di libertà non era di moda. L'idea di uguaglianza, nemmeno. Non ne parlavano che certi filosofi detti Illuministi, di queste cose. Non li trovavi che in un costoso librone di diciassette volumi più diciotto illustrati detto Encyclopédie ed edito da un certo Diderot e da un certo D'Alembert, questi concetti. E a parte gli scrittori e gli altri intellettuali, a parte i prìncipi e i signori che avevano i soldi per comprare il librone o i libri che avevano ispirato il librone, chi ne sapeva nulla dell'Illuminismo? Non era mica roba da mangiare, l'Illuminismo! Non ne parlavan neppure i rivoluzionari francesi, visto che la Rivo­luzione Francese sarebbe incominciata nel 1789 ossia quindici anni dopo la Rivoluzione America­na che scoppiò nel 1776 però era sbocciata nel 1774. (Dettaglio che gli antiamericani del bene-agli-americani-gli-sta-bene ignorano o fingono di ignorare). Ma, soprattutto, l'America è un paese speciale, un paese da invidiare, perché quell'idea venne capita da contadini spesso analfabeti o co­munque ineducati: i contadini delle tredici colonie americane. E perché venne materializzata da un piccolo gruppo di leader straordinari, da uomini di grande cultura e di grande qualità: the Founding Fathers, i Padri Fondatori. Ma hai idea di chi fos­sero i Padri Fondatori, i Benjamin Franklin e i Thomas Jefferson e i Thomas Paine e i John Adams e i George Washington eccetera?!? Altro che gli avvocaticchi (come giustamente li chiamava Vitto­rio Alfieri) della Rivoluzione Francese! Altro che i cupi e isterici boia del Terrore, i Marat e i Danton e i Desmoulins e i Saint-Just e i Robespierre! Era­no tipi, i Padri Fondatori, che il greco e il latino lo conoscevano come gli insegnanti italiani di greco e di latino (ammesso che ne esistano ancora) non lo conosceranno mai. Tipi che in greco s'eran letti Archimede e Aristotele e Platone, che in latino s'eran letti Seneca e Cicerone, Virgilio e Ovidio, e che i principii della democrazia greca se l'eran stu­diati come nemmeno i marxisti del mio tempo stu­diavano la teoria del plusvalore. (Ammesso che la studiassero davvero). Jefferson conosceva anche l'italiano. Lui diceva «toscano». In italiano parla­va e leggeva con gran speditezza. Infatti con le duemila piantine di vite e le mille piantine di olivo e la carta da musica che in Virginia scarseggiava, nel 1774 il medico fiorentino Filippo Mazzei gli aveva portato varie copie d'un libro scritto da un certo Cesare Beccaria e intitolato Dei Delitti e del­le Pene. Quanto all'autodidatta Franklin, era un genio. Scienziato, stampatore, editore, scrittore, giornalista, politico, inventore. Nel 1752 aveva scoperto la natura elettrica del fulmine e inventa­to il parafulmine, ad esempio. Aveva inventato an­che la stufa con la canna fumaria di metallo per ri­scaldare le stanze senza caminetto. Infatti Pietro Leopoldo, il granduca di Toscana, se n'era com­prate due da installare nel suo studio di Palazzo Pitti poi gli aveva scritto un'estasiata lettera di rin­graziamento. E fu con questi leader straordinari, questi uomini di grande cultura e di grande qualità, che nel 1776 anzi nel 1774 i contadini spesso anal­fabeti e comunque ineducati si ribellarono all'In­ghilterra. Fecero la guerra d'Indipendenza, la Ri­voluzione Americana.
La fecero, nonostante i fucili e la polvere da sparo, nonostante i morti che ogni guerra co­sta, senza i fiumi di sangue e gli abominii della fu­tura Rivoluzione Francese. Senza la ghigliottina, insomma, senza le migliaia e migliaia di decapita­ti, senza i massacri della Vandea e di Lione e di Tolone e di Bordeaux. La fecero con un foglio che insieme al bisogno dell'anima, il bisogno d'avere una patria, concretizzava la sublime idea della li­bertà anzi della libertà sposata all'uguaglianza: la Dichiarazione d'Indipendenza. «We hold these Truths to be self-evident... Noi riteniamo evidenti queste verità. Che tutti gli Uomini sono creati uguali. Che sono dotati dal Creatore di certi ina­lienabili Diritti. Che tra questi Diritti v'è il Diritto alla Vita, alla Libertà, alla Ricerca della Felicità. Che per assicurare questi Diritti gli Uomini devo­no istituire i governi...». E quel foglio che dalla Ri­voluzione Francese in poi tutti gli abbiamo bene o male copiato, o al quale ci siamo ispirati, costi­tuisce ancora la spina dorsale dell'America. La linfa vitale di questa nazione. Sai perché? Perché trasforma i sudditi in cittadini. Perché trasforma la plebe in Popolo. Perché la invita anzi le ordina di ribellarsi alla tirannia, di governarsi, d'esprime­re le proprie individualità, di cercare la propria fe­licità. (Cosa che per un povero, anzi per un ple­beo, significa anzitutto arricchirsi). Tutto il con­trario di ciò che il comunismo faceva proibendo alla gente di ribellarsi, governarsi, esprimersi, ar­ricchirsi, e mettendo Sua Maestà lo Stato al posto dei soliti re. «Il comunismo è un regime monar­chico, una monarchia di vecchio stampo. In quan­to tale taglia le palle, agli uomini. E quando a un uomo gli tagli le palle, non è più un uomo» dice­va mio padre. Diceva anche che invece di riscattare la plebe il comunismo trasformava tutti in plebe. Rendeva tutti morti di fame, quindi impe­diva alla plebe di riscattarsi.
Bè, secondo me l'America riscatta la ple­be. Sono tutti plebei, in America. Bianchi, neri, gialli, marroni, viola. Stupidi, intelligenti, poveri, ricchi. Anzi i più plebei sono proprio i ricchi. Nel­la maggioranza dei casi, certi piercoli! Rozzi, ma­leducati. Lo vedi subito che non hanno mai letto Monsignor della Casa, che non hanno mai avuto nulla a che fare con la raffinatezza e il buon gusto e la sophistication. Nonostante i soldi che spre­cano nel vestirsi son così ineleganti che, in para­gone, la regina d'Inghilterra sembra chic. Però sono riscattati, perdio. E a questo mondo non c'è nulla di più forte, di più potente, di più inesora­bile, della plebe riscattata. Ti rompi sempre le corna, con la Plebe Riscattata. E, in un modo o nell'altro, con l'America le corna se le sono sem­pre rotte tutti. Inglesi, tedeschi, messicani, russi, nazisti, fascisti, comunisti... Da ultimo se le son rotte perfino i vietnamiti di Ho Chi Minh. Dopo la vittoria son dovuti scendere a patti, con gli americani, e quando l'ex-presidente Clinton è an­dato a fargli una visitina hanno toccato il cielo con un dito.
«Bienvenu, Monsieur le Président, bienvenu! Facciamo business con America, oui? Boku money, tanti soldi, oui?». Il guaio è che i figli di Allah non sono vietnamiti. E con loro la fac­cenda sarà dura. Molto lunga, molto difficile, molto dura. Ammenoché il resto dell'Occidente non smetta di farsela addosso. E ragioni un po' e dia una mano. Papa compreso.

in La rabbia e l'orgoglio, Rizzoli, 2001, p. 72-77


martedì, 12 settembre 2006

11 settembre 2001-11 settembre 2006. To Cross the Line

tracceAppartengo ad una generazione (1948-più tardi che mai) nella quale la politica ha sempre contato molto. Troppo.
A vent’anni alcuni fra gli slogan più battuti erano: “il sesso è politico”; “l’esame è politico” “tutto è politico” … fino alla nausea da esagerazione. La mia biografia soggettiva intercettava quella fase di movimento collettivo. E ci sono stato.
Ho scoperto che anche per altre persone la personale scelta di campo ha coinciso con certi eventi collettivi. Basta pensare ai fascismi, alla resistenza ed alla costruzione della dirigenza dei partiti comunisti occidentali (in particolare in Italia, Francia, Spagna). Nel mio infinitesimo piccolo destino individuale è stato il colpo di stato militare in Cile del 1973 a determinare la scelta del Pci. Prima leggevo il Manifesto e proprio non capivo gli articoli di Rossana Rossanda (la “stilista del comunismo”, come efficacemente la dipingeva Giorgio Bocca): il suo estremismo razional-cerebrale e parolaio era così incapace di interpretare quei fatti! … Mi appariva chiaro che il rischio golpe di destra poteva essere contrastato solo con una larga intesa di tutte le forze democratiche e non con le piccole schegge della “sinistra extra-parlamentare”.
In questo oggi vedo in me un’assoluta continuità: ero “centrista” già allora. Consapevole che solo le posizioni di centro sanno assumersi le responsabilità delle scelte, mentre gli estremi sono immobili e appagati solo di sè nell’autocontemplazione narcisistica. Gli antipatizzanti di allora mi chiamavano il “berlingueriano”. Negli anni delle brigate rosse ed anche oggi lo ritengo un complimento. Era la sua etica che mi dava energia.
L’apprendimento nel partito è stato molto dispendioso in termini di energie individuali, ma anche illuminante sul piano sociologico. Il vecchio compagno F. mi insegno subito la distinzione fra l’”elettore”, il “simpatizzante”, l’”iscritto”, il “militante”, il “dirigente”, l’”eletto nelle istituzioni”. Ho praticato tutti questi ruoli. Poi ho visto le logiche associative e dissociative, i percorsi del potere, la manipolazione discorsiva, le carrierette, l’eterno rapporto fra ambizione personale e grandi discorsi etico-sociali. Ho dedicato molto, molto tempo, a tutto questo. Tantissimo negli anni 1974-1985: quattro sere la settimana fuori per riunioni serali, fino a tarda notte. “Il socialismo è bello, ma sacrifica troppe sere” (Oscar Wilde). Ho partecipato attivamente alla transizione verso la tradizione socialista (Pci-Pds- Ds). E solo allora ho capito che l’errore storico era molto antecedente: risaliva alla scissione del 1921. 1921-1991: accidenti … settant’anni per tornare alle origini, saldare parzialmente i conti dovuti alla frattura, ricominciare da capo (un “nuovo inizio” lo ha chiamato quella figura ormai patetica di Achille Occhetto). Per quel che mi riguarda questa appartenenza alla “famiglia” dei partiti comunisti è davvero solo “parte”, una piccola parte della mia vita (venti anni circa della vita adulta). Ma mi colpisce davvero tanto che la generazione militante dei primi decenni del novecento ha impiegato settant’anni per tornare ai lucidi discorsi di Filippo Turati sulla necessità dell’unione per battersi contro il nascente fascismo, che infatti si affermò a livello di massa. Antonio Gramsci è un autore che occupa due metri di dorsi di libro nella mia biblioteca. Ma ad avere ragione, ad essere profetico era il dimenticato Filippo Turati.
Ho altri ricordi. Persone … libri … momenti … Li lascio ad altre volte. Credo che ci saranno occasioni.

Ora devo ritornare al perché di questi fluttuanti pensieri in occasione dell’11 settembre.
 

Perché è una data seminale. Un momento sintetico che aiuta a fare ordine. A capire le forze in campo. A rileggere il passato. A proiettarsi sul futuro. A stabilire quel nesso, quella connessione fra “individuo” e “società” che dovrebbe sempre essere al centro di chi vuole dare senso al suo trascorrere del tempo vitale. Il breve ciclo biologico dentro il flusso del tempo storico.
Una parte della cultura islamica ha dichiarato guerra al mondo occidentale. Un “partito” di ricchi petrolieri (al quaeda allora, e oggi quel che ne resta e le sue filiazioni), in perfetto stile leniniano, assolda ed arma gruppetti di militanti che distruggono a New York due simboli architettonici e visivi degli Stati Uniti. L’evento in sé si riassume in 2748 morti, di cui 412 soccorritori e 12 suicidi (quelle persone che abbiamo visto volare giù dai grattacieli per non bruciare da vivi). Infinitamente più ampio è il riverbero storico-sociale. Come quando in un quadro si riesce ad assegnare significati ai colori, alle luci ed alle ombre, ai primi piani ed allo sfondo …
Io ora il quadro lo vedo così.
Vedo un nemico che odia il mio e nostro stile di vita. La mia e nostra libertà di puntare o no sui valori della famiglia. Di decidere come provare soddisfazione nella vita sessuale, qualunque essa sia: etero, omo, bi, trans eccetera. Già: eccetera ... Un nemico che mira ad annullare i fondamenti delle democrazie occidentali, forgiate innanzitutto con l’illuminismo francese. La secolarizzazione, la distinzione fra religione (come fatto individuale) e logiche pubbliche dello stato, la democrazia rappresentativa dei parlamenti e dei governi. Un nemico che utilizza a proprio favore la varietà delle opinioni che può esprimersi nella nostra civiltà (sì civiltà: intesa come processo di civilizzazione che ottiene come massimo risultato l’espansione della soggettività) per insediare cellule di partito che si organizzano militarmente con gli attentati alle stazioni ferroviarie e metropolitane. Un nemico stratificato in “dirigenti”, “simpatizzanti” interni (nei loro paesi e terre) ed esterni (i nostri estremisti di sinistra, alla continua ricerca dell’ottocentesco “proletariato” che dia la spallata “rivoluzionaria”, e di destra, affascinati dalla cultura comunitaria espressa dalle masse musulmane) e “militanti-attivisti” addestrati anche al suicidio. A proposito, la nostra psicologia ci insegna che la socializzazione comincia dall’infanzia.. Chissà se nel quadro che io vedo anche  i simpatizzanti nostrani riescono a vedere il barbaro processo di costruzione del piccolo kamikaze. A proposito di “cultura dell’infanzia” … Sono poche le parole che leggo su questo tema.
Sul piano culturale vedo, ovviamente molto in positivo, l’estrema soggettivazione della mia civiltà (in cui metto anche le politiche di welfare, le cure per minori, handicappati, anziani) e dall’altra parte l’estrema collettivizzazione dell’islamismo religioso. Ovviamente molto in negativo. Per valutare occorre sempre una gerarchia di valori. Io dò valore al soggetto ed è per questo che preferisco infinitamente modelli socio-culturali che danno valore all’individuo. Loro, invece, danno valore all’annullamento in un indistinto collettivo e questo porta la nostra storia indietro di secoli. No, grazie.
Sul piano politico i giudizi ed i comportamenti che l’11 settembre ha prodotto nei mesi ed anni successivi diventano dei grandi indicatori di tipo storico. “Siamo tutti americani” è stato lo slogan di una sola giornata. Giusto un riflesso della italianissima religione cattolica per il culto dei morti, ma al di sotto delle parole l’antiamericanismo è annidato in profondità nella cultura sia di destra (che odia gli Stati Uniti perché hanno attivamente agito per la caduta dei fascismi e del nazismo) che di sinistra (che odia gli Stati Uniti perché hanno vinto la sfida con il comunismo storico delle russie). Ed è riaffiorato alla grande in modo ancora più virulento che nel passato.
Non sono un cultore dei percorsi delle destre. Per la mia biografia sono invece molto interessato ai percorsi delle sinistre. E’ qui che, per me, l’11 settembre diventa un punto di svolta, una di quelle congiunture in cui diventa possibile e necessario to cross the line, varcare la linea. Vedo la totale incapacità della politica di sinistra (meglio della politica di cattosinistra) ad agire per la sicurezza dei prossimi decenni (a me, data la mia età, basterebbero dai 20 ai 30 anni). Questa cultura ritiene che gli Stati Uniti sono stati “puniti” da quel partito di ricchi arabi seduti sul loro petrolio a causa dell’imperialismo (dimenticando che i repubblicani di Bush hanno vinto le prime elezioni del 2000 su un programma isolazionista). Così questa cultura non è attrezzata a comprendere che la guerra dichiarata da quella parte dell’islam non è rivolta solo agli Stati Uniti (che “se la sono meritata”) ma a tutta la civiltà occidentale. Conseguentemente non riesce a comprendere che abbiamo a che fare con nemici che si articolano attraverso organizzazioni molto potenti e molto efficaci (basta pensare a come utilizzano internet e le televisioni). Con nemici esterni (gli stati canaglia: Iraq, Iran, Siria …) e con nemici interni (gli adolescenti di seconda e terza generazione e naturalmente le loro famigliole  che mettono assieme il ribellismo dell’adolescenza con i soldi e le armi che gli forniscono le cellule locali dell’islamismo fondamentalista).
Ma su tutto questo scenario complesso ed articolato, infinitamente fitto di sfumature da seguire con attenzione, una cosa mi appare con chiarezza lancinante. Appunto come quando in un quadro appare finalmente il significato ed allora si presentifica l’emozione di pensare.
Per tutto un ciclo di vita ho pensato che la divisione fosse fra capitalimo e comunismo, fra destra e sinistra, fra Dc e Pci. E vista la deriva etica del berlusconismo (avvocati nel processo il lunedì e martedì in commissione perlamentare a cambiare le leggi a favore del loro datore di lavoro) anche fra polo e ulivo. In quell’arco storico così appariva ed anche così era l' alternativa.
Oggi vedo che la faglia divisoria fondamentale, quella che un tempo avrei chiamato “strutturale”, è fra i paesi che nel secolo breve non hanno conosciuto e praticato i comunismi, i fascismi, il nazismo (e sono l’Inghilterra e gli Stati Uniti) e paesi che invece quelle scelte hanno storicamente effettuato (l’Europa fino ai suoi confini russi, l’Italia, la Spagna, in parte la Francia).
La linea di divisione è fra sistemi socio-politici impiantati sullo sviluppo della democrazia liberale e sistemi totalitari.
L’11 settembre rivela che Stati Uniti ed Inghilterra continuano la loro politica contro il totalitarismo nazifascista (negli anni 1921-1945) e islamofascista oggi. Una assoluta continuità che appare sui tempi lunghi. La Francia, l'Italia, la Germania, la Spagna, invece, contrattano poche migliaia di soldati per "portare la pace", rendendo difficile ad Israele perfino di garantirsi la sopravvivenza. Gli stessi paesi che hanno reso possibile la Shoah fanno da ostacolo all'unico scudo difensivo su Israele, cioè gli Stati Uniti. Dov'è la destra, dov'è la sinistra?
Più che mai oggi appaiono categorie politiche  incapaci di rappresentare questi tempi storici.
Questo mi ha insegnato l’11 settembre e così oggi lo ricordo.


Pro-memoria: 
A 5 anni dall' 11 settembre Europa cieca e sorda, l'opinione di Magdi Allam


 

domenica, 13 agosto 2006

Sistemi e connessioni

tracceIn piena notte senza pioggia ma con tuoni fulmini e saette veramente terribili, nel mio Buen ritiro  sono saltati sia la linea telefonica che il computer. L'effetto è straniante: isolamento comunicativo...
La mia dipendenza da rete sfuma nella patologia. Mi sento spaesato e senza i necessari supporti delle tecnologie. Senza tecnica e senza servizi oggi è materialmente impossibile esistere.
Vado in città per propiziare almeno la manutenzione del telefono.
Verifico così sul piano pratico quanto è assodato sul piano teorico. Nella modernità i singoli SISTEMI (lavandino, water closet, lampade e lampadine, frigorifero, scatola o scatoletta telefonica ...) possono anche funzionare. Ma a fallire sono prevalentemente le CONNESSIONI (acquedotti, fognature, linee elettriche, fili del telefono nello loro varianti ...)
Sistemi e connessioni possono essere ripristinati con la MANUTENZIONE (processo equivalente al lavoro di cura nelle istituzioni di welfare). Ma la manutenzione si affida ancora sulle PERSONE. E così, nella settimana di ferragosto, è impossibile attivarla.
In questo frangente, dopo vari minuti di filtro, ho potuto perlomeno PARLARE con un operatore della telecom (aveva perfino un nome: Roberto). E' l'unica nota positiva nel collasso delle connessioni.
Tento di calmare la mia patologia e penso al film Via col vento: "domani è un altro giorno..."

Post Scriptum  Solo ieri (21 settembre) sono di nuovo tecnologicamente attrezzato. La cosa più impegnativa è stata transitare dal vecchio Pc al nuovo. Per i files non c'è problema. Ma per la posta è quasi impossibile.
Apprendimento: tenere sempre su carta le cose importanti.
Il microprocessore o CPU è l'unità che elabora i dati, il "cervello" del computer. La sua funzione è quella di eseguire calcoli a grande velocità. Sa fare 500 milioni di operazioni elementari al secondo e ci fa anche stare in rete ...
La rete è una grande memoria, eppure può perderla con un battere di corrente elettrica o scontro su hardware.
Contraddizioni della tecnica!

 


18 giugno 2006. La poesia aiuta

 

Quello che posso fare - lo farò-

anche se sarà poco - un piccolo narciso -

quello che non posso fare, deve rimanere

ignoto alla possibilità.

Emily Dickinson

 

P. ha mandato questa poesia a Luciana, nell'occasione delle indagini diagnostiche di questa fine primavera, accompagnandola con queste parole:

Carissima Luciana,

non sai che gioia  nel leggere la tua lettera, e poi quelle di Paolo, con le buone notizie sulla tua salute!

So per diretta esperienza quanto sia “nero e fisso” il pensiero di una possibile grave malattia, e come quel pensiero possa venire e mettere radici nell’anima, fatto di paure antiche, ma anche portato dalle mille notizie che tutti i giorni arrivano: un amico, un parente, un collega... E’ pur vero che il cancro si cura e si guarisce, ma é altrettanto vero che stravolge e travolge la vita intera, non solo la propria ma anche quella delle persone care.

...

Ripenso alla bella giornata che tu e Paolo mi avete dedicato a Nesso, e alla fatica che avrete anche fatto a stare ad ascoltare le varie vicende un po’ pesanti che vi ho portato, essendo tu in attesa di affrontare gli esami e gli esiti. Siete dei veri, e grandi, e carissimi amici. 

Ti mando dei versi che mi hanno colpito e intenerito: sono di Emily Dickinson e  sono da leggere ogni tanto, per gustare ancora di più le lunghe serate di Nesso, i crepuscoli che almeno per qualche settimana ancora (anche se si accorciano , lo so!) hanno la bellezza della piena estate. E poi li potrai leggere in autunno, davanti al camino.  Insomma sono per i momenti di sosta, oppure per cercarli e trovarli, questi benedetti momenti. A me questi versi dicono tantissimo, mi sono di aiuto quando sono presa dalla frenesia del fare, o dall’ansia di non avere fatto, li sento di una saggezza estrema, unita allo loro liricità.

 


Nesso, 28 maggio 2006

Là in fondo, sotto il ciliegio, si sta come in un cerchio ermetico.

Il sole filtra tra i rami e cadrà dietro alla montagna all 19 e 15 ora legale (8 e 15 ora solare).

Luciana è poco più in là a coglere i raggi della sera.

E' stata un'ora perfetta.

Il senso di me pieno, la certezza che in nessun altro luogo e momento avrei potuto stare meglio.


Ancora conversazione sul jazz, metà mese di maggio

Caro Sioux, sono qui a completare il mio contributo alla discografia Jazz che hai provocato con la tua richiesta a Ruckert.

Mi accorgo che se devo andare alle origini del jazz moderno sono gli anni ’50 a venirmi incontro. In quel decennio c’è la rielaborazione di una musica che ormai ha circa mezzo secolo e che si avvia alla sua seconda fase storica. Gli album di valore sono davvero tanti. Ma ci sono alcuni che ascolto sempre volentieri, sapendo che ogni volta hanno da comunicarmi ancora qualcosa di più. 

Da dove viene fuori tanta creatività? Credo da tre fattori. In primo luogo è il decennio successivo a quello della seconda guerra mondiale: tutti i paesi stanno ricostruendosi. In secondo luogo stanno nascendo nuovi generi: il Rock, il Soul, il Rhythm and Blues. In terzo luogo il jazz è attraversato da una tensione fra due poli: una “classicista”, alla ricerca delle radici e rappresentata dal Cool Jazz, e una “modernista”, alla ricerca di ancora nuovi modi di suonare, dopo il nervosismo e la velocità del Bebop (l’Hard Bop). Queste due correnti creavano un attrito portatore di continue innovazioni: il Cool Jazz compensava l’iperattivismo del Bebop e l’Hard bop diventava la risposta alla presunta fragilità e leggerezza del Cool. E, come spesso succede, in mezzo a questi due fiumi dalle sorgenti divise, nascevano spiriti musicali originali e non riconducibili rigidamente all’uno o all’altro. 

Il Cool Jazz, già anticipato dal veggente Miles Davis, è jazz “fresco”, non “freddo” come i denigratori etichettarono subito. Un disco espressivo di questa corrente è Gerry Mulligan Quartet with Chet Baker (1953).  L’originalità e l’invenzione è un gruppo senza pianoforte: tromba, sax baritono, basso e batteria elaborano un suono morbido che lascia lo spazio per conversazioni sottovoce. Chet Baker è il trombettista maledetto dalla vita e mitizzato nel film di Bruce Weber Let’s Get Lost (“perdiamoci …”). La sua versione di My Funny Valentine è mitica e diventerà il suo segno distintivo. Basta ascoltare quei tre minuti per non dimenticarlo mai più. Ma il disco è, pieno di altre gemme: Moonlight in Vermont, Bernie’s Tune, Jeru … Pezzi lenti ed altri più veloci. Degli stessi anni è Chet Baker Sings (1954), dove è la voce a fare da protagonista. Si ascolta un jazz elegante e minimale in cui l’alternanza tromba e canto diventa l’espressione perfetta del Cool Jazz: toni sussurrati, canzoni di intensa potenza emotiva, non esagerata malinconia, ballad lentissime.   

Un disco veramente fantastico di questo periodo è Erroll Garner, Concert by the Sea (1955).  Un live suonato in una serata unica ed irripetibile a Carmel, sulla costa della California. Solo l’improvvisazione ha reso possibile questo concerto straordinario, con un prodigioso pianista “orchestrale” che rende spumeggiante il suono dello strumento. Errol Garner aveva un immenso talento, tanto da non poterlo ricondurre a generi o a mode, e uno straordinario intuito musicale che gli consentiva di passare, sfumando la fine dei pezzi, da vecchi brani dixieland, alle canzoni popolari, agli standard jazz fino a sue originali composizioni come Misty.  Michel Petrucciani, nelle sue esecuzioni al piano solo, adotterà personalizzandolo questo stile. Mentre scrivo sto ascoltando I'll Remember April, in ritmo swing pieno di idee e di variazioni, Where or When, che smonta e ricompone a velocità siderale le linee armoniche originali, Mambo Carmel, in cui sembra di vedere le mani che sul piano suonano due canzoni indipendenti l’una dall’altra, April in Paris, dove la lunga introduzione tiene nascosto fino all’ultimo il tema, per poi procedere in modo irresistibile. Applauso !!! 

Altro live meraviglioso è Ahmad Jamal, But Not For Me - At The Pershing (1955).  Ahmad Jamal è un pianista e leader di trio jazz difficilmente inquadrabile in un genere fisso. E infatti le storie del jazz sono piuttosto avare di sue notizie. Si potrebbe dire che è un personaggio interstiziale di questo mondo musicale che però (e questo è un forte indizio di bravura) è stato molto amato da Miles Davis. Il suo è un suono originalissimo, ricco di coloriture e sfumature. E’ sapientissimo nell’usare lo spazio del pezzo per caratterizzarlo con la sua personale esecuzione, come in Poinciana, che dipana otto minuti di emozionante delizia. In una delle sue rare interviste, Keith Jarrett ricorda che ascoltando Portfolio of Ahmad Jamal (1958), altro live rivelatore di immenso talento, ha capito che il suo destino era anche fare musica jazz. Ed infatti è solo la sua interpretazione di Poinciana all’Umbria Jazz del 2000 che regge l’emozione di quella originale.  Due album capolavoro, perfetti per ogni discoteca. 

Alla fine del decennio il jazz, che è una musica nomade, cerca altri confini ed altri luoghi geografici e simbolici in cui esprimersi. Ed è ancora il trentatreenne Miles Davis ad aprire la strada con Kind of Blue (1959), la sua seconda rivoluzione (e ce ne saranno altre!).  Con questo disco siamo definitivamente fuori dal Bebop degli anni quaranta e dal Cool dei cinquanta: c’è il recupero stilizzato del passato (un profumo) e la prefigurazione del futuro. L’album ha quasi cinquant’anni ma il suono è modernissimo, come appunto solo i classici sanno fare, anche se questo è un super-classico. Nel gruppo c’è anche il pianista Bill Evans: un bianco accanto a un perfino superbo nero, perché nel jazz non ci sono confini, ma solo la ricerca del suono fino a quel momento non ancora creato.  

Altro autore, direi proprio fondamentale, che contribuisce a consolidare lo stile e la qualità jazz è Charles Mingus. Tre sono gli album più rappresentativi (o meglio: che più mi ispirano): Mingus At The Bohemia (1955), Ah Um (1960) e la suite The Black Saint and the Sinner Lady (1963). Mingus è un eccezionale contrabbassista, ma soprattutto uno dei grandi compositori afroamericani del Novecento. L’unico che è accostabile alla grandezza quasi irrangiungibile di Duke Ellington. Le sue composizioni sono attraversate da memorie blues e gospel, da uno swing di grande energia sonora ed arrivano ad un caos organizzato che anticipa il dimenticabile Free Jazz dei successivi anni sessanta. Sorsate di puro jazz: o piace o non piace, non ci sono vie di mezzo. In queste composizioni si possono cogliere e percepire le strutture portanti del jazz: lo smontaggio delle armonie, il feeling fra gli esecutori, l’umorismo, la forza del leader e la cooperazione di gruppo … 

I primi anni sessanta chiudono un ciclo storico e aprono quello che arriva più vicino a noi contemporanei. Un disco-simbolo di questa curvatura musicale è Bill Evans, Waltz for Debby (1962), registrato da una serata live al Village Vanguard di New York. Questo è l’album che cambia la storia del trio pianoforte/contrabbasso/batteria. Il piacere che qui si prova è quello di ascoltare e sentire gli strumenti che colloquiano fra loro: la parola “interplay”, ossia quel particolare gusto telepatico nell’interagire di gruppo e nel passarsi i pezzi da fare in a solo, la si comprende qui. Influenzato dalla musica classica (Chopin, Debussy, Ravel) Bill Evans anticipa e pone i fondamenti di altre meraviglie che Keith Jarrett saprà esprimere negli anni successivi. Bellissima è la ballad My Foolish Heart che si dipana in modo magico: parte con la melodia del piano di Evans e del contrabbasso di LaFaro per essere raggiunta poi dal batterista Motian che gli dà sempre più spazio creando con le spazzole il tappeto su cui crescono ancora i primi due.  

L’altro disco-simbolo dell’apertura alla nuova fase è Olè Coltrane (1961). Il capolavoro è Olè, dove si percepisce che il nuovo confine ricercato da John Coltrane è l’Est. Il jazz viene portato a guardare verso oriente, passando per la Spagna. Il pezzo si avvia con un tappeto ritmico su cui si appoggia un assolo di sax discreto e delicato, poi è seguito da un duetto di basso al gusto del flamenco e infine si sviluppa in una lunga improvvisazione di tono, per l’appunto, spagnoleggiante, con continue e ricorrenti ripetizioni del tema. Sono 18 minuti di musica magmatica, molto in sintonia con alcune preferenze di oggi, anche se è stata creata 45 anni fa, e che alla fine lascia estenuati e storditi, ma anche consapevoli di avere sfiorato una vetta. 

Finisce qui il mio personalissimo contributo a questa discografia jazz. Dicevo incidentalmente che il Free Jazz degli anni sessanta è, per il mio soggettivo senso dell’ascolto e funzione che assegno alla musica nella vita, del tutto dimenticabile. Ma poi avviene un fatto rilevante, acutamente osservato da Joachim Ernst Berendt nel suo importante libro “Il nuovo libro del jazz” (1981):

“Finora abbiamo potuto contrassegnare ogni decennio con uno stile ben definito …Con l’inizio degli anni Settanta questo principio viene a cadere. Perché gli anni Settanta sono caratterizzati da almeno cinque tendenze: Fusion o jazz-rock … estetizzazione del jazz … la corrente principale del jazz continua a fluire … nuova generazione del free jazz … graduale formazione di un nuovo musicista che trascende e integra il jazz, il rock e le varie culture musicali”

Insomma oggi i generi tendono a mescolarsi sempre di più. La globalizzazione e la connessa interdipendenza attraversa anche la musica e i generi si contaminano, talvolta in modo eccellente.

I gusti si moltiplicano e l’estrema soggettività delle persone che ascoltano si fanno molto interessanti. Diventa possibile ed interessante scoprire cosa, come e perché le persone ascoltano e provano piacere nell’ascolto e pronunciare il fatidico aggettivo: “bello”.

E’ anche per questo che sono curiosissimo per le proposte di Ruckert ed amici e naturalmente per i tuoi giudizi, caro Sioux, che hai aperto questa ricerca.


Conversazione sul Jazz, primi giorni del maggio 2006

Un certo Sioux, sul blog di Ruckert chiede consigli per ascoltare musica jazz. Una pacchia per gli amanti !

Caro Sioux, vedrai che sarai travolto da tantissimi titoli. Hai anche creato l’occasione per comporre una interattiva rassegna della musica jazz. Da un piccolo desiderio può nascere una cosa molto interessante.
Il mio personale contributo alla tua ricerca sarà di tipo storico.
Ti propongo alcune tracce che mi sembrano “segnare” i passaggi di questa musica. O meglio che hanno segnato alcuni tratti della parte musicale della mia vita. Metto assieme questo essenziale elenco immaginando un viaggio durante il quale ho un piccolo zaino dove posso portarmi dietro solo poche cose. Ma fondamentali. E scegliendo Cd recuperabili immediatamente attraverso la rete web.
Si comincia con Louis Armstrong. Il suo suono della tromba in “West and Blues “ del 1929 rappresenta la nascita del jazz moderno. E’ come se in quell’istante avesse indicato la strada su cui tutti, dopo, hanno camminato. Lo trovi (assieme ad altri altri pezzi miliari) nel Cd “Louis Armstrong - Ken Burn Jazz”
Contemporaneo, ma su un filone parallelo c’è Duke Ellington. Innanzitutto il direttore di orchestra, l’infaticabile organizzatore di gruppi, ma anche il finissimo pianista. Dalla immensa discografia tirerei fuori “Sophisticated Lady” , “Take the “A” Train”, “Caravan” (uno standard seminale rielaborato centinaia di volte, fino all’altro ieri), “Mood Indigo”, “In a Sentimental Mood”. Li trovi nel Cd “Duke Ellington – Ken Burn Jazz”. Non potrebbe mancare nel mio corredo di viaggio l’omaggio di Nina Simone: “Nina Sings Duke Ellington” del 1963.
Poi occorrerebbe passare al Bebop (fine anni ’40). I due ideatori ed interpreti sono: Charlie Parker e Dizzy Gillespie. Non ti suggerisco titoli perché non mi è mai piaciuto il Bebop. Qualche lettore storcerà il capo e io proverò a sentire quello che lui propone.
Invece, proprio di quegli anni, non ti dovrebbe sfuggire Miles Davis “Birth of the Cool” (1949). E’ la prima rivoluzione di Davis. Sempre ai confini, sempre con lo sguardo in avanti. Un musicista fieramente nero fa incontrare i suoni della musica nera americana con quelli della musica bianca di tradizione europea. La fusione crea un genere nuovissimo pieno di energia e raffinatissimo. Imperdibile.
Ancora su questo percorso della contaminazione “America ed Europa” e anche “classica e jazz” è fondamentale il quartetto del Modern Jazz Quartet, per quarant’anni amorevolmente tenuti assieme dall’amatissimo John Lewis. Uno dei miei musicisti del cuore. I denigratori lo etichettarono “jazz da camera”. In realtà è blues e swing concentrati anche in una sola nota. In questo momento sto sentendo il “Piazza Navona”. Una delizia che arriva dal passato (1955). Gli eventi successivi hanno dato ragione a John Lewis. I denigratori erano dimenticabili e infatti sono stati dimenticati. Invece loro rimangono nella storia come dei classici. Per non perdere niente dei loro gioielli ti suggerisco: “The Modern Jazz Quartet, MJQ 40 Years”. E’ un tesoro in cofanetto composto da 4 cd che sulla rete si può ottenere anche a soli 9 euro!
Mi fermo qui. Per ora. Ma ritornerò con ancora (pochi) titoli. Forse in giornata
Ciao a Sioux e a tutti gli amici della rete

 

Ritorno fra me e me.

Trovo conferma che la rivoluzione comunicativa dei Blog stimolano non solo le relazioni associative fra le persone, ma danno anche l'occasione per tirare fuori i ricordi.

Riprendo in mano un libro di mio padre. Uno di quei libri che lui mi proibiva perfino di guardare e che io ho potuto leggere solo dopo il 1989, anno della sua morte. Padre assenti che si presentificano solo dopo la loro vita. Non molto strano.

 

 

 

 

E' del 1955. Ed è composto seguendo in dettaglio tutte le tracce (allora su dischi a 78 giri, pesanti e oggi si direbbe ingombranti) del jazz fino a quel momento suonato .

Didascalico, preciso, filologico. Mi posso immaginare Livio Cerri, chino su una macchina da scrivere (altro che la tastiera dl pc che ho davanti e con la quale posso continuamente correggermi e comunicare immediatamente a chiunque mi trova e fosse interessato della mia storia biografica !).

Ecco cosa dice del West end blues (che è del 1928 e non del 1929) di Louis Armstrong:

 

uno dei migliori pezzi di jazz mai incisi. Esso è costituito da una introduzione per tromba che è ormai classica e da cinque ritornelli sul tema di blues preso a tempo lento.

Nel primo di essi la tromba espone con maestosità la melodia, mentre gli altri melodici sostengono in armonia. Il secondo è un semplice e malinconico assolo di trombone, mentre nel successivo si hanno delle domande e risposte fra il clarinetto nel registro grave e lo « scat » di A. : le parole non possono esprimere la suggestività di questo duetto dove la voce di A. è dolce, vellutata e dotata di commovente dizione. Segue un ritornello di piano del migliore Hines ed il rientro della tromba di A., il quale tiene una nota acuta per quattro misure per poi continuare con delle frasi a sedicesimi che ci portano alla breve coda del disco.

pg. 64-65

 

Ancora magistrale, anche a distanza di cinquant'anni, è la sua definizione del Cool Jazz:

 

La musica dei coolsters si differenzia da quella dei boppers per tre principali caratteristiche: 1) Un idioma di improvvisazione più semplice e soprattutto più calmo o, se si preferisce, più « relaxed » ; 2) Una decisa tendenza alle staccature moderate (e non rapide) ed a un « beat » più morbido; 3) L'uso frequente, specie negli assieme, di una armonizzazione complessa che, molto più del bop, risente della musica europea contemporanea e che tende piuttosto al politonalismo che all’atonalismo.A sua volta la musica cool si distingue da quella progressiva per due considerazioni generali: 1) la molto maggiore ortodossia jazzistica; 2) l'uso quasi costante di formazioni ridotte (in genere da tre a nove elementi) invece dell'orchestone polisinfonico.

p. 308

 

 


Conversazione sulle radici dell'odio

10-21 Aprile 2006

Leggo sul suo Blog un bell'articolo di C. R. sulle radici dell'odio.

Si tiene largo e profondo. Associa l'odio, anche quello contingente dell'ultimo ciclo elettorale, ai sentimento dell'invidia e della paura.

Questo tenersi largo mi invita alla conversazione.

 

Paolo: Profondo, come sempre, il tuo pensiero.
Non so se è il caso di usare categorie così sottili per le due italie che anche l’esito elettorale segnala. La politica ormai passa per la comunicazione televisiva. E lì le antipatie, il disprezzo, il linguaggio sprezzante fanno forse male solo a chi coltiva una propria memoria dello stato, delle istituzioni. A me fanno male, ma per la gran parte delle persone osservo che è solo risata da bar e da stadio.
Invece, l’odio che mi sembra più storicamente vero è quello dei musulmani nei confronti della nostra cultura e dei nostri stili di vita: “Voi amate la vita e noi amiamo la morte. Per questo siamo più forti di voi”.
Qui sì che vedo un odio da invidia.
Solo una intelligenza da Cassandra, come quella di Oriana Fallaci poteva vedere così bene dove sta l’odio di prossimi decenni.
Grazie per la riflessione

 

C.: Caro Paolo, non ho una memoria così positiva del nostro stato e delle nostre istituzioni. Le ho sempre vissute, fin da ragazzino, come ipocrite, pericolose, all’occorrenza violente (e i ricordi sono lì, pronti). Non ho mai creduto alla retorica della saldezza e purezza della democrazia e dello stato italiano: sono entrambi recenti, nati e rinati nella violenza, nel delitto e nell’ambiguità. Un filmaccio da cui si staccano le figure silenziose di Luigi Einaudi, e Alcide De Gasperi. Stato e istituzioni sempre condizionati e manipolati da poteri forti (quelli che già fornivano autocarri rotti ai soldati fin dalla prima guerra mondiale), che colonizzarono lo stato fin da poco dopo la sua nascita. Il loro stile, di stato e istituzioni, non è mai stato dignitoso e rispettoso del cittadino, ma ridicolmente pomposo, sussiegoso e, subito sotto, di intimidazione. Alberto Sordi, e i testi e film di Vitaliano Brancati e Leo Longanesi (compresi i suoi disegni), sono documenti storici più precisi di qualsiasi falso e onorato testo sugli stessi anni. Che continuano oggi. Quel che mi dispiace è che la sinistra abbia sostituito ad una dignitosa cultura dell’antagonismo di classe, storicamente sbagliata ma leale, una volgare produzione di invidia sociale collettiva, privando il popolo di ogni alimento culturale che non sia il pettegolezzo più indecente, o il delirio paranoico del “potente-persecutore-causa-di-tutti-i-guai”. Su questo sì, si è consumato un delitto che ha trasformato una parte consistente del popolo italiano, di suo umano e dignitoso in una massa informe di serve (mi perdonino le vere serve che sono, naturalmente, di ben altra classe, spesso con autentici spezzoni di cultura contadina). La speranza è che queste categorie intossicate dal risentimento (proprio nel senso del Réssentiment di Nietzsche, ma anche di Girard), e paranoicizzate, diffuse soprattutto nei percettori di comode, ma frustranti, rendite (compresi i baby pensionati, gli studenti che rapinano le pensioni dei genitori, gli insegnanti che non insegnano nulla), vengano gradualmente marginalizzate dai tanti che invece ancora, (e di più), studiano e lavorano, senza lasciarsi intossicare da questi veleni allucinatori (di cui la cannabis è uno dei veicoli materiali).
E’ una battaglia tra malattia (dell’anima ed economica), e processo di risanamento ed autentica modernizzazione, che si gioca sul filo del rasoio, e della pelle dei nostri figli. La Tv, naturalmente, fa schifo ma, in una situazione di informazione così manipolata e stravolta, meno male che c’è: qualcosa, i volti, gli accenti, e i gesti, lasciano filtrare sulla realtà.
Sull’Islam hai senz’altro ragione.
Un forte abbraccio,
Claudio

 

Potrei continuare questa conversazione?

Potrei scrivergli sul suo Blog. Vista la risposta, e rimanendo sul piano della contingenza storica o dell'Italia del ciclo 1946-1992, l'esito sarebbe una comunicazione simmetrica. Troppo inutile dispendio di energie psichiche ed intellettuali

Potrei scrivergli di persona. Ma per dire cosa? Per ribadire le due memorie ? Fra l'altro la mia è una memoria che non comprende la seconda guerra mondiale e i suoi dolori.

Resta questo diario quasi pubblico. Per dire che quando parlavo di "una propria memoria dello stato, delle istituzioni" intendevo riferirmi anche ai tre poteri di Montesquieu. E allo sfregio dei questi principi, quando gli avvocati di Berlusconi alla mattina di lunedì erano nel processo e la mattina dopo in Parlamanto a cambiare le regole su cui stavano agendo in giudizio. Qui c'è stato un disprezzo di due secoli di diritto. E un odio per le istituzioni.

Però ... Però ... anche questa conversazione è fonte di apprendimento. Anche un grande psicanalista può essere preda di sue incontrollabili pulsioni emotive. Poco razionali, poco pensate, piuttosto superficiali, molto unilaterali (aggettivo che ho imparato da lui).

Il berlusconismo ha fatto molte vittime.

Nulla cambia per la gratitudine che devo a quest'uomo, incontrato, forse fortunatamente, in un'altra fase del suo ciclo di vita.


Conversazioni sui Blog

14-23 aprile 2006

Paolo Mi è piaciuta la tua rievocazione biografica sul Blog. Volevo dirti subito - in breve - perchè trovo di grandissimo interesse culturale i Blog. Perchè credo che attraverso questi scritti e nei commenti stia avvenendo una rivoluzione. Cioè la costruzione di una intelligenza associativa. Ossia l'elaborazione di nuovi modi di pensare il mondo attraverso piccoli francobolli che fanno vedere le associazioni fra gli eventi e la loro interpretazione. Qualcosa che ha un equivalente storico solo con la nascita della "opinione pubblica" che è avvenuta con l'illuminismo francese. Nei blog vedo cultura, interessi, passioni. Tutte spezzettate: ma questa è la modernità. La modernità è frammento. Solo ogni singolo individuo può tentare di "mettere assieme". Così i tuoi foglietti ne cassetti possono uscire. E magari incuriosire qualcuno .. che così incontra altri pensieri ... Una grandissima rivoluzione. Tanto più profonda perchè molecolare. Con i blog si vede vistosamante che non c'è la "massa" (il riferimento-base dei fascismi e dei comunismi) ma individui pensanti che associano le loro intelligenze e sentimenti.

 

Ruckert:  l'idea reticolare nella diffusione delle idee è interessante, bisognerà capire se e come prenderà piede, se non c’è il rischio che la rete possa imprigionare piuttosto che liberare, magari inserendoci in piccole comunità autoreferenziali. Il rischio, inutile negarlo, esiste come la potenzialità. Come spesso accade il problema è bilnaciare le due cose e fare in modo che da questa babele di passione interessi ideali possa venir fuori una massa critica (o magari diverse masse critiche) di maggiore respiro. Anche qua il tempo ci risponderà, per ora possiamo solo immaginare... Ciao :)

 

Paolo: "se non c’è il rischio che la rete possa imprigionare piuttosto che liberare, magari inserendoci in piccole comunità autoreferenziali" E' vero. Allora l'unico ragionamento possibile è: qual'è il minore dei mali? LE autoreferenzialità? o il pensiero unico (insisto: quello delle culture totalitarie)? Propendo per il primo corno del dilemma. Trovo più libertà di pensiero in piccoli gruppi che condividono più comuni sentire. Il vero problema lo vedo nella possibile superficialità dei contatti. Relazioni sociali basate su "francobolli" tendono ad impoverire i significati di conoscenze più profonde e complessive.
Ciao Amalteo

 

Ruckert: vero, ma se ci fosse la terza via? L'ideale sarebbe combattere l'aureferenzialità in modo tale da ampliare sempre di più le piccole comunità che poi interagendo tra loro riescono a fare quella massa in grado di sviluppare la circolazione delle idee, che ne pensi?

 

Paolo: Caro Ruck, questa volta temo che o non siamo in sintonia o non ci capiamo. E' la parola massa che mi incute timore, pensando al passato, soprattutto al secolo breve (1917-1945). Meglio infinitamente meglio individui che comunicano. Parlanti che crescono individualmente sulle normali sfide di una normale vita: nascita, crescita, espansione della personalità, fatica del lavoro, accettazione della morte. Nella massa c'è sempre bisogno di un capo. Come insegna anche la vicenda politica italiana: un popolo televisivo (non i parlanti dei blog) ha ancora acclamato un capo. Che non accetta le regole della democrazia. Ben sapendo che le televisioni sono sufficienti a creare qual "senso comune" che gli consentirà (probabilmente grazie a Bertinotti) di vincere per la terza volta. La televisone fà massa, i blog possono fare individui che trovano quei comuni sentire basati sul'intelligenza associativa. Ciao e grazie per gli stimoli a pensare

 

Ruckert Non credo che non siamo in sintonia forse bisogna solo capirsi. Proviamoci magari partendo da un linguaggio comune perché bisogna intendersi sul senso delle parole. Al termine massa critica non voglio dare quel significato. Preferisco immaginare che l'insieme, anzi meglio la presenza sempre più numerosa di individui che comunicano e interagiscono tra loro crescendo individualmente, possano consentire un miglioramento qualitativo della società nelle sue diversità. Più la massa dei pensieri liberi aumenterà, più sarà possibile avere un miglioramento, a condizione però che tutti questi individui mantengano il più possibile un atteggiamento aperto verso l'esterno, in modo tale anche da far sviluppare in modo reticolare questo modello. E questa massa a differenza del passato potrebbe non avere necessità di un capo gerarchicamente sovraordinato proprio per la presenza di un reticolo che si muove orizzontalmente. Che dici? Siamo davvero così distanti? Ciao :)

 

Paolo: caro Ruck. Era proprio un malinteso linguistico sulla parola "massa". Sono del tutto in accordo con il tuo ragionamento. Fra l'altro, nel tuo caso, non è solo un "ragionamento" ma una pratica attiva. La tua intelligenza e capacità di pensiero la vedo sempre messa in atto nelle tue interazioni con amìci di vecchia data o occasionali. Ti sei costruito con loro un cerchio-reticolo in cui amplificate le vostre esperienze ed i vissuti. Ecco la forza dei blog: una rivoluzione attraverso il parlarsi. Insomma una volta tanto la scienza e le tecniche possono essere utilizzate in modo attivo e partecipato. Dati i tempi che continuano ad essere piuttosto crudeli è davvero molto. ciao, a presto


MariaPrivi  ad agosto sarà un anno che frequento il mondo bloggaro. Tempo di consuntivi? Ma no! Non ci credo.
Solo un momento per conversare.
Il blog è uno specchio abbastanza fedele dei tanti pubblici "reali". Un mezzo con buone peculiarità ed inevitabili difetti.
Permette rapida, ed a volte mirata circolarità delle idee, ma si rischia di ricevere informazioni errate.
Eppure da Alex, con i blog, abbiamo ottenuto persino risultati concreti -vedi da me: Come muore la mia terra-.
Io con il blog faccio di tutto: amicizia, lavoro, passatempo.
Per alcune persone può diventare indispensabile (vecchi, persone sole, persone con bisogno ed impossibilità di comunicare altrimenti), per altre una droga (autoreferenzialità, sindrome del contatore, sostituzione impropria del virtuale con il reale), c'è chi lo adopera per raccattare sesso e chi per suscitare compassione.
Un buon mezzo, un cattivo mezzo, secondo l'uso -sia attivo, sia passivo- che se ne fa. Un mezzo sicuramente in linea con il carattere del nostro tempo.

Paolo  condivisione piena, cara mariaprivi. Ben ritrovata! Mi fa immenso piacere che anche tu valuti positivamenta la rivoluzione comunicativa dei Blog. Condivido tutto, ma proprio tutto, quello che dici: luogo innanzitutto di conversazione; specchio fedele (quasi un campione) della opinione pubblica; rapidità nella circolazione delle informazioni; nuovi tipi di amicizia, non basata sulla vicinanza fisica, eppure forte ed affettuosa; spazio comunicativo per le persone sole anziane (direi anche: allenamento del cervello e quindi prevenzione della decadenza della memoria); compulsività per alcuni (è vero: però meno dannosa dei telefonini, perchè è mediata dalla lingua scritta, che è sempre un esercizio di ordine); certo anche luogo per promuovere incontri sessuali (che, però se consenzienti e sicuri, sono una gioia della vita).
Vero, verissimo: un mezzo, uno strumento. Non un fine. Uno strumento al servizio della personalità.
Dei blog amo moltissimo le coincidenze (incrociare persone particolari che magari mai avrei potuto conoscere) e le occasioni. Per esempio in queste ore sul blog di ruckert (post Gotan project) sta avviandosi la stesura di una discografia jazz interattiva che potrebbe concludersi con un testo quasi collettivo su questo genere musicale del novecento. ciao carissima. a presto

 


Blog e conversazioni musicali

20 aprile 2006

Paolo: caro nocedifool, arrivo a questa pagina attraverso Kosmogabri. Volevo dirti che è così che si dovrebbe raccontare un concerto Jazz. La critica professionale interpone troppi filtri valutativi e sottovaluta il rapporto che il musicista ha con il suo strumento, gli altri del gruppo (quando ci sono), ed il suo pubblico. Spesso il piccolo pubblico che ascolta jazz. Mi hai fatto ricordare l'emozione, ai limiti della commozione, quando avevo a due metri John Lewis (il fondatore del Modern Jazz Quartet) in un concerto a Vicenza, tre anni prima che morisse. Essere a a contatto con il "creatore" di uno stile !
Insomma mi è molto piaciuto il tuo racconto, volevo dirtelo e e ti ringrazio.Non conosco Dave Burrell, pur ascoltando quasi solo jazz. Ma è un mio limite (non amo il free jazz). Ma ora proverò ad accostarlo. Colgo l'occasione per consigliarti quello che sto predicando ovunque: di ascoltare i jazzisti australiani The Necks. Trovi informazioni anche sul mio blog
ciao, scusa l'intrusione e arrivederci ai prossimi ascolti. Amalteo

 

nocedifool scusa l'intrusione??? amalteo, perché scusarsi, se questo luogo nasce proprio dal sacro e sano desiderio di farsi invadere dall'altro? anzi grazie per aver lasciato traccia del tuo passaggio e per il consiglio su the necks. li cercherò.
per quanto riguarda il free, non posso dire di amarlo. per il tipo di sensibilità che ho, lo trovo difficile, a volte troppo cerebrale e ho l'mpressione che ci siano esponenti che approfondiscano questo tipo di atteggiamento, allontanando l'ascoltatore invece di agganciarlo. poi accade come nel caso di burrell che qualcuno usi il free senza perdersi in cerebralismi e seguendo invece la sua anima. e capita che quell'anima vibri insieme alla tua. quando accade si sente, eccome se si sente. volevo scriverlo che burrell non è facile da ascoltare. che poi l'effetto che ha fatto a me può essere ben diverso da quello che fa a un altro e quasi sicuramente l'effetto che ha fatto a me, anche nel ricordo a un anno di distanza, dipende dall'incontro umano che ho avuto la fortuna di vivere dopo. ma poi è sempre così in fondo, ognuno ascolta diversamente, con il proprio vissuto, con il proprio stato d'animo del momento, la propria fisiologia del momento oserei dire. e poi le categorie non mi piacciono, non le ho mai capite e dunque neppure mai imparate, allontanano invece di avvicinare, l'ascolto si fa già con un pregiudizio. non ho mai amato neanche la storia della letteratura fatta per scuole e periodi invece che per letture. come la storia dell'arte o quella del cinema. uno bada alle categorie più che all'opera. così non mi piace. servono ok ma a volte ne abusiamo. così non sono io a leggere e vivere la creatività altrui attraverso la mia, così metto occhiali che non corrispondono al mio sguardo. beh, dopo tutto questo bla bla, passo a trovarti anch'io.

 

Paolo  bene. sono molto contento dell'incontro. Fra poco incollo il tuo lindirizzo al mio blog e così non perdiamo il contatto. Condivido il tuo spirito nell'ascolto. Bisognerebbe fare così. Anche se io mi appoggio abbastanza alla critica musicale. Ma come ti dicevo prediligo gli "ascolti del cuore".E' per questo che vado spessissimo su debaser, ciao. Ti raccomando MOLTO i Necks: sono straordinari !!!


Blog e conversazione sui lupi

16 aprile 2006

Una riflessione sui lupi (e sulle lupe) nel Blog di Kosmogabri ha fatto affiorare alla mia memoria alcune canzoni dei vent'anni:

Peccato che qui la simbologia animale sia utilizzata per rievocare l'invasione tedesca in Francia.
Ma, a compensazione, mi sono anche ricordato di quest'altra canzone/poesia di Leo Ferrè:

Les loups les loups
On ne les voit jamais que lorsqu'on les a pris
Alors on voit leurs yeux comme des revolvers
Qui se seraient éteints dans le fond de leurs yeux
Alors on n'a plus peur de ces loups enchaînés
Et on les fait tourner dans des cages inventées
Pour faire tourner les loups devant la société
Des loups endimanchés des loups bien habillés
Des loups qui sont dehors pour enfermer les loups
Je les aime ces loups qui nous tendent leur vie

A ulteriore conferma che, quando un simbolo è potente, esso può assumere significati molto diversi ed anche opposti.
Sul lupo (una lupa in realtà) c'è anche un racconto straordinario di Corman McCarthy . Cerco una breve traccia e la trovo su Cavallo Magazine.

Siamo alle soglie della Seconda guerra mondiale, Billy e Boyd sono figli di un piccolo allevatore del New Mexico, autoritario e taciturno. Nel loro sangue vive il ricordo della nonna materna, messicana: il paese al di là del confine attira entrambi con un fascino irresistibile. Catturata una lupa che si sta accanendo sul bestiame dei Parham, Billy decide di non consegnarla al padre, che la ucciderebbe, e cerca di riportarla sulle montagne messicane per restituirla al suo mondo.
Inizia così, con un'insolita e struggente storia d'amore, il lungo viaggio avventuroso che porterà i due fratelli a ricongiungersi, a perdersi e a ritrovarsi di nuovo.
Il vero protagonista di questo romanzo, tuttavia, non va cercato tra uomini e animali: il paesaggio, metafisico ma concretissimo, assume qui il ruolo essenziale di testimone muto e spietato. Ed elementi naturali del paesaggio sono le figure ebbre e sapienziali del cacciatore di lupi, dell'eremita, del cieco e dello zingaro che Billy incontra nel suo viaggio. Da loro impara che «l'atto non è nulla senza il testimone» e che «la storia non può mai essere separata dal luogo al quale appartiene». Ma anche che il paese immaginario in cui gli uomini vivono e muoiono non si trova mai oltre il confine dei loro stessi cuori.


Elezioni del 9 aprile 2006, mattino

La politica come luogo pubblico dell'agire.

L'attesa

 


2 Aprile 2006

Rapiscono Tommaso, un bambino di due anni. Un bambino già sofferente ed ammalato. Lo fanno in modo premeditato, procurandosi il farmaco che avrebbe dovuto alleviare le sue crisi.

Poi lo ammazzano quasi subito a badilate. Lo seppelliscono nella campagna. Lì vicino.

E per un mese rilasciano interviste ai giornali, facendosi pagare. E dicono le solite cose del familismo italiano: la famiglia, i bambini ...

Per un mese tengono in scacco le indagini. Lanciano messaggi insinuanti sul padre, diffondono l'idea che il bambino sia ancora vivo ....

E' in questi momenti che apprezzo il controllo sociale. O meglio: capisco l'importanza delle regole che sono e devono essere fuori da me. Imposte dalla storia e dal diritto
Altrimenti il mio primitivismo interiore tenderebbe a dilagare fino a portarmi a non vedere più come un orrore le sentenze esibite nelle piazze medievali.
Tuttavia in questo evento vedo un problema, grande e profondo: la tendenza garantista a vedere innanzitutto le ragioni socio-culturali in chi commette il reato piuttosto che il dolore delle vittime è totalmente sprovveduta di argomenti quando ed essere violato è il diritto di vivere di un bambino.
In una società che non interiorizza questo tabù, questo limite che mai deve essere valicato, la barbarie è lì vicina a noi.


Ricordi. 21 marzo 1985-21 marzo 2006: 21° anniversario di matrimonio

Ci regaliamo un piccolo viaggio a Zurigo, per sentire un concerto dei Pink Martini, al  Kaufleuten Restaurants

Come la Svizzera tedesca vede i Pink Martini:
Eine Art "Musikarchäologen" seien sie, die Melodien und Rhythmen der ganzen Welt vereinigten, um daraus etwas Modernes zu formen, sagt der Pianist Thomas Lauderdale. Er gründete vor 10 Jahren in Portland, Oregon, Pink Martini. Ursprünglich tat sich das Dutzend Musiker mit Wurzeln in klassischer und kubanischer Musik sowie im Jazz zusammen, um Geld für gute Zwecke zu beschaffen. Doch aus Pink Martini wurde eine Band, der mit der Ode an die Erholung namens «Je ne veux pas travailler» ein weltweiter Club-Hit glückte und deren erste CD «Sympathique» sich auf dem Band-eigenen Label gleich 650'000-mal verkaufte. «Hang On Little Tomato» heisst ihr neuer Exploit.


China Forbes, vocals - Thomas Lauderdale, piano - Robert Taylor, trombone - Gavin Bondy, trumpet - Paloma Griffin, violin - Doug Smith, vibes/percussion - Brian Lavern Davis, congas/percussion - Timothy Nishimoto, vocals/percussion - Phil Baker, bass - Martin Zarzar, drums

 

 

Alloggiamo in un albergo un po' equivoco. Ma il contatto con Zurigo è interessante per tutto ed anche per questo.

Città di fiume, di lago, di montagne a due passi e di tram progettati con perizia ammirevole.

I Pink Martini sprizzano simpatia. E mettono allegria. Molta allegria.

Lauderdale è il folletto sel gruppo. Davvero molto bravo. Un vero leader modesto e al servizio del gruppo. E China Forbes ha una presenza scenica e una capacità di canto da divina.

Le loro musiche rinnovano e migliorano motivi sudamericani, italiani, francesi, giapponesi.

Magnifici restauratori che rendono divertenti i pezzi della vita.

Bello anche l'attraversamento della Svizzera in treno.

La memoria farà il resto


Teatro. La (per me tardiva) scoperta del teatro.

Sto vivendo una specie di nuova rinascita culturale. Ci voleva la pre-vecchiaia per valorizzare questa esperienza.

A Milano il 10 Marzo 2006 Carlo Rivolta recita l'Apologia di Socrate di Platone (Teatro Santo Domingo, Nord di Milano, alla metà di Viale Lodi)


Blog

Coinvolgo anche Luciana. Attraverso la sua propensione alla scrittura ed al comune interesse per il teatro, che apprendiamo attraverso il corso sulla Lettura espressiva di Marco Ballerini.

Scrive in pochissimi giorni recensioni, commenti, raccontini/copione per gli esercizi di lettura:


Il Blog AMALTEO e il mio Io diviso: di centro-sinistra in politica interna, di centro-destra in politica estera

Il 2006 è anche l'anno del mio accesso alle forme comunicative dei Blog.

Nel linguaggio di Internet il termine Blog è la contrazione di due tecnicismi della rete, Web e Log, letteralmente "traccia sulla rete". Storicamente hanno cominciato a diffondersi negli Stati Uniti dal 1997, quando alcuni internauti iniziarono a pubblicare i resoconti personali sui siti internet privati aggiornati quotidianamante. Di fatto il Blog è un diario in rete, anche se la sua successiva trasformazione ne fa uno strumento con potenzialità comunicative ben più ampie di quelle di un "diario pubblico".

La prima parola gergale che ho dovuto imparare è stata qualla di "post": messaggio testuale che viene scritto in un blog o in un forum per essere commentato.

Le mie settimane sui Blog sono cominciate cominciate quasi subito con una accesa discussione fra persone che non riescono neppure a capirsi, tanto gli orizzonti sono lontani. L'argomento è stato la religione, e in particolare quella musulmana.

 

26 febbraio 2006

Aderisco ad un appello Per l'occidente forza di civiltà sostanzialmente promosso dalla destra italiana.

Motivo così la decisione con questa lettera:

Con molti dei promotori non farei neppure un viaggio nello stesso scompartimento del treno. Preferirei stare in piedi, nei corridoi.
Con alcuni (pochi) mi troverei, invece, benissimo a parlare anche per ore.
Però il documento è di largo respiro storico. Contiene principi giusti, anche se le radici culturali europee non sono solo nel cristianesima, ma anche nella filosofia greca e nell'illuminismo frabcese. Non è un testo offensivo su altre culture politiche. E questa  situazione storica chiede di interrogare il futuro.
Quindi lo sottoscrivo volentieri e con convinzione.

In questi tempi non si può essere eccessivamente schizzinosi
Fortunatamente vivo nella modernità dove e quando si possono avere diverse “identità”: politiche, culturali, familiari, letterarie, musicali…
L’europa è anche pluralismo identitario: la cultura greca, quella cristiana e quella della ragione illuminista. Ed è sotto scacco da una aggressiva cultura priva (del tutto priva) di sfaccettature e sfumature. Una cultura innanzituto religiosa e poi politica che minaccia così: “voi amate la vita, noi amiamo la morte. Per questo siamo più forti”
E’ molto triste per me. Sarò un elettore del centrosinistra e sarò felice se prevarrà sulla coalizione di centro -destra che ha fatto le leggi ad personam e alterato i principi fondamentali basati sulla distinzione dei tre poteri .
Ma sulla politica estera le ragioni sono, per me , tutte a destra.
E in politica interna le ragioni, per me, sono tutte a sinistra.
Forse il pluralismo identitario della nostra cultura è proprio questo.
Peccato che non ci sia una rappresentanza politica che è in grado di accogliere la mia sensibilità (che penso sia anche di molti)
Paolo Ferrario


Questa mia scelta ha suscitato solo critiche, raccolte sui Blog dove l'ho raccontata. La cultura di sinistra è davvero molto unilaterale e per nulla tollerante.

A futura memoria voglio ricordare gli eventi.


V. sul suo Blog mi scrive

Caro Paolo,

tu sai che per lavoro, oltre che dei grandi vecchi, mi occupo della casa di accoglienza per immigrati, sia italiani che stranieri. Tralascio di farti l’elenco delle sfighe che vedo la volta alla settimana che ci vado. Se fosse per me obbligherei gli aventi diritto al voto a un mesetto nella casa. Negli ultimi due anni ho visto cambiare l’utenza italiana: non più e solo lavoratori immigrati dal sud, temporaneamente o definitivamente, ma anche pensionati che non ce la fanno a pagare un affitto, ex-carcerati appena rimessi in libertà, tossici  e/o alcolisti e/o psichiatrici a cui i servizi sociali non riescono a dare risposte, insomma un campione di dropout dalla coperta sempre più piccola del welfare.

Gli immigrati stranieri extracomunitari sono circa il 30% e tutti con regolare permesso di soggiorno. Andiamo dall’australiano al marocchino, al moldavo, al senegalese, allo svizzero ecc…

Di solito hanno un lavoro o lo stanno cercando. Raramente ho avuto problemi con loro.

Il mio ruolo prevede che assuma la responsabilità di mandare via chi è incompatibile con la vita di comunità, di quella comunità, con quelle regole. Che sono quelle di un normale albergo. Probabilmente ho rischiato l’incolumità più con quello uscito da Castiglione delle Stiviere che con il marocchino dell’altro giorno.

Che è successo?

Come in ogni albergo si deve lasciare libera la camera per le pulizie entro una certa ora.

Il signore marocchino, alla signora delle pulizie che ha bussato alla sua camera, dopo l’ora stabilita, ha risposto con insulti personali del tipo: ma non vedi come fai schifo, sei brutta, come fa tuo marito a guardarti…, il tutto perché lui stava pregando. La signora in questione è bosniaca, profuga in Italia da allora, di genitori uno mussulmano e uno cristiano, ha perso buona parte della sua famiglia.

Beh, io l’ho mandato via. Mica perché mussulmano. Mica perché mi guarda come se fossi una capra, mica perché non paga a me perché sono, come donna, un essere inferiore. Problema suo, non mio. Ho mandato via anche il cattolicissimo pluriomicida da Castiglione. Semplicemente perché ci sono delle regole di convivenza da rispettare, che sono assolutamente aconfessionali. Punto. E a cuor leggero, perché mi so libera.

Quindi l’idea che mi sono fatta è questa: il nostro futuro, e penso all’intero pianeta, è di ricercare uno spazio di regole condivise, aconfessionali e civili.

Non possiamo restare prigionieri del dualismo perdita di identità/guerra santa.

Tra l’altro, per esperienza, quando si ha così tanto bisogno di affermare le proprie radici, la propria identità, è quando l’identità sta vacillando, dal dentro.

La religione, qualsiasi essa sia, come le ideologie, divide non unisce. (Vedi post di domenica scorsa)

E più ci penso e più riconosco nelle religioni più seguite l’espressione di un potere di genere. Puoi immaginare quanto me ne senta lontana.

E me ne sento lontana anche ora, in questo momento della mia storia personale che mi vede, ogni giorno, faticosamente, cercare senso e bellezza, nonostante lo squarcio nel petto.

A maggior ragione penso che la partita sia tra uomini, non fra dei.

Riesco a rispondere quasi in tempo reale.

Cara V.
Rispondo pubblicamente perché è così che desideri il confronto.
E parto dalla tua ultima affermazione: “penso che la partita sia tra uomini e non fra dei”.
E, certamente, chi ha responsabilità amministrative deve agire come coraggiosamante hai fatto. Già qui c’è un momento di tristezza. Viviamo in anni così terribili che un ovvio comportamento organizzativo può tramutarsi in rischio. Anche come scrivere su un Blog, dove tutti, prima o poi siamo riconoscibili.
Figurati se non sono d’accordo. Del tutto d’accordo.
Tutto il mio profondo disagio di questi ultimi anni (in particolare dall’11 settembre 2001) parte proprio da qui.
Speravo che con la fine del comunismo storico (a prescindere dalla del tutto ovvia evoluzione del comunismo cinese verso un capitalismo di stato e la persistenza di Cuba, dove gli omosessuali finiscono in prigione) si entrasse finalmente in una fase politica di attenuazione delle ideologie totalitarie.
E si ritornasse ai fondamenti delle democrazie: libertà individuali, regole condivise, principio di maggioranza nelle decisioni, mercato attenuato nelle sue conseguenze attraverso le politiche sociali (il tema della mia vita professionale), ricerca della estensione dei diritti …
Il tutto su basi razionali. Cioè sulla necessaria comunicazione pubblica fra “parlanti” che devono attraversare i loro anni di vita convivendo con gli altri.
Un partito politico (Al Qaeda) che importa ideologia dal nazismo europeo (Paul Berman, Terrore e liberalismo: perché la guerra al fondamentalismo è una guerra antifascista, Einaudi, 2004) ha interrotto questo percorso. Ha attaccato materialmente e simbolicamente prima gli Stati Uniti (storico modello dello stato occidentale, con una Costituzione liberale della fine del ‘700, prima ancora di quella francese), poi la Spagna (simbolo di una terra conquistata per secoli dai musulmani) e poi l’Inghilterra (simbolo del multiculturalismo inclusivo, come ricorda Amartya Sen). Poi c’è Beslan: dove è la cultura dell’infanzia che è stata mortalmente colpita.
E questo attacco ha consenso non solo in quei popoli, ma anche in larghe fasce di opinione pubblica di sinistra (e un po’ più minoritarie, in quelle della estrema destra). Non è stato l’occidente a creare il nemico. Anche i bambini capiscono e reagiscono con più rimostranza quando uno “ha cominciato per primo”.

Tenere per il nemico non è sintomo di equilibrio psichico, ma piuttosto mette in evidenza una pericolosa mancanza di identità e di lealtà verso quelli della tua comunità, a cominciare dai più umili, quelli che muoiono quando scoppia una bomba messa lì per uccidere
La storia la sai. Ci siamo dentro. La nostra vita può cambiare una mattina alla stazione o in uno spazio in cui andiamo ad ascoltare musica.
Perché il nodo è la religione? Lo dico da laico. Da disperato che non ha la consolazione in nessun aldilà: la morte come “supremo spavento” (Franco Battiato). Ma la realtà, purtroppo, è questa: la religione musulmana è fondata su un “libro”. Su quello che è scritto e su come è letto da piccoli leaderini che si fanno forti della loro predicazione. La religione cattolica, invece, è basata sulla “parola”. Per non dire della forza di una religione fondata su un dio che si è fatto uomo. Gesù Cristo ha parlato ed è stato raccontato dagli apostoli.
La questione è questa: un libro scritto di fronte ad una parola, che cambia nello spirito dei tempi.
Quindi anche le religioni sono differenti. Non sono tutte uguali. La religione musulmana pretende di essere inclusiva. Cioè quella giusta. L’unica.
E così una questione di carattere politico (la sicurezza di andare al lavoro spostandosi sui treni) diventa anche religiosa. Ossia relativa ai valori che sostengono la convivenza. Davanti ad una tale compattezza ideologica-religiosa-culturale le nostre mille piccole convinzioni vacillano e, in prospettiva, diventano pensiero debole nel reggere a tanta forza di massa.
E qui arrivo alla conclusione.
Nella psicologia sistemica si impara che, per comunicare, occorre che le identità dei parlanti siano chiare e non collusive. Si può comunicare quando sono chiare le rispettive identità.
Ed è questo che occorre fare. Chiarire con gesti anche forti quali sono le “identità plurali” della civiltà europea: diritti civili, distinzione stato/chiesa, libertà nelle scelte procreative, politiche di genere
Non solo appellarsi ai valori religiosi (ma non è moralmente giusto criminalizzare chi lo fa) ma alle regole storiche che nelle nostre geografie si sono costruite a partire dal 1500. Questo dovrebbe farlo la sinistra, ma non può farlo perché essa si fonda sulla critica di questo percorso storico e vede nelle masse di cultura musulmana il nuovo proletariato per un altro scossone rivoluzionario, come nel 1917.
Lo fa, invece, la cultura di destra. Non posso negare l’evidenza.
Lo fa un manifesto che va letto laicamente, indipendentemente dai promotori.
Proprio come dovrebbe un qualunque pensante che vorrebbe vivere ancora per almento 30 anni e consegnare una terra vivibile per coloro che di anni da vivere ne hanno 70 o 80.
E’ una questione di responsabilità.
Tu lo hai fatto con la decisione relativa all’ospite che insultava la profuga bosniaca e ti trattava “come una capra”.
Io (ubi maior minor cessat) lo faccio prendendo distanza incolmabile da un pezzo della mia storia politica.
Ciao
Sarà meglio che continuiamo a parlare solo di musica. A proposito: lo sai che una delle prime cose che hanno fatto i talebani è stata quella di proibire la musica ? Pensa: non avrei mai potuto conoscere i Necks !
Così tutti i pater finiscono in gloria.

Paolo


I Blog

I Blog sono strumenti comunicativi di immenso interesse. Propongono nuove forme di comunicazione, di relazioni interpersonali ed anche di apprendimento culturale.
Più li frequento e più sono talvolta infastidito dal narcisismo che li permea. Trovo una inflazione dell'Io che non è indice di di buone cose per il futuro.
D'altra parte sono incuriosito da questa cultura del frammento che vi si manifesta. E' proprio la curiosità del sociologo che mi prende. Mi colpisce i parallelo fra il costruirsi della opinione pubblica nel '700 e quest'altro costruire identità molto cariche di opinioni e spesso molto poco di informazioni. Eppure la direzione è questa ... O meglio nel futuro tenderanno a convivere culture anche biografiche molto argomentative con altre più segmentate, eppure caratterizzate da un specifico "senso comune del frammento".

Si va costruendo una opinione pubblica frammentata. Sto proprio pensando ad una categoria interpretativa: si sta sviluppando una specie di intelligenza diffusa basata sulle connessioni. Tante interazioni che costruiscono un senso comune non più televisivo. E questo mi sembra un grande passo avanti ed un beneficio di queste tecnologie.

Trovo conferma di questa intuizione in chi ha già indagato su questi mondi informativi:

I weblog ... rappresentano, a oggi, la creatura più matura del Web; si potrebbe addirittura definirli come una nuova tecnopsicologia. Punto di incontro tra network sociali e network tecnologici, la blogosfera è una rete di interazioni intellettuali dirette e navigabili, risultato dell'apporto gratuito, aperto e verificabile delle conoscenze e delle opinioni di molte persone su argomenti di interesse generale e in tempo pressoché reale. Il funzionamento dei weblog si basa interamente su queste connessioni. Come l'intelligenza, si sviluppano e crescono con l'uso. I weblog sono uno spazio per la riflessione condivisa.

Proprio dai weblog potrebbero venire i prossimi sviluppi dei motori di ricerca. Ci si può chiedere, ad esempio, se il tanto sospirato Web Semantico - il motore di ricerca che penserà per noi - potrà avvalersi dei track-back dei weblog. Oppure se esso sarà in grado di interpretare anche i differenti contesti d'uso delle parole chiave. Di certo, da quando i loro contenuti sono stati indicizzati da Google, i weblog hanno contribuito a una maggiore precisione e flessibilità delle ricerche, fornendo un indice non solo dei testi ma anche dei contesti, con configurazioni di temi e associazioni estremamente accurate.

Quale che sia la sua forma definitiva, il Web Semantico accelererà enormemente lo sviluppo dell'intelligenza connettiva. Questo libro spiega come.

 

Derrick De Kerckhove, in Giuseppe Granieri, Blog Generation, Laterza 2005, p.  VIII


Memoria autobiografica

18 febbraio 2006 

Caro C.,

è da molto tempo che non ci sentiamo (forse dal 2002, dopo un tuo intervento al Convegno di Todi, per la rivista Liberal, mi sembra)

Non seguo con attenzione tutti i tuoi interventi, ma ti penso spesso,  con molto affetto e gratitudine.

 

Sono spinto a scriverti sollecitato da una grande energia creativa che mi sta prendendo in questi giorni.

 

Ho 57 anni e mi sento in una fase della vita che chiamo la pre-vecchiaia. Non so se è per tutti così, ma per me questa fase si sta presentando come la più bella del mio ciclo su questa terra.

Riannodo i fili, tendo a vedere i lati positivi (compresi i tanto denigrati nonno e padre), faccio cose interessanti (per esempio in queste settimane sto frequentando un corso tenuto da un giovane regista e attore comasco sulla "Lettura espressiva": insomma per imparare a leggere bene un testo ad un pubblico, anche piccolo), leggo le cose più diverse ...

Certo molto del mio equilibrio è dovuto alla presenza di Luciana. Che, qualche giorno fa mi ha fatto uno dei più bei complimenti che possa immaginare: "Tu hai dalla tua, nel bene e nel male, un ottimo rapporto con le tue emozioni". 

Ma molto è dovuto al percorso di "allargamento della coscienza" che mi hai aiutato tu a fare, in un'altra fase della tua di vita. Quasi come un fratello maggiore che ha fatto un po' da padre (a proposito della tua ricerca sulla psiche maschile). 

Dell'analisi ricordo quasi tutto. Perlomeno i vari momenti di svolta. Ma prima o poi (grazie alla mia parte ossessiva) tirerò fuori i miei appunti, i sogni appuntati, le tracce dei ricordi... 

Ma volevo dirti che  in questi giorni si affaccia un tema.

Quello della "individuazione"

Ricorderai che il mio intellettualismo mi  portava a leggere molto di psicoanalisi e di teorie junghiane. L'individuazione mi appariva come l'OBIETTIVO per il cambiamento.

E tu, con saggezza, una volta mi hai detto (più o meno): "Guardati dall'inseguire il traguardo della individuazione. Non è così che succede. Può essere che arrivi del tutto in modo inaspettato e che sia rappresentata dall'ombelico di tua moglie". 

Certo l'ombelico di Luciana è un pezzo di quella che potrei chiamare la "mia" individuazione.

Ma alcune circostanze sincroniche (altro tema seminale nella mia vita) mi hanno portato ad entrare in contatto con un gruppo di musicisti jazz australiani che mi buttano in uno spazio psichico davvero mai provato. Si chiamano The Necks. Li ho incrociati per caso, sincronicamente per l'appunto, ed ora li ascolto come quella musica che era lì solo per essere da me scoperta. Come una delle prime sabbie con cui superai la mia diffidenza verso quel modo di fare analisi. C'era, per l'appunto, un tesoretto fra alcune piante. 

Li ascolto ogni volta con stupore per il loro Interplay, per la bellezza del suono, per la forza con cui costruiscono le loro architetture musicali, Tieni presente che fanno una sola traccia di circa un'ora. In realtà le loro sono composizioni, del tutto analoghe a quelle della musica classica. Gli ho persino scritto, e il contrabbassista mi ha risposto, con sorpresa e gratitudine, dicendo: 

Dear Paolo,  

This is simply fantastic! You have done an incredible job! Grazie, grazie so much! 

It means so much to us to know that our music has moved someone the way it has moved you. You inspire us and we promise to keep making our music! 

 

Il loro ascolto mi ha "carica" in senso creativo. E mi è venuta voglia, molta voglia, di farli conoscere in Italia. E qui viene Internet (che sciocchezza criticare la globalizzazione e vederla come limite: piuttosto la modernità delle tecnologie avvicinano e rendono possibile creare nuove relazioni),

Infatti ho trovato un sito dove si possono scrivere recensioni musicali al di fuori delle regole della critica professionale. Scritti di persone cui piace la musica e vogliono dire ad altri le loro emozioni.

Finora ho scritto di due dischi dei Necks: 

Di questo volevo parlarti.

Di come a 57 anni si possono annodare i fili e vedere le connessioni fra un piccolo parlare nel chiuso della tua stanza, la musica jazz che piaceva a mio padre e la scoperta delle nuove frontiere, il leggere testi letterari in pubblico, e il volerlo ricordare a chi è stato importante nel mio percorso di vita. 

un caro saluto e grazie per l'attenzione

ciao

Paolo

 

caro Paolo, ti leggo solo io, naturalmente.
quanto mi scrivi mi ha molto commosso.
questo incontro coi Necks è davvero fantastico!
mi sembra che tu stia moto bene, e che la pre-vecchiaia ti faccia molto
bene.
Un carissimo saluto a te, e a Luciana,
                       C.

 


Fine gennaio 2006

Studio e aggiorno il sito. Insomma arredo le mie conoscenze, come diceva la saggia Laura Conti.

Ma quando si fa sera spengo la luce e ascolto nel buio Drive By dei Necks. Una scoperta fatta grazie all'aiuto di Geoff Dyer.

Ho scritto per loro una recensione, pubblicata sul sito deBaser una felice scoperta di questi mesi.

Nella storia del Jazz spesso si legge che, nei momenti di svolta, gli appassionati ascoltatori dicevano "c'è uno che suona in modo nuovo" e correvano a sentirlo. E' avvenuto per Louis Armstrong, che con West End Blues (1929) innovava nel Jazz di New Orleans. E ancora con le orchestre di Duke Ellington. Poi con il Bebop di Charlie Parker. Con The Birth of Cool di Miles Davis. E ancora con Olè di Coltrane. E ancora con il Jazz nordico di Garbarek. Ma sono molte le svolte.

Ci sono vari modi, non incompatibili, per suonare il Jazz: quello degli Standard (e si può farlo in modo mirabile come il Trio di Keith Jarrett), quello della tradizione (come continua a fare con encomiabile coerenza Winton Marsalis), quello della rielaborazione del Pop (in Italia ricordo Danilo Rea e i Doctor 3). E ancora altri.

Ma oggi la nuova frontiera la stanno percorrendo i Necks, un gruppo australiano che lavora da 15 anni e che persegue con determinata coerenza un progetto musicale unico. Di loro si dice:

"Entirely new and entirely now. They produce a post-jazz, post-rock, post-everything sonic experience that has few parallels or rivals" (da The Guardian)

I Necks hanno qualche precursore, ma pochi imitatori. Il loro è Jazz minimale, è Post-Jazz, è Post-Tutto, come di loro dice Geoff Dyer. 

L'ascolto che mi ha lasciato trasognato è quello di Drive By. Un pezzo unico di circa 60 minuti. Una scultura musicale sostenuta dal  tappeto sonoro della batteria di Tony Buck. Non ricordo altro drumming di così grande bravura per precisione e ritmo. La musica sembra appartenere al genere del minimalismo. Ma non è solo così: è continuamente attraversata da altri inserti sonori. Come voci di bambini, lampi notturni, rintocchi acustici, armonie da contrabbasso.

La ricorsività e talvolta monotonia del minimalismo qui è vivificata dalla improvvisazione

La musica procede per sottrazione ed estensione. Talvolta Tony Buck è lasciato da solo a tenere l’opera (perché di grande opera d’arte si tratta !), ma poi di nuovo riprendono in tre.

Impossibile non essere ipnotizzati da questa musica. Forse, senza particolari intenzioni terapeutiche, i Necks intercettano le onde cerebrali.

Questa esperienza  sonora si conclude, infine con una notte stellata in cui cantano i grilli. Le chiusure sono tanto importanti come le entrate. Ma qui siamo al massimo. Sono 10 secondi di vera magia.

Chiunque ami non solo ascoltare musica, ma entrare in uno spazio musicale non perda i Necks e cominci pure da Drive By. Ma poi cerchi tutti gli altri loro dischi.

Ascoltateli: è una esperienza musicale straordinaria.Sembra di stare in uno spazio fatto di note. O meglio, come dice Dyer, "è musica che contiene lo spazio che attraversa".

Ora ho anche un Album su cui annoterò ogni cosa di loro.

Certo sembra stupefacente che è dall'Australia che arrivino questi esploratori psichici della musica Jazz. Ma pensando A Picnic ad Hanging Rock di Petr Weir non è poi così strano.

Forse gli australiani sanno mettere bene assieme modernità, ambiente incontaminato e sogno.

Successivamente ho anche scritto di un loro altro disco: "Sex":

C'è una parola ricorrente nelle recensioni dei dischi del trio australiano The Necks: "unico". È vero. Fanno un Jazz nuovo. Diverso da qualsiasi altro.
Chris Abrahams (tastiere), Tony Buck (batteria), Lloyd Swanton (basso) sono nati durante i primi anni '60. Proprio quando John Coltrane suonava "Olè", che viene accostato a loro per la sua capacità di innovare, e 10 anni prima dell'ascesa del trio Keith Jarrett. Insomma: appartengono ad una nuova generazione di musicisti Jazz. E del passato sanno distillare il più sapiente uso degli elementi essenziali del Jazz: il rapporto particolare con il tempo, in gergo lo "Swing"; l'improvvisazione; il fraseggio del singolo esecutore, anche all'interno di un gruppo; ed, infine, quell'elemento che differenzia il Jazz da altri generi di musica, ossia quella qualità speciale che chiamiamo "stile". Questi richiami li devo al libro: Joachim Ernst Berendt, Il nuovo libro del Jazz, Vallardi.
La loro unicità mi sembra dovuta ad alcuni fattori: creano un unico pezzo della durata di circa un'ora; il suono è acustico e potente; l'uso dell'elettronica è appena accentuato; il "tappeto" musicale, che si richiama alla ripetizione ipnotica del minimalismo e su cui si appoggiano le armonie e le improvvisazioni, è semplicemente sublime; non ricorrono a dissonanze Free per dimostrarsi "diversi". "Sex" è del 1989: 15 anni prima di "Drive By". Eppure i due dischi sono fra loro vicinissimi, a conferma del loro stile e della loro coerenza artistica.
Per ascoltarlo occorre "darsi tempo". Meglio ancora quando diventa buio e cominciano ad accendersi le prime luci della notte.
Provo a scrivere cosa succede. L'inizio è una cascata di note di piano che rimbalzano sul tappeto del drumming di Tony, cha da subito comincia ad ordire la sua trama. Il ritmo rimarrà sempre quello, con continue variazioni, ma con lo stesso disegno: credo che ci voglia una forza incredibile a tenere intatto e senza un errore, questo tempo per un'ora filata… 4 o 5 note acustiche di piano in tono melodico… l'idea è buona, altri andrebbero avanti su quella scia, ma Chris le lascia lì, forse per farci desiderare che ritornino ancora… il contrabbasso di Lloyd diventa un violino, ma soprattutto evoca le porte che si aprono nei castelli delle favole… variazioni del tappeto di Tony, preciso come l'equibrio biologico della vita. Accenno di aumento della velocità, forse solo una impressione, come nei sogni dove tutto ha misure diverse… sassi che si rotolano fra di loro nell'acqua di una grotta… campanelle, ma forse no, forse era un sogno perchè sono già sparite… secchi colpi di bacchetta in tono sordo-acuto, ancora solo per un attimo… avanti con lentezza, sempre uguale e sempre diverso… Sono passati 20 minuti. La meraviglia è che sono ad un terzo del viaggio. Mi viena da sorridere come Noodles nella fumeria d'oppio, alla fine del film di Sergio Leone "C'era una volta l'America". Ma l'espansione di coscienza dei Necks è di tutt'altro tipo: loro realizzano un ponte fra lo spazio musicale che stanno creando e le mie onde cerebrali.
Alla metà del disco cominciano a crearsi nella mente delle immagini, ogni volta diverse, tutte rivelatrici di altre parti della realtà, mai drammatiche. È tutto così "sincronizzato": dinamica, ritmo, variazioni, battiti del cuore, respiro, movimenti del corpo… 34° minuto: Tony aggiunge un battito della grancassa… ora l'ambiente sta ancora cambiando… più veloci, perchè ormai siamo dentro con loro e possiamo andare tutti assieme dove non siamo mai stati… mi sento nel cuore di questa scultura, come quando il marmo rivela la forma che aveva dentro.. e infatti i sassi della grotta ricominciano a rotolare… qui ora c'è un beat che vorrei memorizzare per il resto della mia vita… 44° minuto: interplay di tensione drammatica… improvvisazione onirica e i tre si mettono a raccontare le loro storie… 51° minuto inizia il passaggio alla chiusura… ritmo di nuovo più lento, ma sempre incalzante. Tony è ancora lì, da dove aveva cominciato, dopo essere andato da tutte le parti senza mai mancare di "assistere" i suoi compagni… chiusura su interplay batteria-basso con poche note di piano. The end.
Si esce dal sogno e si torna al reale. Ma con quel tono tra-sognato che fa percepire meglio la bellezza della vita. Grazie Necks: siete "unici", fate una musica "bella".
Vi invito al loro ascolto, di tutto cuore.
già pubblicato su Debaser: http://www.debaser.it/recensionidb/ID_8201/The_Necks_Sex.htm


"Bello". Di che cosa parliamo quando diciamo di una persona o di una cosa che è "bella"?

Provo anche ad avviare una conversazione sul tema del "bello". Che si smorza quasi subito. Forza delle connessioni nei Blog, ma anche labilità nell'approfondire, nel fermarsi  .. tutto deve essere veloce... solo rispostine ai vari intelocutori. Però la domanda rimane. Ed è una domanda importante.

1. Una semplice domanda di partenza
Ciao V
L'ho appena chiesto anche a Ruckert.
"Cosa vuol dire "bello ?"
E cosa rende un qualsiasi qualcosa "bello"?
E' l'aggettivo che uso di più , ma non so davvero bene cosa renda un oggetto "bello"

Tu sei la persona giusta per indirizzarmi


2. la prima risposta di Astime
Buongiorno Paolo :)))
Cosa vuol dire bello... potrebbe essere un modo, come ne "Le mille e una notte" per battere il tempo... infatti il significato di bello è sempre in evoluzione e "sfugge a qualsiasi definizione univoca e conclusiva" Remo Bodei, Le forme del bello. A me piace la concezione degli antichi greci, che utilizzavano la stessa parola per dire sia bello che buono.
Di una cosa sono convinta su tutti i ragionamenti possibili: la bellezza è negli occhi di chi guarda.
Buona giornata
Astime/Splinder

3. la prima risposta di Ruckert
caro paolo
provo a dire la mia qua sperando che ad Astime non dispiaccia. La tua è la classica domanda delle 100 pistole, che attraversa la storia dell'uomo. Paolina Bonaparte era un esempio di bellezza del suo tempo, ma oggi forse non sarebbe considerata tale. Nel cuore dell'africa la bellezza delle donne si gioca in funzione di criteri che per noi possono sembrare assurdi.
In tempi di propsperità sono considerate belle determinate forme, in altri prevalgono le magrezze.
Il viola è un bel colore quest'anno, ma vai a chiederlo a un teatrante.
Il bello così diviene relativo al tempo ed allo spazio sfuggendo alle definizioni assolute.
Poi alla fin fine mi piace molto la definizione di Astime "la bellezza è negli occhi di chi guarda" perché relaziona al soggetto la definizione.
D'altra parte quando ascolto l'inno alla gioia di LV Beethoven mi chiedo se sia possibile che qualcuno possa trovarlo brutto. Quella musica esiste nel mondo delle idee di platonica memoria come esempio di bellezza assoluta? Belli i dubbi :))))
Un caro saluto a tutti
Ruckert/Splinder

 

3. Ancora Astime

Di seguito un brano di un saggio di Praz che, a mio parere, di bello ne ha visto e scritto.
.....
Non è il solo, il Winckelmann, a preoccuparsi in quei tempi di determinare la linea della bellezza; Hogarth, Burke, Mengs teorizzavano in proposito, e la sua definizione del canone secondo rapporti matematici sarà ancora un riflesso di quella filosofia wolfiana che il Winckelmann aveva assimilato all’università, per poi distaccarsene. Ma codeste tendenze dell’epoca, assumevano una diversa sfumatura. Filosofia wolfiana affermare un solo bello, come d’un solo vero, applicando Euclide alla metafisica, o non piuttosto bisogno d’amante di proclamare l’universalità di quel solo bello che l’anima sua concepiva? Dolce mania, che in una forma estrema e grottesca può spingere un Caligola a proclamar senatore il suo cavallo.
Sostegni teoretici non mancano mai a chi non riesce a vedere il mondo che da un suo singolare punto di vista.
“Il più sublime oggetto che possa trattare l’arte per l’uomo che pensa è l’uomo” ...
Winckelmann, Mario Praz

4. Ancora Astime

Propone questo Link: http://www.emsf.rai.it/interviste/interviste.asp?d=152

 

5.      Inteloquisco
Grazie Astime. L'intervista a Bodei (conterraneo di Ruckert) è qui sul tavolo. I filosofi mi mettono soggezione: non l'ho ancora affrontata. Devo trovare il filone energetico giusto.
Trovo, dopo una scorribanda sulle recensioni di DeBaser, un bello spunto che mi parla della relazione fra musica e bellezza:

"La Musica è il segno più sublime della nostra transitorietà. La Musica, come la Bellezza, risplende e passa per diventare memoria, la nostra più profonda natura. Il superamento del dolore della vita è necessario affinchè si riacquisti il senso della Bellezza: in questo cammino la Musica, la cui Bellezza è impalpabile, ci viene in soccorso ed aiuto, poichè essa è come una luce che entra nei più reconditi spazi del tempio della nostra anima". (Giuseppe Sinopoli)

La sigla di chi lo ha proposto è - mi sembra- wanderer.
Lo lascio qui a ad amplificare questa riflessione a più voci. Le veloci voci che compongono la comunicazione che si manifesta sulla rete. La frammentarietà è il difetto: tantissime piccolissime scaglie comunicative. Mentre il capire ed approfondire richiede processi di pensiero largo, ricchi di sfumature, pieni di ponderazione. Il vantaggio è la quantità degli stimoli, le aperture che derivano da uno spunto ...
ciao a chi legge
Amalteo/Splinder
 

6.      Mi dice P, una vecchia amica con cui, da 35 anni ormai, ho un feeling profondo.
Non riesco a dirti solo che cosa vuol dire per me “bello” di un oggetto.
Forse perché io l’aggettivo “bello” lo uso molto di più per la natura, il mondo. “Bello” é quindi qualcosa che mi tocca, mi trasforma – magari per un istante – qualcosa con cui si crea una relazione. Qualcosa che mi fa uscire dalla solitudine e dal guardare e pensare solo a me. Il “bello” in questo senso non mi annulla, non mi sovrasta, mi fa sentire “parte di”.
“Bello ” - riferito a un oggetto - é quell’oggetto che in parte mi stupisce, arriva come una specie di sorpresa, e in parte corrisponde a qualcosa di noto, di conosciuto, di ritrovato. Qualcosa, insomma che non mi aspettavo e mi aspettavo al tempo stesso.
Poi quando dico “bella persona” sento che sto parlando di qualcuno che mi rimanda una sorta di armonia con se stesso, una padronanza delle relazioni mai usate come potere sugli altri. In fondo, banalmente, una persona che mi fa star bene.
(vale anche per uno scrittore)
Comunque, caro Paolo, ti poni - e poni - delle “belle” domande!
affettuosamente
P.
 

7.      Dizionari
incantevole, magnifico, splendido, meraviglioso, superbo, incomparabile, incredibile, indescrivibile, impareggiabile, mirabile, stupendo, sublime; armonico, armonioso; soave, radioso, luminoso; abbagliante, solare; angelico, etereo, diafano, lunare; procace, florido
gradevole, piacevole, delizioso (questo piace alla mia amica Carla F.); arioso (e questo a M.R.), ameno, pittoresco, suggestivo, favoloso
da impazzire, da morire, da lasciarci gli occhi, fa favola, come il sole, come un cuore, da mozzare il fiato, senza confronti, senza paragoni
Tratto da: Dizionario analogico della lingua italiana, Garzanti
"Bella" questa idea dei dizionari.
Andrò avanti
Proprio "bella"
 

8. aggiunge Astime (vedi il suo Blog):

A proposito Paolo, che relazione fra l'orrido e il bello?
"Bella " estensione alla domanda. Davvero "bella" e intrigante.
L'Orrido di Nesso e di Bellano sono belli perchè provocano un brivido. Mettono a contatto con una ferita della terra. Questa frattura fra due coste di montagna e l'acqua che cade dall'alto. Ha camminato come torrente e invece di finire in un placido delta deve fare un salto. Così vediamo il contrasto fra l'acqua che cade e quella appena appena increspata del lago.
La bellezza dell'orrido: metterci vicino alla contemplazione di un contrasto.
Ecco la mia interpretazione associativa
ciao
P


Lettere

19 gennaio 2006

Bella giornata. Mi arriva una proposta di lavoro e ricevo una lettera da A.:

Caro Paolo,
sì ho proprio voglia di rimettere in sesto la mia casa perché diventi comoda per quello che mi piace fare: letture (sì! disordinate! ;-) ), disegni, PC e musica.
Nel libro di H. Pratt Avevo un appuntamento c'è una foto del suo posto di lavoro: una scrivania quadrata vasta quasi tutta la stanza (con sopra carta,disegni, pennelli, colori) e tutt'intorno scaffali pieni di libri. Bellissimo!
Il problema è che, poi, non mi verrà più voglia di uscire di casa...
A proposito di musica, sto godendomi le cassette fatte con i dischi di tuo padre (Chet Baker, ben Webster, Johnny Hodges) o regalatemi da te (ad es. le raccolte di Armstrong, gli Standards) che, gira e rigira, sono quelle che mi piacciono di più e che ascolto in continuazione.
Quando avrò un po' più di ordine devo trovare il sistema di metterle in MP3 in modo da poterle sentire con il mio player Creative Zen (più comodo di un walkman).
Sempre in ambito "musicale" mi sono ricordato che avevo da tempo ho un regalino per te (vedi il file JPG allegato): è la tomba di Petrucciani al Cimitero Père Lefèbre a Parigi.
E per finire, Amaltea ( :-D ) che per la tua generosa ospitalità ha funzionato meglio della sand play...
Ciao! a presto... de visu.

A.

Rispondo

A.
mi hai fatto un regalo bellissimo !!!
meglio di qualunque altro regalo
vado subito a mettere la tomba di Michel sul sito
peccato che non posso fare altrettanto con Nina Simone perchè per sua volontà le ceneri sono state disperse in vari paesi africani come ho appreso dal bellissimo:
David Brun - Lambert, Nina Simone : Une vie, Editons Flammarion, Paris 2005
GRAZIE GRAZIE GRAZIE ancora
Paolo

 

Qualche giorno fa, sempre A., incidentalmente mi ricordava Laura Conti, in questa lettera

Ciao Paolo!
Mantra ricevuto, grazie... dovrei stamparlo e attaccarlo sullo specchio in bagno, giusto per ricordarmi cosa non sto facendo...
In questo periodo sono impegnato a pulire e mettere a posto la casa.
Ho realizzato che tutto (tranne i servizi essenziali: letto & bagno) si era fermato negli anni 90'. Ora, cessato l'incubo dell'impegno lavorativo, non sopportavo più le pigne di libri (alcuni li ho trovati addirittura doppi), giornali, riviste, fotocopie, accatastate dovunque e piene di polvere, e una scrivania con 50 cm di spazio libero... >:o
Ho comperato alcune librerie all'IKEA e man mano sto mettendo in ordine il KAOS (addirittura!) ... tra maledizioni e mal di schiena.
In effetti è un lavoro un po' menoso perché prima devo pulire con un panno mangiapolvere ogni libro (il sistema Laura Conti non funziona, almeno in questo primo stadio, perché se lascio cadere il libro a terra di piatto mi scatena un piccolo tornado polveroso...) poi metterli negli scaffali. Bisognerebbe inventare libri anti-statici respingi polvere.
Sarà un lavoro lungo, anche perché, a volte, trovo/ritrovo un libro che mi piace/piaceva e mi metto a leggerlo... e arriva subito sera.
A volte mi viene in mente che Risé mi diceva che il mio disordine "esterno" era lo specchio di quello interno. Vedremo se sarò capace di togliere cumuli polverosi e disordinati anche dall'Anima... (scaffali IKEA per l'Anima?).
La cosa più bella di questo mio primo periodo da pensionato?  E' che ora dormo "bene" e non mi capita più di svegliarmi a metà notte con gli occhi sbarrati con l'angoscia di aver dimenticato di fare qualche pratica ministeriale.
Beh! Speriamo che me la cavo.... ;-)
A.


Nei giorni a cavallo fra il 2005 e il 2006

Attraverso uno scritto di Geoff Dyer la mia strada incrocia quella dei musicisti australiani The Necks.

Una folgorazione.

Per il mio ascolto è "Jazz minimale". Per Geoff Dyer è qualcosa di più: Post-Jazz. Anzi, per lui: Post-Tutto.

Da tempo mi sembrava che il Jazz non esprimesse più nulla di nuovo. Certo bellissime riletture dei "Classici", ma più niente di nuovo. Come le nuove strade esplorate, nella loro situazione storica, da Louis Armstrong, Duke Ellington, Charlie Parker (che non ha mai "preso"), John Lewis,  Keith Jarrett .

A parte l'unica ed irripetibile Nina Simone, trovavo più esplorazione in Norah Jones, Katie Melua, Anthony and Johnson.

Ora, forse ci siamo: The Necks sono davvero una esperienza di "note spaziali" del tutto nuova. E bellissima.


Musica

3 gennaio 2006

Ore 5 e 30. Ascolto il Koln Concert di Keith Jarrett.

In un attimo di tempo Jarrett crea il capolavoro. Vaga fra le note fino a trovare quella che ha significato nella situazione del momento.

E' una emozione che, per la riproducibilità delle opere d'arte (rinfrescare Benjamin!), fortunatamente per me e per l'umanità si rinnova ogni volta.