KEITH JARRETT
Album a cura di Paolo Ferrario
11 NOVEMBRE 2004
7 Luglio 2003
EVENTI. IL PIANISTA INSIEME A PEACOCK E DEJOHNETTE
Suonala ancora Keith, che Miles ti ascolta Umbria jazz festeggia i trent'anni con Jarrett
La grande forza di Umbria Jazz, giunta alla trentesima edizione e in programma dall'11 al 20 luglio, risiede nell'atmosfera, nella «continuità» di rappresentazione musicale (da mezzogiorno a notte inoltrata), nell'invasione di palchi e concerti che caratterizzano in quei giorni Perugia. Concerti ora gratuiti (nel centro storico, nei Giardini Carducci, in Piazza IV Novembre), ora a pagamento in luoghi più o meno istituzionali (i Teatri Pavone e Morlacchi, l'Hotel Brufani, la Bottega del Vino, l'Arena Santa Giuliana, l'Oratorio Santa Cecilia).
Notevole, come sempre, il programma. Tra i tanti: Herbie Hancock, Brad Mehldau, Ornette Coleman, Chick Corea, James Brown, Gilberto Gil, Maria Bethania, Caetano Veloso. Una manifestazione simile esige un'indiscutibile apertura. Così, venerdì 11 luglio, all'Arena Santa Giuliana suoneranno i fenomeni. Il pianista (più bravo del mondo) Keith Jarrett, accompagnato dal contrabbassista (più bravo del mondo) Gary Peacock e dal batterista moderno (più bravo del mondo) Jack DeJohnette. La manifesta genialità del trio "Standars", insieme da vent'anni, ha giustificato prezzi da paura, l'unico limite di Umbria Jazz: venti euro per non vedere e sentire niente (la piccionaia o giù di lì), 60 per capirci qualcosa, 120 per esserci veramente. Un'enormità, che però agli appassionati sta bene, visto il sold out registrato in pochi giorni.
È un concerto-evento. Basterebbe la bravura rivoluzionaria di Gary Peacock, sessantottenne dell'Idaho, capace di tramutare il contrabbasso da mero timekeeper a strumento melodico, poliedrico al punto da stare egualmente bene in contesti tradizionali (Bill Evans, Sonny Rollins) come pure in formazioni sperimentali (Miles Davis, Bill Frisell, Michel Petrucciani). O l'eclettismo di DeJohnette, sessantuno anni da Chicago, dieci di musica classica alle spalle, a suo agio anche con il pianoforte, con Jarrett già nel '63, nel quartetto di Charles Lloyd, un tipo strano che predicava un jazz più affine ai Grateful Dead che a Charlie Parker.
Ma c'è di più: Keith Jarrett. Nato nel '45 in Pennsylvania, a tre anni suonava già il piano. E non gli bastava. Da qui lo studio di percussioni, vibrafono e sax soprano, prima di dedicarsi unicamente al pianoforte. Una carriera che poteva fermarsi per sempre qualche anno fa, quando Jarrett ha scoperto di soffrire di un morbo raro, che pare cucitogli apposta da una perfida nemesi, capace di spossarlo oltremodo dopo pochi minuti. Una «stanchezza infinita» con la quale Jarrett ha imparato a convivere, preservando il suo stile. L'ostinato della mano sinistra, l'anarchismo evocativo della destra. Jarrett ha fatto e suonato di tutto. Ha lavorato con Davis, da cui dice di aver imparato «l'arte dell'essere leader» e che ancora lo «ascolta da lontano». Ha inciso dischi stranissimi, dove al piano si sommavano bizzarramente clavichord e strumenti a fiato ("Spirits"). Ha tributato Bach, Haendel, Shostakovich e soprattutto Mozart. Il suo mito ha però coordinate ben precise, e nasce all'inizio dei Settanta. Dal vivo. A Brema, a Losanna. Soprattutto, a Colonia.
È il 1974, dal concerto viene tratto un live che vende a dismisura. In maniera trasversale. A Colonia, Jarrett porta alle massime conseguenze il suo concetto di musica-improvvisazione: lasciar fluire, cioè, la propria creatività. Liberamente. Più che concerti, quelli di Jarrett sono atti unici di trance musicale. Un qualcosa che ammalia, rapisce, travolge. Uno «stream of consciousness jazzistico» che provoca uno slittamento di percezione: di Jarrett, la prima cosa a scuoterti è l'eccezionalità di vibrazione. Soltanto dopo, molto dopo, senti arrivare il perfetto fraseggio delle note.
Piccola e insolente lettera a Keith Jarrett
Me lo chiedevo giusto stanotte, bevendo una tazza di té amaro e scurissimo e guardando in tv due o tre scalmanati che si bullavano di essere giovani imprenditori di successo.
Mi chiedevo: cosa avevi in testa quella notte a Colonia. Qual è il segno sulla sabbia che bisogna oltrepassare per raggiungere il mondo a cui appartenevi quella notte, a Colonia. Ieri sera i nuovi padroni del mondo schiumavano attraverso lo schermo, parlando dei giovani di oggi che mancano di iniziativa. Come hai fatto quella notte, seduto a un pianoforte che neanche era il tuo, a dimenticare che il mondo è questo. E soprattutto. Come riesci a far dimenticare a me, ogni volta, che il mondo è questo.
Presa da: : http://thisisgizmo.blogspot.com/2005/12/piccola-e-insolente-lettera-keith.html